31 marzo 2009

Intermezzo III

INTERMEZZO III
Il suo viaggio stava per aver fine. Non ne era sicuro ma tutto ciò a cui aveva dedicato la sua vita e i suoi studi era là. Oltre quella fila di alberi fitti. Sembravano un muro. Una barriera. Un limite da cui si intravedeva l’oltre che andava cercando da così tanto tempo. Vi aveva dedicato tutto. La sua cittadinanza. La sua famiglia. La donna che da ragazzo aveva amato. Persino la sua stessa reputazione di studioso e di accademico. Tutto per la ricerca che ora si stava per concludere. Là. Dietro quegli alberi. Pochi passi ancora.
Si sedette per terra. Non gli importava del fango e del terriccio, ormai erano settimane che viveva nella foresta e persino la sua pelle stava tingendosi del colore delle foglie, sottili, sinuose come lame. Verdi lame.
Indossava pesanti pantaloni di tela tenuti in vita da una corda arrotolata diverse volte. Una lunga casacca di tessuto grezzo e sopra di essa una leggera cotta verdastra. Era dimagrito molto. Le sue provviste era finite da tempo e si era cibato imitando malamente i rituali di caccia del popolo delle foresta. Ma proveniva da una diversa cultura, ricca, abituata ad un benessere dato per scontato. Gli esiti delle cacce erano stati deludenti e si era così accontentato dei pochi arbusti semicommestibili che crescevano sotto lo spesso tetto di foglie. Cibo sufficiente per tenerlo in vita e permettergli di continuare la sua ricerca.
Dalla sacca che portava a tracolla estrasse un pezzo di corteccia che cominciò a masticare. Aveva un sapore intenso, uno strano miscuglio di essenze per lui completamente nuove. Lo rilassava masticarne piccoli pezzi. Le ruminava lentamente per poi sputarle. Molte volte aveva combattuto così i morsi della fame.
Si guardò intorno. Il silenzio era interrotto di tanto in tanto dal flaccido gracchiare degli uccelli neri che bivaccavano sui tronchi più alti. Non gli prestò attenzione e estrasse il quaderno. Fissò le pagine vergate della sua grafia fitta e minuta. Il suo diario. Lì vi erano annotate tutte le sue riflessioni sulla ricerca che stava compiendo. Le prove che si facevano sempre più evidenti. I dubbi che lasciavano spazio a certezze. Le sue ipotesi che divenivano rigo dopo rigo teorie. Inconfutabili. Evidenti. Palesi. La verità sembrava dipingersi sulle pagine consumate e ingiallite.
Il diario conteneva però qualcosa di più importante della verità. La strada.
Aveva mappato il suo cammino con attenzione. Si era avvalso di punti di riferimento che sperava potessero rimanere stabili per lungo tempo. Alberi possenti e secolari dalle forme bizzarre e riconoscibili, i radi corsi d’acqua, rocce che spuntavano qua e là e che sembravano briciole lasciate di proposito da possenti giganti. Nel diario vi era la strada verso la prova definitiva. La strada per possedere la verità.
Cominciò a scrivere. La sua mano era ferma nonostante la fame perenne e la fatica. Senza fretta descrisse il percorso svolto nell’ultima giornata. Ricordava ogni dettaglio con precisione e fedelmente li riportò sul quaderno. Chiunque avesse letto le pagine incise della sua grafia fitta e minuta avrebbe potuto ripercorrere il suo cammino sino a quel punto. Sino alla soglia dell’oltre. Questo era il suo intento. Non scriveva per sé. Ogni volta pensava ad un ipotetico lettore. Un altro esploratore che avesse voluto un giorno ripercorrere le sue orme. La sua ricerca. Un futuro affannato ricercatore della medesima verità.
Scrisse per lungo tempo vincendo la frenesia di correre oltre quell’intrico di alberi.
Lentamente si alzò, sputò il pezzo di corteccia ormai insapore e restò fermo un attimo. Ripensò alla sua carriera di xenologo. Agli studi sulle civiltà dei pianeti ai margini dell’Impero. Rivisse i lunghi anni di pellegrinaggio tra i monasteri dell’Ordine per studiarne la storia e le tradizioni. Conosceva i riti, le leggende, aveva letto i testi sacri, gli scritti eretici. Aveva sgolato libri antichissimi abbandonati in biblioteche diroccate. In una di esse, su un pianeta coperto di un denso e torrido deserto di sabbia gialla, aveva passato lunghi cicli immerso nella lettura di testi rinsecchiti dal caldo. E lì aveva fatto la scoperta. Era nascosta fra le pieghe di forme arcaiche e rituali. Sepolta in parole ormai sconosciute e recitate senza alcuna riflessione. Abbandonata in scaffali polverosi e dimenticati.
Lì vi era una verità che ribaltava la storia dell’universo così come era stata conosciuta sino ad allora. Si rivide giovane studioso abbandonare tutto. Gettare al vento una promettente carriera nelle accademie dell’Impero. Risentì per l’ennesima volta gli sberleffi dei colleghi attempati. Gli insulti. Lasciò tutto e si avventurò da solo nella ricerca. Di fronte a sé solo speranza. O forse un miraggio.
Quanto tempo era passato? Non lo ricordava. Si guardò le mani e le vide rugose. Vecchie. Quando aveva cominciato era giovani, morbide e flessuose. Tanto tempo.
Fece un passo nella direzione degli alberi. Cosa avrebbe trovato, si chiese. La risposta che andava inseguendo da cicli e cicli, si ripeté per l’ennesima volta. E poi? E poi la sua vita sarebbe finita. Finito lo scopo della sua stessa esistenza. Sarebbe stato solo un vecchio con una montagna di ricordi e di recriminazioni. Rimpianti e rimorsi. Solo un vecchio. Nessuna altra ragione. Nessun senso. L’assurdo sarebbe precipitato e l’avrebbe avvolto. Impietoso.
Fece un altro passo. Aggiustò la sacca sulle spalle e chiuse gli occhi. Mormorò una preghiera tradizionale del popolo della foresta e s’incamminò.
Giunse agli alberi in pochi minuti. Erano fitti tanto da rendere quasi impossibile il passaggio. A fatica riuscì a destreggiarsi. Si intrecciò e si fuse con i tronchi. Con la foresta stessa. Un ultima, assoluta, piena comunione fra lui, che era straniero del pianeta, e gli alberi che quel mondo dominavano. Un matrimonio rituale. Un abbraccio. O forse semplicemente l’ultima, finale, approvazione.
Lo xenologo uscì oltre il muro verde e marrone e si trovò di fronte ad un piccolo spiazzo scarsamente illuminato dal pallido sole che non filtrava dalle foglie. In mezzo lo vide. Si rese conto che neppure lui aveva realmente mai creduto alla sua esistenza. Era stata la sua segreta e inconfessata illusione. Il castello di certezze su cui aveva costruito una vita in esilio. L’inganno a cui aveva voluto credere. Ma ora era lì, solido di fronte ai suoi occhi.
Piccolo e diroccato ma enorme nella sua evidenza. Era vero. Era reale. E lo xenologo si inginocchiò e pianse.
L’aveva trovato. Il tempio. Aveva trovato il tempio.

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Vecchio quanto l’universo

Rami di Verdi Lame (28)
C’era qualcosa là in mezzo. Jabash lo vide sullo schermo leggero del supporto portatile. I satelliti geostazionari si stavano concentrando su un punto preciso del pianeta e la definizione delle immagini riusciva ad essere sufficientemente accurata nonostante il manto di foglie e rami che avvolgeva la superficie. I dati scarni di ogni satellite erano assemblati e, informazione dopo informazione, il computer centrale della Torre di Rilevazione 1 riproduceva un’immagine sufficientemente accurata. Jabash poteva scorgere sulla patina sottile del supporto elementi precisi del terreno: le increspature della vegetazione, i sentieri nascosti creati dal caso o da qualche animale sperduto, le onde del muschio pallido. Ordinò al computer di aumentare lo zoom. L’immagine si ingrandì e si sfocò ma a Jabash parve comunque di vedere due figure minute fra i tronchi. Attivò la riproduzione filmica della rilevazione satellitare e contemplò sullo schermo le due sagome muoversi. Eccoli. Il monaco e la donna, poco più che macchie scure sul mare verde del muschio e del sottobosco. Li vedeva spostarsi sulla mappa creata dai satelliti, correvano veloci. Sicuri. Come se conoscessero la loro destinazione.
Jabash fece scorrere lo sguardo nella direzione della loro corsa. Dapprima non notò nulla di strano. Non riusciva a capire dove il monaco stesse scappando. Stava solo fuggendo senza una direzione? Non sembrava. Correva spedito, senza esitazioni. Senza mai fermarsi, senza mai tentare di sviare i suoi inseguitori, nessuna tattica di mimetizzazione, nessuna strategia riconoscibile di fuga. Il monaco aveva una destinazione, Jabash ne era certo. Ma non riusciva a capire quale fosse.
Scrutò ancora lo schermo e ordinò la diminuzione dello zoom. E fu così che la vide. Non lontana da dove si trovavano il monaco e la donna.
I cinque satelliti geostazionari erano sulla perfetta perpendicolare. I sensori di rilevamento al massimo della sensibilità. La Torre 1 fagocitava dati, insaziabile. L’immagine era lievemente fuori fuoco ma non vi erano dubbi. Jabash rimase a bocca aperta. Come era possibile? Non poteva essere vera. Regolò lo zoom aumentandolo, la risoluzione perse fedeltà ma Jabash non cercava i dettagli. Solo una conferma che ciò che stava vedendo sullo schermo era una finzione. Un’illusione. Un inganno.

- Stazione di computazione, Torre 1. Mi ricevete?
- Perfettamente comandante.
- Voglio che i satelliti si concentrino sulle coordinate che vi sto inviando via supporto portatile. Voglio la massima risoluzione possibile su quel punto.
- Certo Comandante. Dati ricevuti. Procedo con la ricalibrazione satellitare.
- Visualizzi l’immagine direttamente sul mio supporto.
- Satelliti in movimento. Nuovo focus. Informazioni ricevute dal satellite 1. Ora il 2 e il 4. Il 5. 3. Dati completi.
- Quanto accurati, sergente?
- Attendiamo la computazione quantica.
- Mi avvisi quando sarà conclusa.
- Ricevuto.

Jabash tornò a fissare l’immagine. Scosse il capo. Impossibile. Poi ricordò che il monaco stava correndo proprio in quella direzione. Là. Il monaco doveva sapere dell’esistenza assurda di quella cosa. Ripensò alle parole dell’Imperatore. Alla sua laconica frase. Abbiamo paura. Ora Jabash capiva. Se ciò che stava osservando fosse stato vero tutto ciò in cui aveva creduto, la sua vita, i suoi fondamenti, la sua stessa esistenza sarebbero crollati. Montagna flaccida di inganni e falsità. Sentì il panico salirgli in viso. Smise di respirare ed ebbe paura. Un lungo momento di assoluta, cieca, incontrollabile paura. Irrazionale perdita di controllo. Chiuse gli occhi. Si costrinse a regolare il battito del cuore. Respirò forte l’aria odorosa della foresta. Ossigeno. Aveva bisogno di ossigeno. Riuscì a calmarsi. A pensare. Era un inganno. Non poteva che essere così. Una mistificazione. Uno degli infiniti tranelli del Cieco. Maledetto Tiresia. Si. Era di certo così. Un vile trucco. Jabash conosceva le capacità del Priore. Il Veggente lo chiamavano ma era solo un abile manipolatore. Ogni sua parola conteneva inganno e menzogna. Si. Non potevano esserci dubbi. Era un ingegnoso artificio. Si tranquillizzò. Probabilmente neppure il monaco aveva intuito la verità. Correva, sicuro che ciò che lo aspettava a poche centinaia di passi potesse essere vero. Vero e definitivo. Probabilmente sognava il trionfo dell’Ordine e la morte dell’Impero. Jabash ebbe quasi pietà del giovane monaco. Ingannato. Costretto a sacrificare la vita per la gloria di Tiresia, per la sua indecente brama di potere.
Jabash sentì che la paura stava lasciando spazio alla rabbia. Alla sua consueta e amata rabbia. Moriranno, biascicò. Il monaco, la donna, il popolo fetido della foresta e ogni servitore dell’Ordine. E alla fine anche Tiresia. Il Cieco, Il Priore. Desiderò che il sangue chimico di Tiresia gli potesse scivolare fra le dita. Ne immaginò l’odore ammoniacale. Un fremito di piacere lo scosse. Allucinatorio delirio.
Sputò per terra in un gesto che esprimeva tutto l’odio e il disprezzo che provava.

- Comandante?
- Si?
- Abbiamo le immagini dettagliate. Ma che cosa è quella cosa?
- Non la riguarda sergente. Trasmetta sul mio portatile e faccia una scansione delle componenti di carbonio 14 e degli altri indicatori di decadimento temporale.
- Già eseguita Comandante. Viene svolta in automatico dai satelliti.
- Eccellente. E’ un falso, vero?
- No, Comandante. Non è un falso. Le rovine del tempio che vede sullo schermo sono autentiche. E stando ai dati raccolti sono vecchie quanto l’universo stesso. Senza alcun margine di errore.

Jabash non rispose, guardava l’immagine. Le rovine di un tempio. Piccolo, circolare, le colonne sottili. Il resti della cupola a spiovente. I radi intagli sulle pareti esterne. I tre gradini d’accesso alla stretta entrata. Era un tempio. Era uno dei tempi dell’Ordine. Ed era vecchio quanto l’universo. Nessun trucco.

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Grida Popolo della Foresta messo a morte. Grida e grida forte

Rami di Verdi Lame (27)
Pensò che era folle. Solo un uomo folle poteva correre in quel modo. Veloce e sgraziato come nessuna creatura mai prima di lui. Era orrendo a vedersi. La fatica gli devastava il volto in rivoli di sudore e sangue che dipingevano una maschera orrenda. Un dio della morte sceso sul pianeta alla disperata ricerca di vittime a cui santificare l’eterna sua sete. Non ne avrebbe trovati. Tutti erano già morti.
La donna seguiva l’uomo vestito con la tunica nera. La foresta urlava. Dolore. Sentiva il dolore degli alberi abbattuti. La linfa verde che sanguinava a terra fecondando il muschio pallido. Nutrendo ossa ormai sbiancate. Nell’aria vi era una vibrazione. La foresta sembrava ribellarsi allo scempio dell’Impero che avanza distruggendo, abbattendo, bombardando. Jabash il maledetto. Niente pareva soddisfare la sua brama. Cane immondo, servo dell’Impero. Sputò per terra la donna. Sentì la rabbia montargli dentro. Una rabbia densa, viscida, che la invadeva, la penetrava, la violava. Una rabbia che la stuprava, così come era stato stuprato il suo popolo. Pacifico e innocente. Figlio del verde e del marrone degli alberi, odoroso di foglie e imperscrutabile come mille tronchi saldi sino alla profondità più lontane della terra.
Quanti villaggi cancellati. Quanti uccisi e deportati. Come non fossero mai neppure esistiti. Neppure il ricordo. Si chiese se lei fosse l’ultima della sua gente. Se tutti gli altri, uomini, donne e bambini fossero ormai polvere a solcare il cielo e come una nube scura ad oscurare il sole, indifferente ad ogni patire. Sole rosso, come un bioia qualunque che continua a girare in cerchio. Avido.
Lei era il suo popolo. Ciò che avrebbe ricordato, ciò che avrebbe raccontato sarebbe rimasto. Altrimenti tutto sarebbe accaduto inutilmente e il suo popolo dimenticato e lei martire sarebbe stata due volte. Uccisa infinite volte.
Pensò al suo popolo. E lo chiamò. Lo invocò a sé come altre migliaia di volte aveva fatto.

- Venite, disseccati, tritati, macinati, venite, disponetevi in cerchio, una ruota gigante intorno a me, un solo girotondo. Nonni, nonne, padri e madri con i bambini in grembo, ossa, venite a me dalla polvere, venite. Voglio vedervi tutti, guardarvi. Voglio sul mio popolo messo a morte posare lo sguardo zitto e ammutolito.

E la donna correva, come danzasse nella foresta, veloce inseguendo un uomo vestito di nero che portava la sua stessa rabbia, la sua furia e la vendetta che era solo dolore infinito senza alcuno sfogo. Neppure nelle lacrime.
Correva la donna, come danzasse, e cantava. Un canto melodioso e triste soffocato dalla fatica e dal respiro affannoso che nessuno poteva sentire, né capire. Nessuno più parlava la sua lingua e l’uomo davanti a lei era indifferente.
Cantava la donna, un canto parco troppo ornato per essere ricordato, ma lo ripeteva incessante, mormorandolo, gridandolo, sussurrandolo, urlandolo in un unico grido che si perdeva dentro la foresta. Nel buio. E lontano nei ricordi.

- Suono. Mi sono seduta per terra e ho suonato e cantato malinconica: oh, popolo mio. Milioni sono stati a sentire intorno a me, milioni messi a morte si sono messi in ascolto, milioni.

Sino a che il cantò non si tramuta in muto pianto.

- Gridate da ogni sabbia, da sotto ogni pietra, da tutte le polveri gridate e da tutte le fiamme e da ogni fumo. C’è il vostro sangue e sudore, c’è il midollo delle vostre ossa, c’è la vostra carne e vita. Gridate forte, in alto. Gridate. Grida Popolo della Foresta messo a morte. Grida e grida forte.

La donna continuò a danzare tra i tronchi bagnandoli di sudore e lacrime.

Questi versi sono tratti liberamente dal “Canto del popolo Yiddish messo a morte” di Itzak Katzenelson nella traduzione di Erri De Luca – Mondadori – 2009.

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Cacofonia bassa che trasmutava in un rantolo

Rami di Verdi Lame (26)
Il monaco udì le esplosioni. Tonfi sordi perfettamente sovrapposti. Una cacofonia bassa che trasmutava in un lungo, profondo, rantolo. Bombe. Lo stavano stanando. Sentiva dietro di sé l’eco dei passi marziali dell’esercito di Jabash. Era ancora lontano ma lo sentiva. Forse lo immaginava soltanto ma il rumore degli scarponi sulla terra devastata dai bombardamenti e dagli abbatti-albero era lì, vivo, sincero, nella sua mente. Vide l’esercito come un’emanazione folle della sete di potere di Jabash. Il cane dell’Impero.
Continuò a correre.
Il respiro veloce, affannato. Il corpo allenato alle più dolorose fatiche da anni di noviziato. Sentiva la fatica ma la ignorava. I suoi istruttori avevano plasmato la sua resistenza rendendola assoluta. Ogni suo muscolo urlava invaso dagli acidi della stanchezza ma lui correva, veloce, sempre più veloce, ignorando ogni grido, se non il suo. Alto nel cielo.
La fede. La certezza incrollabile, assoluta, divina di servire il Priore Tiresia, di venerarlo in ogni azione, di glorificarlo in ogni sofferenza, in elevarlo all’Oltre in ogni lacrima versata dell’assurdo sforzo. Era solo questo a spingerlo avanti, un passo dopo l’altro. Un gamba oltre l’altra nell’eterna venerazione del Priore e dell’Ordine. Il monaco credeva. E la fede lo ripagava. Non era mai stato solo umano. Era l’incarnazione vivente, sofferente, urlante, sbavante, della fede, della religione, del Priore e dell’Ordine. La verità assoluta che era destinata ad estendersi ovunque. Gloria al trionfo del Priore. Gloria alla distruzione dell’Impero.
La donna gli era dietro. Si voltò e la vide, leggiadra fra i tronchi, quasi danzasse, quasi volasse sopra l’erba pallida e il muschio nella penombra della foresta. Incrociò i suoi occhi e vi lesse stupore, meraviglia e paura. Il monaco intuì che anche la donna aveva capito che la loro corsa non aveva via di scampo. Erano entrambi condannati a finire nel luogo in cui Jabash, lo Sterminatore, lo Sciacallo, aveva deciso che tutto finisse. Il palcoscenico su cui si sarebbe recitato l’ultimo atto. Il monaco sorrise, un ghigno si disegnò sul volto. Una smorfia rigata dai rivoli di sudore scuro che gli colavano sul volto. Fiumi di sale e sangue. Il monaco accelerò la corsa e gli parve di udire il rantolo affaticato della donna della foresta. Neppure lei poteva capire. Si stavano avvicinando. Mancava ormai poco.
Conosceva la direzione. Non era il caso a guidarlo. Non era Jabash ad intrappolarlo. A costringerlo nella gabbia come un vile topo. Strinse a se con un gesto inconsapevole lo zaino al cui interno era riposto il libro. Il libro. Lì vi erano tutte le risposte. L’aveva letto un’infinità di volte e ogni volta si sorprendeva delle parole che vi erano vergate nella scrittura minuta e fitta del vecchio xenologo. Rivide davanti a sé la pagina, la piccola mappa tracciata con un tratto incerto, titubante. Il percorso nella foresta, impossibile da svelare per le rivelazioni satellitari, la coltre di foglie era impenetrabile ad ogni scan. Un tappeto verde e nodoso che si stendeva sul pianeta coprendolo e nascondendolo. Celando il suo segreto.
Ma a terra la traccia era chiara. Il monaco la vedeva di fronte a sé, gli sembrava che quasi risplendesse luminosa come una scia di luce. La riconosceva. Era la stessa che lo xenologo aveva tracciato sulla mappa del libro. Esisteva davvero.
Il monaco non ne aveva mai dubitato.
Ricordò gli occhi morti e spenti di Tiresia, il Priore, l’Ultimo Cieco. Sentì la sua voce profonda. Lontana. Le poche parole che disse. Non le avrebbe mai dimenticate.

- Abbi fede.

E il monaco aveva avuto fede e ora stava correndo seguendo l’invisibile sentiero tracciato dallo xenologo. Una folle corsa per giungere nel luogo in cui tutto si sarebbe concluso. Pensò a Jabash e ancora un ghigno gli si formò sul volto. Percepiva quasi la soddisfazione dell’imperiale, del cane dell’Imperatore. Lo vedeva gioire della vittoria. Pascersi nell’aver ancora una volta abbaiato ai piedi immondi dell’Imperatore. Si sbagliava. Quanto si sbagliava. Non era Jabash a condurre questo gioco, Jabash si illudeva di essere il predatore ma si sarebbe ben presto accorto di essere solo una preda, indifesa. Burattino di un gioco più grande con cui non aveva nulla a che spartire. Se non la sconfitta. Se non la morte.
Il monaco continuò a correre nel fitto sottobosco. E rise. Rise come mai prima aveva fatto.

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25 marzo 2009

L’esercito di Jabash era Jabash

Rami di Verdi Lame (25)
Jabash fissava il vuoto di fronte a sé, la mente concentrata, lo sguardo perso altrove. Il suo esercito era schierato. In movimento. Distolse l’attenzione dall’immagine della mappa sul supporto portatile e attivo i canali di comunicazione con i fronti.

- Rapporto.
- Comandante, fronte nord in avanzata. Direzione 4.2, velocità inferiore allo stabilito di uno fratto quattordici.
- Fronte sud in avanzata. Direzione 4.3. Velocità prestabilita.
- Fronte est?
- Fronte est in stallo. Nessuna possibilità di distruggere la foresta. Tronchi troppo fitti per gli abbatti-albero. Velocità nulla.
- Ovest?
- In avanzata. Distrutti due abbatti-albero. Funzionanti in modo ridotto altri tre. Velocità inferiore di uno fratto due lo stabilito.
- Ricevuto. Aggiornamenti ogni sequenza di frazione. Chiudo.

Maledetta foresta. Jabash odiava la foresta. Quel reticolo fitto ed impenetrabile. Ammasso casuale e innaturale di alberi ed arbusti. Odiava quel pianeta sperduto. Per Jabash rappresentava il disordine contro cui si era sempre scontrato. Lui che era condannato alla biologia e all’imperfezione, aveva sempre lottato per portare l’ordine, la perfetta simmetria dell’equilibrio in ogni mondo in cui era stato inviato dall’Imperatore, suo signore. Lui che era sottomesso ai capricci infami di un corpo molle aveva speso ogni giorno della sua vita contro il caos, verso la lucida e fredda armonia dell’ordine. Poco gli importava che dietro quell’armonia si celassero genocidi e stermini di massa. Le creature inferiori erano solo un offesa alla gloria dell’Impero e un affronto alla perfezione dell’Imperatore.
Imprecò ancora una volta. Spostò lo sguardo sul supporto portatile e contemplò il cerchio perfetto sulla mappa di quel mondo mefitico. Le sue truppe schierate, disegnate come una marea blu, e più in là un puntino rosso: il monaco. Fermo, alla fine di ogni possibile corsa. Rinchiuso con quella donna blasfema in uno spazio verde che si stava facendo via via più piccolo, docilmente rosicchiato dai passi blu dell’esercito che non poteva conoscere ostacoli e limiti.
L’esercito di Jabash era onnipotente.
L’esercito di Jabash era la sua onnipotenza che si manifestava, la proiezione al di fuori di sé e della sua molle biologia, del suo desiderio di non aver limite, di essere ovunque e ogni cosa. L’epifania dell’evoluzione all’oltre. L’esercito di Jabash era la sua impossibile postumanità.
L’esercito di Jabash era Jabash.
Prese di fonte a sé un piccolo auricolare nero e se lo infilò nell’orecchio sinistro. Premette un tasto e si collego con il centro di controllo sulla Torre D-7. Gesti a cui solo lui era costretto. Ogni altro imperiale presente sul pianeta aveva impiantato nella corteccia sistemi di comunicazione a distanza migliaia di volte più veloci ed efficienti. Persino un bambino avrebbe potuto di più di quell’antico trasmettitore. Ogni gesto ricordava a Jabash la sua condanna.

- Torre D-7, datemi le coordinate degli aerei a sganciamento rapido.
- Due per fronte. Sorvolano le truppe come ordinato comandante.
- Eccellente. Attivate i flyer dei fronti est e ovest. Aprite la strada alle truppe di terra. Tempo dello sgancio 1\12000 cicli standard. Avvisate i comandanti di plotone.
- Ricevuto. Ordine trasmesso. Impatto fra 1\12000 cicli.
- Restate in attesa. Chiuso.

Chiuse gli occhi e contò. Uno, due, tre… non era neppure arrivato a 12 che udì le esplosioni. Perfettamente sincronizzate, l’una sopra l’altra. Suoni quasi sommati a far vibrare l’aria e le foglie intorno.
Gli ostacoli erano stati rimossi. Il suo esercito avanzava ancora e nessun intralcio a fermarne l’onnipotenza. Nessun limite.
Immaginò il monaco. Desiderò vederne lo sguardo di terrore di fronte al rimbombo del potere dell’Impero, il cupo suono della volontà assoluta dell’Imperatore che si estendeva ovunque. Il marciare del suo inumano esercito. Sorrise Jabash, sorrise di un ghigno crudele. Il monaco avrebbe assaporato la sua furia. Chiunque osasse sfidare il volere di Jabash, il servo fedele dell’Imperatore, era destinato a perire. Morte. Magari veloce ma solo morte. Osservò la propria ombra pallida riflessa sul muschio oltre il confine della foresta. Nell’ombra vide se stesso. Mortale sacca di carne e sangue. Debole e insicura, costretta al caso di una sopravvivenza labile. Fissò le proprie mani. Ruvide. Rovinate dal clima umido di quel pianeta maledetto. Imprecò ancora già dimentico del piacere delle esplosioni di poco prima. Sentì la consueta rabbia montargli dentro e poi l’invidia. L’invidia per uno qualunque dei suoi soldati. Esseri meravigliosamente semi-meccanici. Divinamente inumani. Perfetta comunione di carne e metallo. Osmotica evoluzione ad un oltre che per lui sarebbe rimasto solo un vago desiderio. Non gli sarebbe rimasto altro che la solitudine di una unicità biologica e putrida.
Cibo per vermi. Pensava a se stesso come cibo per vermi. Non sarebbe rimasta che polvere, fine ed impalpabile cenere spazzata via da ogni vento, persino dall’alito di un qualunque bambino. E di Jabash il crudele, il cane dell’Imperatore, lo sterminatore e lo sciacallo non sarebbe rimasta neppure la memoria, neppure il cupo ricordo dei popoli che aveva soggiogato. Sarebbe stato come non essere mai neppure esistito. Mortale, inutile, sacca di carne e sangue.

- Comandante?
- Comandante?
- Qui fonte est. Mi riceve? Comandante?
- Ricevo. Rapporto fronte est?
- Situazione di ostacolo superata. L’intervento aereo ha distrutto l’intrico di vegetazione di fronte a noi e ora gli abbatti-albero procedono regolarmente. Velocità uno su uno.
- Ottimo. Fronte Ovest?
- Situazione in costante miglioramento. Gli abbatti-albero ancora in funzione operano a pieno regime e abbiamo solo un leggero ritardo sulla velocità uno, circa di una frazione di ventesimo.
- Eccellente. Fronti Nord, Sud, Est e Ovest convergere sull’obiettivo. Gloria all’Impero.

Jabash si tolse l’auricolare nero. Era stanco. Questa caccia lo stava spossando. Non sentiva la solita eccitazione che provava ogni qual volta doveva recitare la parte del cacciatore. Non sentiva l’ebbrezza della paura della preda. L’immagine del sangue e della morte che stava portando, quasi l’annunciasse, non gli dava alcun piacere. Agiva meccanicamente ripentendo riti e azioni che ormai aveva imparato a memoria in decenni di comando. Trovare, inseguire, stanare e uccidere. Un burocrate della morte. Non sentiva il brivido dell’adrenalina, l’animale desiderio del sapore ferroso del sangue. No, non quella volta. Si chiese cosa gli stesse succedendo. Si vide vecchio. Cumulo di carne fibrosa. Anacronismo. Non si riconosceva neppure in quello scempio di carne che era il suo corpo. Si sognava metallo. Completamente metallo. Argenteo, lucido, freddo. Perfetto.
Jabash osservò la mappa colorata sul supporto portatile e vide la sua marea blu avanzare più spedita sullo sfondo verdastro della foresta. Il puntino rosso era ancora lontano ma era accerchiato. Non avrebbe potuto sfuggirgli.
Il monaco e la donna della foresta. Chiuse gli occhi. E si costrinse a pensare al rosso del loro sangue. Ci riuscì ma non trovò alcun piacere.

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Flessuosa come una foglia

Rami di Verdi Lame (24)
Correvano. Veloci. Flessuosa come una foglia mossa dal vento la donna sfiorava alberi ed arbusti. Pareva volare nella foresta. Era la sua casa. Rami e foglie. Marrone e verde.
Sentiva solo il battito del suo cuore, veloce, ritmato. Un tamburo interno che dava il tempo ad una musica che esisteva solo nella sua mente. E nei suoi ricordi.
Stavano scappando. Lei e l’uomo dalla tunica. Non le importava capire chi fosse. Da dove fosse venuto. Per lei era sufficiente ciò che vi aveva letto negli occhi. Il medesimo odio e la medesima pietà. Odio per l’Impero e per il suo sterminatore, Jabash il crudele; misericordia per il Popolo della Foresta. Correva. Lo seguiva. Era davanti a lei di pochi passi e si muoveva sgraziato, non abituato alle regole della foresta. Ma era veloce. Innaturalmente veloce. Non aveva mai visto nessuno muoversi in quel modo. A scatti improvvisi, quasi imprevisti. Pareva sempre sull’orlo di una caduta, di uno scontro con qualche tronco sbucato oltre fitti cespugli ma riusciva sempre a schivare gli ostacoli e andare avanti. Sempre più in fretta. Persino lei, lei che era la figlia e l’amante della foresta, faceva fatica a tenere il suo passo. Lei sentiva la foresta, gli alberi le parlavano una lingua muta e immobile. E sulle loro parole lei correva, quasi volasse.
Si erano fermati nella radura al centro del piccolo villaggio per poco tempo. Avevano tentato di comprendersi ma lei era ancora stordita dal sibilo dell’orrendo cubo. Il suo udito era ritornato quasi alla normalità e lei era riuscita a cogliere il suono della voce dell’uomo vestito della tunica nera. Era profonda sebbene nascondesse un timbro ancora giovane. Era poco più che un ragazzo. Le parole di lui le erano sconosciute. Non aveva mai imparato neppure la lingua degli uomini dell’Impero. Non le serviva. Le bastava riconoscere le loro urla di dolore e di morte dopo i suoi attentati. Aveva raccontato all’uomo la sua storia. Non l’aveva mai fatto prima di allora e lui non aveva compreso nulla, aveva solo ascoltato il suono della voce lontana di vite passate divelte e recise.
Erano seduti ai pochi raggi di sole che filtravano dalle foglie in alto, lui osservava un oggetto che aveva deposto su una roccia e lei osservava lui. Fu lui ad accorgersene per primo. Poi lei sentì il dolore della foresta esplodere tutt’intorno. L’Impero.
Non conosceva neppure il suono della parola rispetto il vile Jabash. Li stava stanando con l’unico mezzo che conosceva: la morte e la distruzione. Sentirono le piccole vibrazioni di oggetti volanti, come uccelli di metallo. Sentirono il fischio delle bombe che si abbatteva sulla foresta creando spiazzi enormi ed innaturali. Udirono il violento rumore delle macchine abbatti-albero che l’Impero tante altre volte aveva usato per devastare la Foresta e, infine, dentro i polmoni percepirono il ritmo, cadenzato e basso, della marcia. Migliaia di uomini avanzava dietro gli abbatti-albero senza tregua, senza interruzione. Un passo dopo l’altro.
La donna li aveva visti molte altre volte ma non riusciva a trattenere il brivido di orrore di fronte ai soldati dell’Impero. Creature fatte di carne e metallo dagli occhi spenti e cattivi. Si era chiesto se erano vivi ma ben presto se ne era disinteressata. Come ogni cosa dell’Impero anche quelle creature semi umane le erano nemici.
L’uomo aveva raccolto le sue poche cose di fretta, deposto il libro delicatamente nella sacca e le aveva dato la mano. Un gesto semplice. Complice. L’intimità che lei non aveva più dato a nessuno dopo l’arrivo dell’Impero sul suo pianeta.
Lei gli prese le dita scheletriche e nodose.
Lui cominciò a correre. E lei lo seguì. Esattamente come ora. Senza nessuna apparente direzione.
Avevano un buon vantaggio dall’esercito dell’Impero ed ad ogni passo guadagnavo terreno. L’esercito si muoveva lento ma implacabile. Una marea oltre gli argini che dilagava ovunque seppellendo ogni cosa. Un fiume enorme, placido, che non si sarebbe mai fermato.
Per un momento chiuse gli occhi. Prima o poi li avrebbero raggiunti. Avrebbe avuto di fronte a sé Jabash. Sarebbe morta fissandolo negli occhi e sputandogli addosso tutto l’odio di cui sarebbe stata capace. Desiderò con tutta sé stessa che quel momento arrivasse presto.

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Intermezzo II

Rami di Verdi Lame (23)
INTERMEZZO II
Il libro. La mano sanguinava, rosso ovunque.
Il sapore ferroso del sangue si mischiava con gli odori di spezie del porto e il dolciastro del lago si confondeva con il sapore sapido della morte. Oltre la riva, sfuocate sul lago si vedevano piccole vele sfiorare la superficie sporca dell’orizzonte e scivolare via in una perenne staticità eterna. Voci e grida si inseguivano nello spiazzo intorno allo sbarco delle navi. Uomini e donne e bambini, una calca indistinta di corpi accaldati e sporchi. Bancarelle e mercanzie accatastate in un mercato improvvisato che attraeva le genti delle aree abitate vicine e persino un po’ oltre.
Il Popolo della Foresta non aveva nessuna forma regolamentata di economia e tutto funzionava attraverso scambi e baratti di varia natura, perlopiù casuali incroci di esigenze diverse. Cibo per abiti, abiti per attività di qualunque natura, il costo era deciso semplicemente dal bisogno di quel momento. Non esisteva il guadagno solo la quotidiana soddisfazione di richieste e necessita di base. L’avidità non era mai stata neppure pensata.
Il pianeta della foresta era generoso con il suo popolo: spazi e terre per chiunque li volesse, cibo in abbondanza anche se privo di variazioni, una dieta ripetitiva e noiosa. Ogni altra cosa era un bisogno superfluo. Un lusso inutile.
Il porto era il luogo in cui di solito gli scambi si concentravano, nessuno lo aveva mai stabilito ma era ormai prassi comune accalcarsi lì per cercare quanto serviva tanto che in alcuni giorni vi si riuniva così tanta gente da rendere impossibile ogni forma di baratto e tutto sfociava in urla e confusione. Ogni abbozzo di pseudocommercio falliva miseramente.
Il sole quella mattina era sorto pallido.
Una leggera brezza spirava portando il sapore salmastro delle acque lacustri e spazzando via l’inconfondibile odore di muschio e alberi che gli abitanti della foresta si portavano addosso come un marchio. Il profumo dell’appartenenza.
C’era confusione, il solito sottile chiacchiericcio urlato di ogni mercato della galassia ma c’era dell’altro, sembrava che intorno aleggiasse qualcosa di diverso. Un silenzio denso pareva nascondersi sotto la superficie del vocio e ogni tanto emergeva improvviso, muto. Non era raro quella mattina vedere persone fissarsi come in attesa che qualcosa capitasse. Vi era nell’aria un’aspettativa di sventura, la sensazione di un disastro.
Inizialmente nessuno si accorse del vecchio. Giaceva in un angolo, quasi nascosto da una massiccia costruzione di legni scuri. Un semplice deposito utilizzato per stoccare piccole quantità di merci varie. Un luogo comune nel panorama del mercato tanto che nessuno vi prestava più attenzione. Era lì. Sepolto dall’ombra nera del rozzo deposito.
Vecchio, i capelli bianchi lunghi e disordinati gli cadevano sulla fronte e sugli occhi spalancati. Immobili e fissi sul nulla. Gli abiti erano sporchi di foresta, macchiati di verde e marrone in una naturale ripetizione mimetica dello sfondo abituale del pianeta. Era magro. Il viso scavato, segnato da una barba spessa e grigia. La bocca aperta a disegnare uno strano ghigno. Sembrava sorridere. Un sorriso deforme che veniva dal regno dei morti.
Dapprima furono dei bambini a vederlo. Lo presero a calci pensando fosse un vecchio addormentato, ci giocarono un po’ fino a che uno di loro non suggerì che forse era morto. Chiamarono i genitori con l’entusiasmo dei bambini di fronte alle novità.

- Un morto! Un morto!

E il Popolo della Foresta scoprì che l’omicidio aleggiava sulle loro teste e che il tabù poteva essere infranto. Ma ad altri fu chiaro che il cielo stava venendo a reclamare la loro beata solitudine. La fine si era svelata.
Il vecchio sembrava essersi trascinato per chilometri prima di accasciarsi e morire. Le sue scarpe erano consumate e sul viso si leggeva la fatica della vita che scivola via. Lentamente.
Lo deposero su una tavolozza di legno cercando inutilmente di animarlo. Gli tolsero la casacca lacera e videro la ferita. Uno squarcio profondo e lungo sulla parte laterale del costato. Era morto dissanguato cercando di raggiungere il porto stringendo fra le dita, persino oltre la morte, un oggetto. Un libro. Mai ne avevano sfogliato e letto uno ma sapevano che quell’oggetto era un libro. Consumato e fitto di una scrittura minuta e indecifrabile.
Le unghie taglienti del vecchio avevano scavato la superficie della copertina di pelle leggera. Il polpastrelli conficcati così in profondità da lasciare solchi e gibboni. Vi era il senso di una vita e la ragione di una morte in quella presa.
Il popolo della foresta che era accorso numeroso a vedere il cadavere dell’uomo ucciso si chiedeva chi fosse. Non era uno di loro. Neppure la foresta con i suoi colori era riuscita a cancellare il pallore lontano di una pelle aliena. I tratti del viso era diversi. Nessuno sapeva spiegare come o per quale ragione ma erano differenti. Estranei.
Il vecchio non era un uomo della foresta.
Fu lasciato a giacere immobile sulle assi di legno per molto tempo fino a che non vennero dai villaggi vicini gli sciamani.
Il porto era deserto e avvolto dalla notte quando giunsero e si sedettero intorno al corpo del vecchio e presero una decisione.
Per gli sciamani non esisteva il tempo. Le giornate passavano identiche l’una all’altra ma non vi era ripetizione, non un unico giorno che si rincorreva identico e assillante. Il tempo era una distesa che si svolgeva meravigliosa di fronte a loro. Il tempo aveva senso di per sé, nel suo banale scorrere. Non si dava qualità all’eternità che passava.
Sedettero per lunghe frazioni di ciclo. Il Popolo della Foresta in disparte, sul limitar del bosco in attesa di una loro sentenza. Intanto lo sciabordio placido del lago continuava indifferente.
La sentenza venne. I saggi si alzarono sulle loro gambe malferme e stanche. Uno di loro parlò. Non avevano discusso. Non avevano neppure parlato. Avevano lasciato che il silenzio li penetrasse e li conducesse alla decisione.

- Che sia bruciato. L’uomo straniero non è mai esistito. Così pure la sua morte.

Poche parole. Parole di paura. I saggi sapevano. I saggi avevano capito. Il loro mondo era giunto alla fine. La Foresta sarebbe stata distrutta e tutto il suo popolo perseguitato e ucciso.
Le porte segrete del cielo si erano aperte e quel vecchio che giaceva di fronte a loro era un emissario delle stelle e di tutti gli altri loro popoli. Ucciso probabilmente da altri emissari. Uomini che non conoscevano il tabù della morte.
Mentre lo sfrigolio del fuoco ardeva il corpo scheletrico del vecchio gli anziani alzarono una preghiera, un triste lamento che salì a spirale verso il cielo accompagnato dalle volute di fumo acre che si sprigionano dalla pira.
Nessuno nel cielo avrebbe ascoltato quella preghiera.
Il libro che il vecchio stringeva tra le dita non fu arso. Venne affidato al più saggio fra gli sciamani affinché lo custodisse segreto. Silenzioso monito al Popolo delle Foreste. Nessuno doveva conoscerne l’esistenza. Sarebbe stato tramandato da sciamano a sciamano fino a che qualcuno non sarebbe venuto a reclamarlo. Ma allora sarebbe stato già troppo tardi.

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Il segreto sarebbe stato svelato

Rami di Verdi Lame (22)
Il libro era aperto. Il monaco lo aveva poggiato su una grande roccia piatta. Lo aveva adagiato con deferenza, come fosse stato un essere vivente. Pulsante e delicato. Come se fosse suo figlio.
La superficie pietrosa era asciutta, l’umidità del muschio non era arrivata sino a lì e il monaco aveva pensato che su quella roccia il libro sarebbe stato al sicuro, riparato. L’aveva tolto dallo zaino che portava sempre a tracolla per leggerne ancora qualche pagina e per evitare che si sgualcisse o rovinasse. Il libro era la ragione della sua presenza su quel pianeta di periferia. Il libro e le parole che vi erano scritte. Le conosceva ormai a memoria. Le aveva lette e rilette nell’Abbazia durante le molte frazioni di ciclo che avevano preceduto la sua partenza. Durante il viaggio nel buio del cubo-merci le aveva recitate, mormorate come un mantra, un ordine ripetuto. Erano il senso stesso della sua esistenza. La sua ragione.
La vita trovava compimento nel libro.
Ripensò a ciò che vi era raccontato. Racchiuso quasi fosse uno scrigno dentro i fogli ingialliti e consunti dal tempo.
I libri erano oggetti rari, anacronismi estetici di qualche eccentrico collezionista. L’Impero li aveva banditi cicli e cicli prima in favore di supporti meccanicizzati e la Gilda dei mercanti li commercializzava raramente, scarso era il loro valore rapportato alla cura che richiedevano per il trasporto intersistemico.
L’Ordine, invece, venerava ancora vecchi alcuni tomi impolverati custoditi in antiche biblioteche. Erano gli antichi volumi che raccontavano la nascita dell’Ordine, i suoi primi martiri, il dogma e il la fede nel Priore. Redatti all’alba della storia da misteriosi amanuensi del Pianeta Sacro. Solo pochi monaci potevano ora toccarli e maneggiarli per cercare di preservarne l’integrità dal tempo e dal decadimento ma era il Priore l’unico a poterli sfogliare, a leggerli ed attingere alla loro sapienza.
Il monaco sapeva che inesorabilmente i libri che raccontavano le origine dell’Ordine si stavano lentamente disfacendo e neppure il Priore poteva impedirlo. Era un destino già scritto, l’entropia che si riversava nell’universo e che non aveva rispetto per niente e per nessuno. Neppure per la sacralità delle parole dell’Ordine.
Il monaco la prima volta che vide il libro pensò fosse uno degli antichi volumi dell’Ordine ma dopo una rapida occhiata capì che era molto più recente, consumato dall’uso e non dal tempo. Se lo trovò poggiato sullo scrittoio della cella dell’Abbazia in cui stava completando la preparazione al viaggio. L’aprì e lo lesse per tutta la notte. Senza fermarsi mai. Allo spuntare della prima alba l’aveva terminato e la sua vita era cambiata. Ogni certezza fu devastata e sostituita con altre, la sua visione del mondo era crollata e dalla ceneri nel era sorta una nuova, più forte, più vera.
Divenne consapevole della missione che lo aspettava, dell’importanza del suo compito, di quanto fosse vitale per le sorti stesse dell’Ordine, dell’Impero e della stessa galassia. Ogni cosa era scritta nelle pagine di quel libro. Il segreto che vi era rinchiuso gli si mostrò in tutta la sua enormità.
Ebbe paura ma la fede nel Priore fu più forte. L’Ordine l’avrebbe sorretto e in esso egli non avrebbe vacillato. Avrebbe sopportato i lungi cicli di dolore che lo avrebbero atteso.
E ora il libro era lì con lui sul pianeta della foresta, steso ad un pallido sole su una roccia asciutta e silenziosa. Il monaco lo fissò, una folata di vento soffiò fra gli alberi e il libro si aprì rivelando le pagine consumate e la grafia fitta e minuziosa che le decorava.
Il monaco non si alzò subito a chiudere il libro e lasciò che le pagine si agitassero al ritmo del leggero vento che si era alzato. Immaginò che la brezza stesse accarezzando i fogli ingialliti e che quasi vi leggesse le parole vergate nell’inchiostro nero per poi portarle via, lontane, ripetendole come un sussurro. Un brusio nascosto nel vento che si spargeva su tutto il pianeta annunciando che il tempo era arrivato.
Che il segreto sarebbe stato svelato.

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23 marzo 2009

L’odio nascosto nell’urlo

Rami di Verdi Lame (21)
Jabash fissava l’immagine che occupava tutta la parete della sala di osservazione. Poggiato sulla superficie metallica della stanza, verso ovest, lo schermo non era altro che una sottile patina. Un complesso sistema di organismi unicellulari foto-riflettenti in grado di emanare deboli bagliori colorati che venivano attivati da impulsi elettrochimici attraverso un diffusore wet-file. Un meccanismo piuttosto semplice usato nelle situazioni di emergenza per ricevere immagini in bidimensione, considerato dalle elite dell’Impero uno strumento obsoleto e scomodo era stato messo fuori commercio e i pochi pezzi rimasti nei magazzini venduti sottocosto alle colonie più esterne.
La stanza era vuota. Jabash aveva preteso che tutti i tecnici uscissero. Voleva restare solo. Il satellite geostazionario 4.D aveva individuato l’obiettivo. La mappatura orbitale che le migliaia di veicoli stavano completando aveva finalmente dato i suoi frutti.
L’avevano trovato.
Il monaco.
Si era spostato veloce dentro la foresta, nessuno immaginava che avesse potuto percorrere un tratto così esteso. Era ormai lontano dal luogo in cui era stato rinvenuto il cubo-merci.
Jabash immaginò che avesse corso senza interruzioni, senza soste. Lo ammirò. Un uomo costretto ad otto cicli standard di isolamento dentro un immonda solitudine attraverso intesi sistemi planetarie era ora capace di non pensare ad altro che a correre, veloce, implacabile verso il suo obiettivo. Ma quale il suo obiettivo?
Jabash sapeva che i monaci avrebbero dato mille delle loro vite per il trionfo del loro culto. La fede nel loro Priore era assoluta, incondizionata. Servi fedeli della brama di potere di Tiresia, il Cieco, il Veggente.
Vedeva il monaco sul grande schermo. Era lì in piedi, di fronte a lui. Le coordinate ben precise illuminate nell’angolo a destra. Lo osservò. Era magro. Scheletro di un uomo che continua a camminare. Nient’altro che volontà, pura, assoluta.
Era in un piccolo villaggio del Popolo della Foresta, qualche casupola abbandonata, la popolazione sparita. Probabilmente uccisa, pensò Jabash. Non provava nessuna compassione per le migliaia di morti che aveva causato; l’invasione imperiale su quel mondo di periferia era necessaria e i nativi erano solo piccoli e inutili ostacoli sulla strada della gloria dell’Imperatore.
Il monaco però non era solo.
Jabash ordinò allo schermo di aumentare lo zoom dell’obiettivo satellitare e immediatamente l’immagine si ingrandì.
Una donna stava in piedi di fronte al monaco. Una donna del Popolo della Foresta. Alta, sporca, dipinta di fango e terra. Jabash trattenne un moto di disgusto nel vederla. Provava ribrezzo per quelle creature selvagge. Degne solo di morire.
Le sue squadre erano già state allarmate e stavano raggiungendo le coordinate indicate dal satellite spia, poche frazioni di ciclo e sarebbero giunte sull’obiettivo. Jabash aveva preferito aspettare. Voleva prima vedere in faccia il monaco. Osservare il volto del suo nemico, conoscerlo, scolpirlo nella memoria, indelebile.
Il monaco fece un passo verso la donna. Perché il monaco perdeva tempo con una femmina del Popolo della Foresta. Quali erano i suoi piani?
Lei non si mosse, quasi che lo stesse aspettando. Sicura.
Jabash osservò, chiuso nella sala di osservazione della Torre 14, il monaco farsi vicino alla donna e ad un passo da lei parlarle.
Il satellite regolò in automatico lo zoom e si focalizzò sulle labbra del monaco leggendone il veloce labbiale e riconvertendolo in suono.
Una voce metallica e atona si diffuse per la stanza. Jabash ascoltò il monaco parlare.
La donna rispose qualcosa ma il sistema di traduzione del computer centrale non era stato aggiornato con l’idioma del Popolo della Foresta, era inutile conservare un linguaggio così primitivo. Ogni traccia del Popolo doveva scomparire.
La donna non parlò più. Cominciò una specie di danza, un lungo silenzioso racconto. Gesti, passi, smorfie, un linguaggio universale fatto di silenzi e di leggere movenze.
Jabash la osservò attentamente e un dubbio serpeggiò nella sua mente.
Era venuto a conoscenza di sporadiche azioni terroristiche contro alcune delle Torri nei quadranti periferici sotto il controllo dell’Impero. Poche cose, qualche Torre abbattuta e rade incursioni armate. I servizi di controllo del territorio sostenevano che si trattava di una banda di ribelli e che presto sarebbe stata catturata e giustiziata ma nessun risultato concreto era ancora stato raggiunto.
Erano azioni veloci, attacchi mirati con un solo obiettivo: distruggere le Torri e causare più morti possibili. Jabash aveva preferito non interferire e lasciare che fossero i servizi di presidio del territorio a sbrigarsela ma ora, vedendo quella donna muoversi raccontando una storia muta, intuì il perché dei continui insuccessi contro i terroristi.
Non era una banda organizzata. Era una donna. Sola.
Una donna carica di odio, di rabbia. Una creatura che portava avanti la sua vendetta personale. La folle azione di un singolo assalitore, imprevedibile, inaspettata, sfuggente.
Era un caso che il monaco fosse lì, nel villaggio abbandonato, a parlare con la femmina? Il monaco e la terrorista insieme.
Jabash riflettè.
Dalle parole del monaco sembrava che non la conoscesse. Che l’avesse incontrata per sbaglio. Una coincidenza? Aveva imparato a non credere alle coincidenze.
La donna finì di gesticolare mimando l’ennesima Torre abbattuta, avvolta dalle fiamme crepitanti fra le grida di morte e disperazione.
Vi fu un lungo silenzio e Jabash si chiese se il monaco avesse davvero capito cosa la donna gli stava raccontando.
Poi il monaco parlò e Jabash non ebbe bisogno del lettore labbiale per comprendere la parola che le labbra scarne e violacee dell’uomo pronunciarono. Era un nome. Il suo nome.
Jabash.
Jabash.
E vi fu l’urlo. L’urlo del disprezzo che brama vendetta, che chiede sangue. Sangue e morte a lavare lo scempio compiuto dall’Impero sul pianeta della Foresta.
Jabash non poteva ascoltare il grido demente della donna ma lo vide. Lo vide nello schermo e fu come se fosse stato urlato lì, con lui, nella stanza di osservazione. Assordante.
Lo vide vivo, stridente.
Lasciò che il grido silenzioso gli scorresse sulla pelle, nei tessuti, dentro fino al midollo. Fu come uno squarcio, una cicatrice incisa brutalmente, un marchio scarnificato.
Jabash non avrebbe dimenticato l’odio nascosto nell’urlo.
Quell’odio si sarebbe trasformato in dolore. Sofferenza. E alla fine morte.

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L’immondo servo dell’Impero

Rami di Verdi Lame (20)
Il villaggio era silenzioso, solo un leggero fruscio, lo scuotersi delle sottili foglie verdi mosse da un vento nascosto che da nessuna direzione pareva arrivare. Le capanne deserte, abbandonate. Fatiscenti. Le assi incrinate disegnavano architetture bizzarre, caoticamente inutili. Casupole impossibili di esseri misteriosi.
Gli stretti sentieri erano sparsi di detriti, foglie e melma fangosa. Il muschio aveva invaso ogni luogo dipingendo ogni anfratto del suo verde autunnale. La foresta si riprendeva ciò che le era proprio. Ciò che le era stato strappato. Temporaneamente.
Ogni cosa era immobile, in attesa, come sul bordo di una fenditura. Sull’abisso.
A centro del villaggio la donna osservava l’uomo. Era vestito di una lunga tunica scura, nera o forse marrone. Portava una leggera giubba più chiara come a volersi riparare dal freddo che lì mai sarebbe arrivato. I capelli erano lunghi, sporchi, la barba incolta ricadeva morbida sul petto. Era emaciato. Insanamente magro.
Se ne stava fuori dalla capanna di preghiera, uno zaino a tracolla e la stava aspettando. La cacciatrice lo sapeva. L’uomo l’aveva scorta scendere l’alto albero sul quale si era rifugiata, guardinga ad osservare. Aveva voluto che lui la vedesse, che si rendesse conto del potere della foresta. Che la temesse, lei che era la creatura degli alberi. L’emanazione vivente dello spirito della foresta.
L’uomo non si era scomposto.
Se ne stava lì, immobile, curioso, ad osservarla. Placido.
La donna annusò l’aria e non sentì l’odore della paura. Chiunque fosse l’essere di fronte a lei non la temeva. Lo guardò negli occhi e vi vide solo un infinito rispetto e una luce nascosta. Profonda. Una luce che aveva sperato di scorgere.
Lui si mosse. Lentamente. Posò a terra lo zaino e fece un passo verso di lei alzando docilmente le mani.
L’eretica lo osservò senza muoversi e lui fece un altro passo. Un rituale improvvisato di pace. Di diplomazia.
Pochi passi li separavano. Fu un gioco di movenze. Come due belve feroci, l’uomo e la donna si studiarono pronti a scattare con tutta la cieca furia di cui erano capaci. Un errore, un gesto avventato, brusco, improvviso. Sarebbe bastato quello per avventarsi l’uno sull’altra. E uccidersi. Sia l’uomo che la donna ne erano consapevoli. Lei ne era certa. L’avrebbe ammazzato. Ucciso e smembrato nonostante quella luce in fondo agli occhi, nonostante le lacrime di rabbia che lui prima aveva versato all’interno della capanna di preghiera.
Ma l’uomo non fece nulla di pericoloso. Piano, passo dopo passo, le si avvicinò, quasi volesse donarsi a lei. Darsi a lei nel nome della foresta. Del suo eterno silenzio.
Si fermò a un passo da lei. I loro respiri si sfioravano e lei senti l’alito di lui.
A quella distanza nessuno dei due poteva difendersi. Ogni attacco sarebbe stato mortale, ma anche ogni risposta lo sarebbe stata. Il colpo dell’uno e il colpo dell’altra. La morte di entrambi.
Si stavano fidando. Si sorprese. Lei che era la cacciatrice, l’eretica, l’unica assassina della sua gente, ora era lì, indifesa, davanti ad un uomo sconosciuto. Cosa stava facendo, si chiese. Non poteva, non doveva fidarsi. Ma nonostante le parole restò dov’era ed continuò a fissare l’uomo. Sino a che lui parlò. Ma lei non capì ciò che andava dicendo.

- Sei una del popolo della foresta? Dov’è la gente di questo villaggio?

L’eretica rispose chiedendo il nome dello sconosciuto. La voce le uscì stranamente roca, cupa. Si rese conto che erano passate tanto tempo dall’ultima volta che aveva parlato. Da allora solo il suo rabbioso mutismo e le urla di gioia nel vedere le torri cadere, nel sentire il caldo del sangue degli imperiali sulle mani.
L’uomo si voltò e indicò la piccola capanna di preghiera. Altri suoni sconosciuti. La lingua dell’uomo era musicale, scorreva lieve e soffusa. Come un canto.

- Che cosa era quel luogo? Sento un’aurea forte. Sento le preghiere.

La donna disse il nome del vecchio sciamano che ogni giorno nella stretta capanna di propiziava gli dei della foresta con le sue monotone litanie. Là, seduto sul piccolo tappeto di preghiera, colorato e consunto. A fatica trattenne le lacrime che giacevano nella sua memoria ferita. Umiliata.
Aiutandosi con i gesti l’eretica tentò di spiegare all’uomo la sua lotta contro le alte torri bianche; mimò crolli, squarci, sangue e morte. Negli occhi dell’uomo non leggeva nulla, se non attenzione, assoluta attenzione.
Raccontò con le mani la venuta dell’Impero, la discesa delle navi. Narrò lo sterminio del suo popolo, la sua eretica vendetta. La sua scelta per la morte. Morte per morte.
Ampi gesti di un teatrante muto che annunciava l’orrore.
L’uomo dalla tunica lunga rimase in silenzio ad ascoltarla. Osservò ogni gesto come se si fosse trattato di un condiviso linguaggio del corpo. Un ermetico alfabeto conosciuto solo da muti iniziati.
Lei finì il suo racconto non detto e l’uomo dapprima non disse nulla. Poi chinò il capo in un gesto di infinito sconforto. Compassione e tristezza. E disse una sola parola. L’unica parola che la donna conosceva. Un nome.

- Jabash.

E lei alzò gli occhi al cielo coperto dalla foglie verdi, sottili ed affilate come lame. E urlò. Urlò sino a che la voce non le morì in gola, esausta.
Jabash. L’uomo che aveva ucciso tutto il suo popolo. Jabash lo sciacallo. Lo sterminatore. L’immondo servo dell’Impero. Il vile.
Fissò negli occhi l’uomo e il suo sguardo mostrò tutto l’odio di cui era intrisa.
Jabash.

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Creatura innaturalmente perfetta

Rami di Verdi Lame (19)
Il monaco la vide scendere da uno degli alberi più alti. Creatura innaturalmente perfetta in una danza di puro equilibrio.
Si muoveva asincrona, ogni arto libero come governato da una volontà propria, indipendente. Le braccia e le gambe in una dondolio dodecafonico di sinuosità.
Strisciava lungo il tronco appigliandosi ad invisibili puntelli, era liquido denso, mellifluo. Appiccicoso e fastidioso. La donna accarezzava il tronco con tocchi sottili. Silenziosi. Seducenti.
Il monaco pensò ad una di quelle creature che infestavano i mondi più periferici, terribili e blasfeme corazze chitinose contornate da migliaia di protuberanze semimobili. Esseri aracnoidi che si cibavano di escrementi e carcasse. Li rivide nella memoria, enormi, tozzi, muoversi innaturalmente veloci, zampettare minacciosi oltre ogni ostacolo sino ad arrampicarsi su piante altissime e starsene ore immobili in agguato, in attesa di scorgere da qualche parte la putrefazione di cadaveri. Il cibo.
La donna aveva nei gesti la stessa mortale perfezione di quelle orrende creature. La medesima eretica seduzione.
Il monaco contemplò la donna scendere dall’albero a testa in giù, capovolta in un postura che sembrava sfidare le stesse, implacabili, leggi della gravità. Epifania di un diverso ordine nell’universo intero.
Le braccia si muovevano rapide, quasi disarticolate e si appendevano ad ogni cosa pur di sorreggere il peso del corpo. Le gambe stringevano il tronco in una morsa stretta, muscolosa e vagamente sensuale. I lunghi capelli corvini, sporchi di terra e fango, ciondolavano davanti come un lento pendolo, ipnotici. Ammalianti.
Era bellissima nella sua spietata perfezione. Una lama affilata e lucente.
Il monaco restò immobile a guardarla muoversi. Danzava con l’albero. Le parole della preghiera che stava recitando gli morirono sulla labbra, un lieve sussurro che si spense nel silenzio della foresta.
Chiuse il libro e fece per uscire dalla piccola capanna in cui si era seduto a pregare attratto dal vago senso di misticismo che aleggiava intorno. Mise il libro nella sacca a tracolla e in piedi si apprestò ad attendere l’arrivo della donna che come un angelo scendeva dall’alto. Improvvisa e inaspettata, come una rivelazione.
Era la prima creatura vivente che vedeva da quando il cubo-merci si era aperto, dopo otto cicli standard dall’inizio del suo viaggio. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che aveva visto un volto. Così tanto tempo condannato al buio di una solitudine interstellare.
Il monaco scostò il leggero corpetto che copriva la tunica scura ed estrasse l’arma nascosta fra le pieghe del tessuto.
Si preparò ad uccidere la donna.

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17 marzo 2009

Noi abbiamo paura

Rami di Verdi Lame (18)
Jabash attese per lunghe frazioni di ciclo la risposta dell’Imperatore. Intontito se ne stava seduto davanti ad una consolle di ricezione accesa e impazzita di led intermittenti. Osservò le luci alternarsi senza alcun apparente senso, illuminarsi, spegnersi, cambiare colore. Si chiese se almeno i droni tecnici riuscissero a decifrare l’insensato linguaggio policromo che sembrava gridare sul quadro dei comandi. A Jabash non importava, lui era lì, immobile, ad attendere il proprio destino. Le parole che aspettava avrebbero condizionato la sua vita, l’avrebbero decisa. Il comandante sapeva che l’Imperatore era severo. Bizzoso e crudele nel suo egoismo imperiale non mostrava inutile pietà, vana commiserazione. L’intera galassia era semplicemente lo strumento del suo dominio. Il luogo limitato dove affermare il suo infinito potere. E gli esseri viventi che brulicavano nell’Impero sue creature, automi destinati all’affermazione della gloria imperiale.
Il trionfo dell’Imperatore era anche il dovere di Jabash. Era il suo unico scopo. Sino a che avrebbe vissuto avrebbe lottato, ucciso, rubato, distrutto, cacciato, inseguito nel nome e per la volontà dell’Imperatore. Per il dominio dell’Impero su ogni luogo della galassia.
Jabash ripensò ai cicli trascorsi, ai molti cicli che l’avevano portato seduto a quella tastiera di trasmissione. Rivide le battaglie combattute, ricordò l’addestramento feroce a cui era stato sottoposto, ripensò alle migliaia di razze e popoli che aveva sterminato fiero nelle insegne dell’Impero. Cicli standard di fedele obbedienza e distruzione.
Il tempo ora scorreva lento e il Comandante non poteva far altro starsene come imprigionato in una densa bolla di inutilità. Aspettare. Lui che era l’uomo delle battaglie, il Cacciatore, lui che aveva un soprannome diverso per ogni pianeta devastato era ora impotente. Sentì sulle spalle tutto il peso della sua biologia ed ebbe paura.
Un gracidare fastidioso lo fece sobbalzare. Alzò lo sguardo e fuori, appollaiato alla ringhiera dell’ampio ballatoio della torre, oltre il vetro di osservazione, un rapace nero lo fissava. Jabash sentì su di sé gli occhi neri, cattivi, piccoli, dell’uccello. Era raro che quei volatili si spingessero così in alto, fin su alle camere di osservazione.
Le camere erano ampi spazi circolari posti nella parte più alta delle torri, un diametro spesso superiore a quello della struttura portante le facevano sembrare una sorta di copricapo. Jabash utilizzava le camere come luoghi da cui osservare le vicende dei mondi conquistati, controllare eventuali assembramenti in corso e nel caso intervenire. Dalle camere di osservazione la vista poteva spaziare sino alla linea dell’orizzonte. E nell’intimità più segreta.
Ma su quel pianeta le camere era inutili. Il folto manto verdemarrone della foresta copriva tutta la superficie nascondendo tutto ciò che accadeva sul terreno. Jabash trattenne un’imprecazione e continuò a fissare il volatile.
Erano creature flaccide, pingui, i loro movimenti lenti, boriosi. Arroganti nella loro suprema dominazione.
Il rapace restava immobile. Lo sguardo puntato verso Jabash che si chiese quanta intelligenza vi fosse in quello sguardo. Quanta sfida. Gli sembrò di leggervi delle silenziose parole. Un’infinta commiserazione. L’immondo uccello nero gli stava sfacciatamente mostrando la sua infinita superiorità ricordandogli che nulla lui avrebbe mai potuto contro il predominio dei rapaci su quel pianeta. Il pianeta della foresta era loro. E lo sarebbe rimasto per sempre.
Jabash fu tentato di alzarsi e di scacciare via il volatile dalla ringhiera del ballatoio ma qualcosa di ben più importante lo distolse dal suo proposito.
Era arrivato. Il messaggio dell’Imperatore era arrivato. La risposta al suo dispaccio. Al suo fallimento.
Si mise comodo sulla sedia. Chiuse gli occhi e respirò lentamente poi li riaprì e diede il comando di lettura.
Il messaggio portava le consuete effigi imperiali. Ghirigori e stemmi barocchi, anacronismi di altre epoche.
L’Imperatore era solito comunicare attraverso wet-file direttamente alla corteccia celebrale del destinatario ma con Jabash, da sempre, aveva preferito altre modalità. Antiche e desuete ma il Comandante non aveva mai obiettato.
Il soft-file digitallizato si aprì sul piccolo schermo della console di trasmissione. Led si accesero e altri si spensero.
Il foglio che Jabash vide era bianco. Si aspettava le solite lunghe missive dell’Imperatore, pagine fitte di convenzionali forme espressive costruite da saggi e dotti per celebrare la gloria dell’Impero e del suo rappresentante vivente.
Nulla di tutto ciò. La pagina era quasi completamente intonsa tranne una breve scritta. Poche parole nella lingua della galassia.
Jabash le lesse. Poi le rilesse. Ancora una volta, poi un’altra e un’altra. Guardò le parole infinite volte come se non riuscisse a capirne il senso. Come se fossero solo simboli tracciati senza alcun significato. Significanti privi di senso. Silenzio scritto.
Lesse. Per l’ultima volta.

- Noi abbiamo paura.

E anche Jabash ne ebbe.

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16 marzo 2009

Lei era la figlia della foresta

Rami di Verdi Lame (17)
La cacciatrice aveva seguito le orme dell’uomo sceso dal cubo-merci. Impronte che sembravano urlare nel silenzio della sua sordità. Rami divelti, fogli calpestate, arbusti strappati. Simboli che erano come una scia luminosa nella notte più buia. Segni grossolani nell’ordine immutabile della foresta.
La donna correva veloce.
Da sempre viveva nella foresta. La foresta era la sua dimora. Conosceva il rispetto che era necessario tributarle. La foresta era docile con chi non le faceva violenza. La foresta era un’amante affettuosa che si dava a chiunque meritasse il suo amore.
L’eretica era l’ancella della foresta, la sua compagna, la figlia, la sacerdotessa, l’incarnazione.
La donna era la foresta stessa.
Seguiva le tracce dell’uomo che andavano rapide lungo una direzione ben precisa, senza esitazioni, senza dubbio, spedite per quanto potesse essere veloce il cammino di un estraneo.
La donna non udiva più nulla, il sangue le si era rappreso completamente sulle guance ma lei non l’aveva lavato via, sarebbe diventata la sua maschera, il suo nuovo, orrendo volto. Il ghigno sanguinario di colei che portava la morte. La morte che non poteva ascoltare le invocazioni alla pietà.
Tutt’intorno albeggiava e le cime degli alberi più alti si rischiaravano nella tenue luce bianca del grande sole che spuntava oltre l’orizzonte. L’uomo aveva avuto un buon vantaggio ma ormai era certa fosse lì vicino, poco più avanti, ancora non lo vedeva, nascosto dai tronchi, ma quasi ne sentiva l’odore, l’immondo fetore alieno. Il puzzo canceroso.
L’eretica si chiese se l’essere sceso dal cubo fosse consapevole di dove stava andando. Se avesse una meta precisa. Perché l’uomo correva in quella direzione?
Perché proprio là? Là. Là era un villaggio del suo popolo.
Un piccolo centro poco popoloso abbandonato frazioni di cicli prima. Uomini, donne e bambini all’improvviso partiti per andare più lontano. Migrare per continuare a migrare. No, pensò la donna. Non era un migrare verso luoghi nuovi, più belli, più ricchi. Era una fuga. Fuggire per continuare a scappare dalle torri, dall’Impero, dai soldati. Dalla morte.
Era già stata in quel villaggio. Ricordava la piccola casa di preghiera dello sciamano. Il terreno sacro su cui poggiava il tappeto colorato. Il richiamo degli dei della natura. Del cielo e della terra. Del giorno e della notte.
Il tappeto inviolato che si era bagnato dalle lacrime dell’eretica, dal suo pianto caldo e salato di rabbia e dolore.
Continuò a correre, sempre più veloce. Volava l’eretica tra le fronde.
Il villaggio spuntò oltre i tronchi più grossi. Prima casupole rade e sparpagliate in giro. Poi il centro, capanne quasi ammassate le une alle altre. Come in un abbraccio caldo ed affettuoso di intere famiglie.
L’eretica non perse le tracce dell’uomo dalla tunica nera. Lesse i suoi ridicoli tentativi di nascondersi all’ombra dei tronchi e delle capanne. Era lì. Lo sentiva. Lo percepiva.
Silenziosa si arrampicò su una pianta dalle fronde basse. Invisibile si muoveva con un’agilità che sarebbe sembrata inumana a molti popoli di pianeti lontani. Ma lei era la figlia della foresta.
Dall’alto lasciò vagare lo sguardo su tutto il villaggio e gli odori vennero a lei come tanti emissari.
Dapprima non lo vide e pensò di essersi sbagliata. Poi capì perché non lo trovava.
Non fosse stata sorda avrebbe sentito il mormorio soffuso del monaco ma le sue orecchie erano ormai inutili. Escrescenze sul viso.
L’eretica vide l’uomo che stava inseguendo prostrato nella capanna dello sciamano. Lo vide seduto, le gambe incrociate. Osservò le labbra dell’uomo muoversi lentamente come se stessero recitando. Studiò il libro decorato che stringeva fra le dita lunghe e affusolate. Non
aveva mai visto un libro ma sapeva a cosa serviva. Era un contenitore di voci. Di mille voci diverse.
Tornò a guardare il monaco. Il volto emaciato, innaturalmente magro, affaticato. La peluria sul viso, rada, sporca del fango della foresta.
Riconobbe l’emozione che si celava dietro l’espressione degli occhi chiari dell’uomo. Tristezza. Infinita tristezze e un’immensa rabbia. Odio furente.
Il monaco leggeva dalla pagine del libro, parole che lei non poteva ascoltare né tanto meno capire, parole di una lingua sconosciuta e distante anni luce dal suo semplice idioma di ogni giorno. Ma la cacciatrice comprendeva il senso della nenia, intuiva il significato profondo della preghiera dell’uomo dalla tunica scura. Il significato segreto, nascosto. Vero.
La donna vide se stessa. L’identica furia cieca nata dalla disperazione, dall’odio. Dalla rabbia.
E capì che la creatura che sedeva blasfema nel luogo più sacro del villaggio abbandonato non era un suo nemico.
L’uomo era colui che stava aspettando.
Colui che aveva invocato per lunghi cicli nelle notti più buie e nei giorni più tristi.
Era l’uomo che avrebbe distrutto il dominio dell’Impero sul suo mondo. La furia.
L’uomo era la vendetta.
L’eretica chiuse gli occhi e pianse.

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09 marzo 2009

Una vaga alba oltre le cime

Rami di Verdi Lame (16)
Il monaco giunse al villaggio quando una vaga alba stava spuntando oltre le cime delle conifere più alte. Aveva camminato tutta la notte, si era fermato solo per un leggero pasto cibandosi di alcune bacche che crescevano nel sottobosco. Nei mesi prima della sua partenza dal Pianeta Sacro, ormai otto cicli standard prima, gli erano state impartite delle veloci ma minuziose nozioni su come poter sopravvivere in una foresta. Ricordava tutto con estrema precisione, il nome delle bacche commestibili, la forme e il colore di quelle velenose, le piante utili come medicinali e gli arbusti dove era probabile avrebbe trovato nidi di qualche mammifero. Proteine fresche e sanguinolente.
Aveva raccolto le piccole bacche viola e a manciate le aveva ingurgitate, la sensazione nuova di cibo solito fra i denti. Faticava a masticare, i muscoli delle mandibola erano quasi atrofizzati e persino i denti erano deboli. Aveva vissuto troppo tempo cibandosi solo di liquami succhiati da un tubicino.
Il monaco sapeva che non doveva esagerare, il suo stomaco non era più abituato ad assimilare composti complessi, doveva lasciare che riprendesse i ritmi di un tempo, i propri ritmi biologici, lenti e costanti.
Le bacche avevano un sapore intenso, così diverso dalla sensazione che il liquame del cubo-merci gli lasciava che gli sembrò ora di aver in bocca un tizzone ardente, come un fuoco che gli bruciava sulla lingua e sulle pareti del palato ma il monaco continuava a masticare, incessante. Felice.
Vide le prime casupole spuntare fra le fronde degli arbusti e si fece prudente. Smise di camminare a passo sostenuto. Sfruttò i tronchi degli alberi per nascondersi mentre avanzava si soppiatto, cercando di scrutare nelle case che intravedeva poco oltre.
Non scorse nessun movimento. Nessun fuoco acceso. Nessun segno di vita.
Dopo le prime sparute case esterne gli edifici si facevano più frequenti, piccole capanne costruite con i rami degli alberi e con arbusti vari. Molte erano prive di tetto e altre avevano una traballante struttura di paglia essiccata.
Ma mano che si addentrava nel villaggio il monaco si faceva più cauto, si chiese se qualcuno potesse essere nascosto nell’ombra delle costruzioni, qualcuno di minaccioso, pronto a ghermirlo. Si fece se possibile ancora più guardingo. Proseguì cercando riparo nelle ombre che si facevano via via più labili con l’alba che incombeva.
Ancora nessun rumore, nessun segno di vita.
Il monaco annusò l’aria in cerca di odori, legna bruciata, cibo cucinato o l’inconfondibile odore della vita, un profumo dolce e sgradevole, appiccicoso. Sentì solo il caldo sapore del muschio che colorava ogni luogo, prosperando ovunque.
Il villaggio era deserto. Non c’era nessuno ad abitare le semplici case, i focolari erano spenti da molto e giacevano sparsi casualmente, ormai freddi, inutilizzati.
Il monaco fece scorrere lo sguardo intorno e contò circa trenta capanne.
Dov’erano le persone che lì avevano vissuto?
Niente gli permise di fare ipotesi ma non ebbe bisogno di molto per conoscere la verità che si celava dietro il silenzio e la solitaria desolazione. L’Impero. Il villaggio abbandonato era la prova che il volere dell’Imperatore era giunto sino lì, colonizzando, conquistando, assimilando, banalmente distruggendo ogni cosa.
Il monaco ricordò le lezioni seguite prime della partenza, gli olo-programmi neuronali di educazione indotta che gli venivano pompati direttamente nella corteccia celebrale tramite un cavo intercranico multiplo. Il Popolo della Foresta, la sua fiera tradizione di popolo pacifico, ingenuamente privo di ogni forma di assassinio. Rivide le donne, i bambini, gli uomini migrare da luogo a luogo del pianeta cercando ogni volta terre più fertili in un mondo ricco e senza limiti alle sue risorse. Il Popolo delle Foreste viveva in una sorta di simbiosi con il pianeta, nelle sue migrazioni permetteva la diffusione della diversità biologica della flora e della fauna. Il Popolo della Foresta nel suo nomadismo portava con sé animali domestici, piante, spore e batteri che permettevano l’esogamicità delle diverse aree geografiche del pianeta. Ciò garantiva una seppur minima forma di competizione evolutiva, di diversificazione e ricchezza genomica.
Il monaco si chiese se quel villaggio fosse forse stato abbandonato per via di una migrazione ma sapeva che così non poteva essere. Ricordava che il popolo delle caverne abbatteva ogni villaggio abbandonato sulla strada del cammino perenne. Il legno, gli arbusti e la paglia lasciati abbandonati al suolo si sarebbero ben presto trasformati in fertile humus, portando così a restituire quanto il Popolo della Foresta aveva utilizzato nella sua permanenza in un luogo.
Un ciclo continuo, perfetto. Rotto però dall’Impero.
Le grandi torre, lo sfruttamento energetico, l’utilizzo egoista di ogni forma di energia locale era la prassi consueta della colonizzazione imperiale. I nuovi mondi erano visti dall’Imperatore come enormi scrigni da saccheggiare. Schiavi, materie prime, metalli, culture, energie, ogni cosa era usata dall’Imperatore per la sua gloria presente e futura. Per il suo trionfo eterno.
Le razze indigene sui vari pianeti conquistati avevano poche alternative, da un lato la sottomissione volontaria e la deportazione sui mondi di lavoro e sulle varie lune ricche di risorse sparse nella galassia, oppure, la fuga, la ribellione, la riottosa protesta. In entrambi i casi il destino era il medesimo. La morte.
Il monaco si fermò al centro del villaggio. Un piccolo spaizzo dove sorgeva una capanna particolarmente semplice, un cilindro composto di rami secchi e piccoli legati fra loro da un attento lavoro di annodamento. Verso i quattro punti carnali si aprivano delle porte, forse più spiragli che permettevano alla luce di entrare. Al centro un piccolo tappeto, fatto di fibre vegetali, dai colori sgargianti. Variopinti.
Il monaco entrò nella piccola capanna, era il luogo in cui lo sciamano del villaggio invocava gli dei perché giungessero a dare pace e prosperità al Popolo delle Foreste, tutto, nessun clan escluso.
Le preghiere degli sciamani si erano realizzare, dal cielo era piovuti gli dei. Gli dei malvagi.
Il monaco sedette e dalla borsa che portava al collo estrasse il libro. Lo aprì ad una pagina circa a metà e cominciò a leggere mormorando le parole sulle labbra, come una cantilena. Una nenia.
Restò così a lungo, a mormorare nella capanna dello sciamano parole incomprensibili.
Feroci parole di odio e vendetta.

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02 marzo 2009

Intermezzo

Rami di Verdi Lame (15)
La stanza era gremita. Il metallo dei corpi ricostruiti e modificati brillava in una cacofonia di riflessi argentati. Funzionari da ogni parte dell’Impero, droni di servizio e personaggi sconosciuti, capitati lì grazie a sapienti doti parassitarie.
Il vocio era sommesso ma insistente, nell’aria un tintinnare di bicchieri e di calici svuotati a ripetizione. Vini pregiati e altre bevande, il lusso più sfrenato nel luogo che era il centro stesso dell’Impero.
La sala era grande, lunga e solenne. Dal lato più lungo la parete di destra era ricoperta di specchi, enormi, alti sino al soffitto; un muro di vetro che pareva una membrana, un sottile velo a separare un altro mondo, identico a quello che si arrabattava nella sala. Dall’altro lato vetrate, grandi finestre che mostravano il pianeta centrale dell’Impero, le sue montagne che in fondo si perdevano con l’orizzonte, i laghi azzurri come la notte, i fiumi serpeggianti in movenze feline e i grandi mari, profumati di salsedine.
Il soffitto della sala delle udienze imperiali era decorato di scene mitologiche, saghe e racconti di cui ormai pochi studiosi conoscevano l’origine, iconografia sconosciuta di una quotidianità indifferente.
Ogni essere vivente nella stanza stava attendendo. Persino i droni meccanizzati sembravano aspettare qualcosa, si muovevano rapidi ed efficienti ma nel loro deambulare ciondolante si scorgeva un’urgenza, una tensione inspiegabile.
I funzionari dell’Impero continuavano le loro inutili chiacchiere con gli improvvisati vicini come se nulla di importante stesse accadendo ma tutti sapevano che ciò a cui stavano assistendo era di una gravità inaudita. L’impossibile sembrava essere presente fra di loro, lì, nella sala degli specchi, irriverente e altezzoso ad annunciar loro che nulla sarebbe stato più lo stesso.
Stava succedendo.
Era la prima volta in tutta la storia dell’Impero. Molti si chiedevano cosa sarebbe cambiato dopo quella mattina, cosa sarebbe successo il giorno dopo. Alcuni fra i più vecchi si scambiavano occhiate preoccupate, non riuscivano a fingere l’indifferenza e cercavano negli sguardi terrorizzati delle altre persone una qualche risposta. Persino una consolazione. Nulla però smuoveva la staticità della sala e il chiacchiericcio continuava identico. Stolto.
Era stato l’Imperatore in persona a convocare la seduta. Il messaggio wet-ware era stato inviato ai funzionari di più alto grado sparsi sui principali mondi dell’Impero. La convocazione era banalmente perentoria, come ogni altro editto dell’Imperatore.
Tutti era chiamati sul pianeta centrale. Data e orario non lasciavano altra possibilità che la partenza immediata, soprattutto dai mondi più lontani. Sospesi in sonno criostatico i funzionari avevano attraversato la galassia a bordo delle navi intersistemiche della Gilda dei Mercanti spendendo fortune pur di persuadere i piloti neuronali a superare ogni protocollo di sicurezza per i passeggeri in sospensione e affrettarsi. Correre verso il pianeta centrale in tempo per giungere alla convocazione dell’Imperatore.
Pochi vennero a sapere che due funzionari provenienti dai rami più lontani della galassia era giunti morti, gli encefali ridotti a poltiglia macilenta da una sospensione criostatica troppo frettolosa.
Era ora erano tutti lì ad attendere l’Imperatore. La maggior parte dei funzionari non l’aveva mai incontrato di persona e per molti quello era un momento carico di emozioni.
L’attesa si era fatta opprimente. Le voci continuavano ma nessuna ascoltava ciò che gli altri dicevano, il brusio serviva solo per nascondere la tensione.
L’imperatore sarebbe dovuto entrare nella sala dalla grande porta posta a nord. Un portale dorato e scolpito con strani ghirigori, forme indistinte, quasi mobili sulla superficie metallica.
I funzionari erano entrati alla spicciolata nella grande sala, chi con grande anticipo, incapace di trattenere la tensione e chi puntuale, impeccabile. Erano tutti presenti.
I droni continuavano a riempire i calici ma ormai erano in pochi che riuscivano a ingurgitare qualcosa. La tensione sembrava addensarsi intorno come una nebbia sulfurea e cattiva.
L’ora stabilita per l’inizio della seduta del Consiglio era arrivata ed era passata.
L’Imperatore con il consueto corteo di ancelle, paggi e servitori non era uscito dal grande portale. L’oro con i bassorilievi insensati e sgradevoli era rimasto immobile, quasi a farsi beffe degli sguardi insistenti di tutti i presenti nella sala.
L’Imperatore poteva ogni cosa ma mai prima di allora aveva ritardato ad un Consiglio.
La sua onnipotenza non dimenticava il rispetto per il ruolo rappresentato dai burocrati che negli angoli più remoti della galassia estendevano il suo dominio su ogni creatura vivente, senziente o meno che fosse. I funzionari erano la sua longa manus e grazie alla loro avida efficienza l’Impero prosperava.
Erano suoi servi come ogni altra creatura della galassia ma i burocrati gli erano utili, l’imperatore lo sapeva e li rispettava.
Ma quel giorno li lasciò ad attenderlo per lunghe frazioni di ciclo mentre chiuso nelle sue stanza leggeva il dispaccio appena arrivato da Jabash.
L’Imperatore temeva che dalle parole asciutte e dal resoconto dettagliato sarebbe dipeso il suo potere. Le poche pagine poggiate sullo scranno potevano devastare tutto, distruggere il suo dominio sulla galassia.
L’Imperatore ebbe paura di ciò che Jabash aveva scritto.

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