21 novembre 2006

Poesie d'un viaggio in treno

Invidio lo specchio

Invidio lo specchio
Che ogni giorno t'osserva
E null'altro fa
Se non riflettere di te.

Ho sentito la tua voce

Ho sentito la tua voce
Nei tratti sussurrata
E per un attimo ancora,
Maledetto, ti ho amata.

Poi piano il ricordo
A sbalzi s'è affacciato,
E il volto triste cupo,
Della memoria m'ha sorriso.

Epifanica certezza
Del nuovo mondo solo
E chino il cammino.

Del vacuo il terrore,
Del nero il colore.
Qui grido e mi consolo.

Venerdì 17 Novembre

Giorno funesto
Di superstizione figlio
Vilmente condannato
A mestizia e orgoglio.

D'altrui la colpa sconta
Nessuna grazia ricevuta
Ma solo vergogna e onta
Non commessa né pensata.

La sola sua salvezza
Il morir desolato
E il lasciar la vita.

L'alba nuova ch'avanza
Vedrà il sole colorato.
Finita sembra la recita.

13 novembre 2006

Quanti mondi dentro la mia mente

Quanti mondi dentro la mia mente

Quanti mondi dentro la mia mente,
Schizofreniche realtà che si fanno e si disfanno,
Spirali immote che s’avvolgono nel nulla
Come spire di un serpente infinito e sibilante.

Chiuso in un prisma sfaccettato in mille volti
Osservo i piani intrecciarsi e fondersi
Verso un’entropia che il senso devasta
E il buio opprimente là ad attendere.

Seduto nel pozzo dell’assurdo vivente
Intravedo le luci e le ombre riflesse
E una mesta voce lontana piange
Rimembrando un passato perduto nel tempo.

Riconosco i contorni deformati
D’una vita dimentica e vissuta
Che travolta dall’impeto di un’onda
Ora giace in rovine distrutte.

Divelti gli argini e le certezze
Resta solo silenzio e macerie,
Crepuscolari testimonianze d’are abbandonate
Dal vento infido del dolore consumate.

Oppiacea consolazione al mio patire
Il vagar smarrito e il solitario andare
In questi mondo l’insensato vagabondare.
Paesaggi sconosciuti magicamente creati.

Ma là in fondo solo l’orizzonte vago
Che ogni giorno piano si fa più lontano
E nel labirinto di pareti insane
Cammino luoghi di parole inumane.

E' nei luoghi la poesia

E' nei luoghi la poesia

E’ nei luoghi la poesia
Velata e un po’ nascosta
Da un manto di quotidiana
Indifferenza

Seduto ad osservare
Ciò che appare nel reale
Piano sboccia un musicale
Andare.

All’occhio tremolante appare
Uno squarcio surreale
Ecco si rivela l’ideale
Suono di fanfare.

E’ la mia follia
Il suono di una voce scomposta
Ritmica cadenza, disumana
Sofferenza

05 novembre 2006

L’ARMATURA MISTERIOSA


L’ARMATURA MISTERIOSA
(dalle cronache del signor Jacopus B.)

Come tante volte accade, le scoperte più sorprendenti e fondamentali dell’intero genere umano capitano per caso. Come se, per qualche strano motivo, le misteriose forze che nascostamente governano l’universo decidessero di mettersi d’accordo e di far succedere i fatti secondo una specifica sequenza, secondo una catena imprevedibile di eventi che arriva a rivelare ciò che prima era oscuro. A riflettere bene su questo aspetto appare che il tanto lodato intelletto dell’uomo risulti ben poca cosa, sottomesso alla casualità bizzarra dei fatti di cui i poveri mortali sono succubi e senza controllo alcuno.
Ad ogni buon conto, sebbene forse meno frequentemente di quanto si speri, succede che i fatti si dispongano in un particolare modo che, attraverso complicati percorsi e labirintiche strade, possa giungere a disvelare un fatto nuovo.
Sfogliando i trentadue volumi della storia delle invenzioni e delle scoperte dell’uomo e leggendone una pagina a caso, potremmo raccontare di quella volta in cui, ad un eccentrico signore inglese, diviso nel dubbio se studiare la scienza dei numeri o quella dei lambicchi e delle pietre filosofali, cadde in testa una mela. Era comodamente seduto a riposare sotto una pianta, probabilmente scelta a caso, quando una bella, succosa, grossa mela rossa si staccò dal ramo sopra di lui e lo colpì in testa. Toc! Ci sembra quasi di sentire il rumore sordo del frutto centrare la zucca imparruccata del povero lord inglese. Fu una fortuna che quel signore seduto sotto quella pianta fosse un fedele suddito della corona d’Albione, se si fosse trattato di un qualche cittadino di un paese i cui abitanti sono noti per il loro animo più caldo e più sanguigno la reazione sarebbe stata ben diversa. Probabilmente un figlio di Spagna o d’Italia avrebbe superato l’episodio con una colorita e forbita imprecazione e avrebbe: a- azzannato la mela in segno di vendetta, b- gettato la mela lontano, osservandone poi beato lo sfracellarsi e lo spatasciarsi al suolo. Ma il caso, qui malandrino, volle che seduto a godersi la pace del sole pomeridiano, la frescura dell’erba di primavera e l’azzurro del cielo dopo una tempesta fosse un uomo, noto alle cronache. Per il suo animo mite, pacifico e soprattutto per la sua vena intimista e riflessiva. Questo fortunato personaggio, (che il nostro lettore avrà ormai riconosciuto) osservò, allora, la mela ruzzolare poco lontano e, presala tra le mani nodose, cominciò a riflettere. Fronte aggrottata, palpebre socchiuse e occhi furtivi a destra e a sinistra come a voler cercare intorno un pensiero che gli sfuggiva, l’uomo in parrucca bianca prese a far di conto. Non le semplici operazioni che ogni buona massaia sa fare per agevolare il povero bilancio familiare, ma piuttosto enigmatiche operazioni matematiche che, a parte lui, comprendevano forse due o tre altre persone su tutto il pianeta. Il caso aveva ben scelto: quella particolare e fortunata mela aveva concluso la sua permanenza sull’albero proprio sulla testa di uno dei più importanti matematici del secolo che, sciorinate astruse formule davanti agli occhi, giunse alla conclusione e, così, alla famigerata scoperta. Ci piace immaginare questo compito e severo signore alzarsi all’improvviso e, memore di un altro famoso e fortunato prescelto dal caso, urlare a squarciagola: Eureka! Eureka! E fu, più o meno così, che l’intero genere umano scoprì la forza che, misteriosamente, costringe ogni cosa a terra, schiacciandola malignamente al suolo sino a farla lentamente ingobbire. Poco importa se quella forza esisteva già dall’inizio dei tempi e dal vagito del primo essere umano (che abbia guaito proprio lagnandosi di quella?), essa fu ufficialmente scoperta da quel simpatico signore col bernoccolo. E con la scoperta arrivò la certezza che spazza via ogni illusione, il languire nel dubbio che coccola la speranza, lasciandoci credere che forse la vita, l’universo e tutto il resto siano meglio di come sembrano.
Se questo lungo discorso non fosse già solo una premessa ad una successiva narrazione che nulla ha a che fare con mele, alberi e lord inglesi, ci concederemmo un’ulteriore digressione, tuttavia, siccome abbiamo già abbondantemente approfittato di quella compiacenza che il lettore dona alle prime pagine vergate di un libro, non andiamo oltre ed evitiamo di riferire, come meriterebbe, una successiva sottolineatura, ossia il fatto che fu proprio una mela a far scoprire all’uomo che il suo destino era terreno, legato indissolubilmente al suolo di questo pianeta che ci accoglie, anche se non sempre volentieri. Una mela, dicevamo, proprio come una mela fu la causa della forse prima scoperta dell’uomo. Ricorderà i lettore che bastò un morso curioso e forse un po’ adolescentemente riottoso ad una identica rossa, succosa, grande mela a condannare l’uomo (ed è qui il caso di dire anche la donna) alla scoperta tragica della colpa, della punizione e della sofferenza. Oh! Si scoprì anche in quell’occasione la solitudine, l’abbandono, la malattia, fin’anco la morte.
Se fossimo affascinati da quelle teorie che cercano sempre nel dietro la ragione delle cose e dei fatti, disciplina di cui le italiche genti sono maestre, potremmo quasi pensare che si trattasse della stessa, concedetemi maledetta, mela. Il medesimo frutto per condannare l’uomo alla sofferenza e per privargli la folle illusione di poter un giorno volar via, lontano dal dolore e dalla tribolazione. Condannati e senza neppure la folle speranza, l’insano delirio, di una fuga liberatrice lassù, nel cielo, nella libertà dell’azzurro immacolato
Ma come dicevamo sopra, avendo già sfruttato la cortese gentilezza del lettore e non volendolo annoiare oltre misura, non diciamo nulla e ci teniamo questa riflessione per una volta successiva.

Ebbene, dopo questa prima pagina in cui nulla abbiamo ancora detto della narrazione che accompagna il titolo che è riportato in alto a questo resoconto, crediamo che sia anche l’ora di scrivere la prima, questa volta per davvero, frase e da questa far srotolare, come un canone antico, tutto il resto della narrazione.
Si, siamo convinti che sia l’ora. Ed ecco:
Come tante volte è accaduto, le scoperte più mirabolanti ed importanti dell’intero genere umano sono capitate per caso. Ed anche quella volta, per un’imprecisata sequela di avvenimenti apparentemente slegati tra loro, il signor Jacopus B. scoprì che aveva sempre indossato un’armatura. Un’armatura di quelle pesantissime tanto in voga nei tornei cavallereschi dell’epoca di mezzo, una corazza con proprio tutte le sue parti. Non ne mancava neppure una: elmetto, celata, goletta, petto, resta, panziera, scarsellone, schiena, risalto inferiore della schiena, spallacci, guardagoletta, lunette, ali anteriori, ali dorsali, bracciale, avambraccio del bracciale, cubitiera, antibraccio del bracciale, mittene, manopola, manichino della manopola, copridito, pollice, cosciale, ginocchietti, schiniere, scarpa ed ogni altra parte che può esserci sfuggita o di cui non conosciamo neppure l’esistenza. Come le più note bardature medioevali anche quella che avvolgeva il signor Jacopus B. era di un brunito, denso, imponente color nero. A vedersi, se non fosse stato così terrorizzato dalla scoperta, si sarebbe di certo ammirato e avrebbe sbottato con la sua consueta voce un po’ burbera: - Marrano! Ti sfido a singolar tenzone, tu che hai osato infangar l’onore di codesta illibata pulzella. Lancia in resta contro cotanta villania. Vedremo che il signor Jacopus B., leggermente terrorizzato dall’inimmaginabile rivelazione, si lasciò andare a ben altre riflessioni, che forse sarebbe meglio ora non riferire per non spezzare quel sottile filo che governa l’ordine della narrazione e che impedisce al lettore (e anche al narratore) di accatastare a caso fatti ed impressioni, in una sdrucciolevole piramide a cui basterebbe l’alito di un respiro per precipitare, accartocciandosi su sé stessa in un marasma di frasi senza senso né valore. Quindi, come impone il manuale del buon affabulatore, seguiamo lo svolgersi degli eventi con un certo grado di logicità.

Si è parlato, poc’anzi, di una apparentemente casuale e fortuita serie di eventi che portarono il signor Jacopus B. alla sconvolgente rivelazione. Se questa esposizione fosse semplicemente un testo scolastico in cui si elencano, un po’ freddamente, le grandi scoperte dell’uomo, saremmo ormai già ben vicini alla parola fine. Abbiamo, infatti, detto chi scoprì cosa (ossia: il signor Jacopus B. scoprì che, senza mai essersene accorto, aveva vestito per tutta la vita un’armatura), basterebbe ora solo dire quali furono le due o forse tre conseguenze di questo scoprimento e saremmo apposto. Il nostro dovere di relatore sarebbe concluso, potremmo estrarre il foglio dal rotolo della macchina da scrivere, apporre la nostra indelebile firma e inviarlo a questo o a quell’editore, in attesa che loro ci rispondano, magari inviandoci un assegno con cui fare di una passione un lavoro. Tuttavia, sfortunatamente, nonostante le molte raccomandazioni della madre premurosa, un tempo scegliemmo di essere narratori di storie e non redattori di manuali e, così, il nostro lavoro è ancora ben lungi della parola finale e ciò che ci resta da rendicontare è ancora molto. Il rispetto che ci lega al lettore ci costringe ogni volta a non limitare le nostre pagine a chi, al cosa e al poi; siamo, al contrario, doverosamente obbligati a indagare anche il perché, il come mai, il caso mai, il dove, il quando e soprattutto, dobbiamo tentare di dare una risposta a quella domanda che non ha neppure una parola ad indicarla. La domanda sul senso, quello che i nostri nonni avrebbero chiamato la morale della storia e che potrebbe essere anche intesa come la ragione principale (finale, direbbe qualcuno nato a Stagira) del riferire stesso.
Per poter rispondere a tutti questi obblighi dobbiamo compiere un’operazione ardita. Dobbiamo andare all’inizio, a quel giorno in cui il primo fatto che diede vita all’impensata catena di eventi, che si concluderà con la rivelazione dell’armatura, prese vita. Al momento in cui il primo tassello di quel domino intricato ed invisibile cadde, scatenando una precipitosa e conseguente moria di altri tasselli, a formare sul tavolo del reale uno strano disegno che noi, in qualità di autori, abbiamo vagamente colto e ancora più vagamente tentiamo di riportare, seguendone il corso sino al famigerato, leggendario e forse mitico tassello finale.
Prima di addentrarci nel racconto, desideriamo brevemente concedere una piccola precisazione che ci è stata un tempo richiesta e a cui crediamo sia ora di rispondere.
La domanda che ci fu posta fu semplice: perché parlare al plurale quando il narratore è uno solo? Scherzosamente avremmo voluto rispondere che nel frattempo siamo stati eletti a Sommi Pontefici sul Soglio di Roma e che, dunque, il plurale non è altro che il prestigioso plurale maiestatis, tuttavia, la nostra elezione alla Cattedra di Pietro è momentaneamente rimandata per altre faccende e così la spiegazione va cercata altrove.
Ammettiamo, con l’attento lettore, che noi siamo solo uno e che, a parte una certa vena di follia propria di chiunque passi le sue notti a pigiare i tasti di una sgangherata macchina da scrivere, la nostra sanità mentale e la nostra modestia sono ancora sotto controllo. Il motivo è un altro ed è stranamente semplice, il narratore non è mai solo, egli, infatti, porta con sé ogni altra persona che vive e che ha vissuto nella medesima cultura in cui è nato. La cultura stessa, potremmo anche chiamarla con un termine più modaiolo: la società, è una singolare creatura che nasce per gemmazione spontanea dall’incontro e dalla connessione di due singole persone che fanno conoscenza e che si relazionano in un sistema semidecodificato di regole e norme. Questo sistema, pian piano, cresce, vive e prospera di una vita autonoma e indipendente dalle persone che ne sono genitrici. Non solo, come una sorta di figlio degenere, non è più succube alla volontà degli uomini che l’hanno, anche se involontariamente, partorita, ma ad essi si impone come un sovrano capriccioso e crudele, costringendoli a doveri, ordini, prescrizioni da cui non si può fuggire né ribellarsi, pena l’esclusione e la triste solitudine. Ed è così che questo vostro scrittore, già un tempo consapevole di questa desolante verità, elogia un omaggio a questa deforme e informe sadica divinità, tributandogli una parte stessa dell’atto del narrare, abdicando alla unicità del singolare e rassegnandosi alla sottomissione del plurale.
Spiegato brevemente, come avevamo promesso, le ragioni di un plurale alquanto singolare riprendiamo i fatti da dove li avevamo lasciati e proseguiamo raccontando di come cadde il primo tassello del domino.

Era l’ora in cui il sole già non si vede, ormai nascosto dall’alta linea dell’orizzonte, l’ora in cui la luce tuttavia ancora rischiara il cielo e consente alla vista di carpire le cose del mondo con chiarezza e con facilità. Se volessimo dare una più ulteriore collocazione temporale potremmo dire che si era nel giorno in cui la tradizione cristiana segna sul calendario la data dedicata a venerare tutti i santi, canonizzati o no, noti od ignoti che siano (esistiti o solo immaginati che siano). La data che è passata alle cronache come il giorno di Ognissanti. Diremmo allora, fu in quell’ora particolare del giorno di Ognissanti (l’anno davvero non importa alla narrazione) che una foglia d’acero si staccò dal suo amato ramo e, dondolando nell’aria fredda di un autunno già avanzato, planò placidamente sul prato verdeggiante. Era la prima foglia che si staccava, seguendo il naturale ciclo delle stagioni, da quella pianta di acero. Una foglia non particolarmente piccola o rachitica ma piuttosto sufficientemente vigorosa da far pensare di poter resistere attaccata al ramo ancora per diversi giorni, tuttavia, il caso o forse qualche altra ragione a noi sconosciuta (l’ignoranza trasforma ogni cosa in casualità) fecero sì che fosse proprio quella particolare foglia a precipitare dolcemente a terra e posarsi, lei rossa e brillante, sul verde prato del giardino. Una macchia rossa sulla piccola distesa d’erba che circondava la casa. Una goccia di sangue raffermo ad urlare sul palcoscenico verde del giardino che l’autunno era ormai arrivato e che il ciclo della vita continuava e che lo faceva, come ogni anno, grazie alla morte.
Fu un caso che il giorno dopo fosse il giorno in cui gli uomini celebrano tutti i loro morti?
Nel mentre in cui la foglia assaporava i suoi ultimi aneliti di vita, ondeggiando verso il suo feretro erboso, l’ignaro signor Jacopus B. se ne stava nel suo piccolo e modesto appartamento a leggere, come sempre faceva in quell’ora particolare in cui il sole è nascosto dall’orizzonte ma i cui raggi caparbiamente ancora illuminano il mondo. Non poteva certo immaginare che a pochi chilometri dalla poltrona su cui era comodamente seduto si stava compiendo il primo atto di una catena che l’avrebbe portato a sobbalzare a causa di una scoperta incredibile che, lo possiamo anticipare, gli avrebbe certamente cambiato la vita.
Se il senso delle cose è nella loro fine che è anche il loro fine (il camminatore di Stagira ci presta ancora una volta la sua acutezza), è pur vero che vi è una causa da cui tutto prende vita, il fiocco di neve che scatena la valanga, la parola che distrugge un amore, e così via. La nostra prima causa fu dunque quella foglia rossa che cadde da una pianta di acero nel giardino di una casa. La prima foglia cadente di tutto l’autunno.
Come da questa foglia si giunse a scoprire che il signor Jacopus B. indossava, senza saperlo, un’armatura nera brunita non ci resta che scoprirlo, proseguendo nella narrazione.

Anche il lettore più disattento avrà capito che, sebbene questo sia l’inizio, ancora lunga sarà la strada che ci porterà attraverso un ribalzo di fatti, cause ed eventi sino al punto che ci siamo prefissati come proposito finale. Ma in che modo la prima foglia d’acero rossa che cade nell’autunno incipiente può provocare effetti significativi? Non vogliamo certo credere a quella teoria che sostiene caparbiamente che ad un battito d’ali di farfalla aldilà del mondo conosciuto corrisponda aldiquà una tempesta così forte da squassare le case e i monti? Ci lasci il lettore raccontare di come a volte gli effetti scatenati da una leggera e soffice causa non dipendano dalla sua azione diretta ma da qualcosa d’altro, qualcosa che è solo indirettamente indotto. Non sempre il legame che vi è fra una causa e il suo effetto (laddove pure ne esista uno) è identico a quello di due bocce che si scontrano, per cui dal movimento dell’una è immediatamente rintracciabile il movimento della seconda. Più spesso le conseguenze si originano da azioni per una via maggiormente impalpabile, apparentemente indefinibile, mai quantificabile. Si crea un legame tra due atti che è immateriale, fatto di sottili ed evanescenti fili che muovono dall’uno all’altro, legandosi, pur tuttavia, in un nodo indissolubile. Sono vincoli estremamente forti, inscindibili ma che sono tali non per tutti i soggetti che vivono o semplicemente percepiscono questi due avvenimenti, ma valgono solo per un singolo, unico individuo che diventa una sorta di garante, di presupposto vivente della relazione causale tra due atti. La relazione di causa ed effetto, come la descriveremo nelle pagine di questo resoconto, non sarà una relazione oggettiva, valida per ogni essere umano vivente in ogni dove del mondo, ma sarà tale solo per i soggetti che di fronte a due fatti, tra loro apparentemente slegati, si prefigureranno, nelle circonvoluzioni della loro mente, magicamente o follemente, la convinzione che fra il fatto a e il fatto b esista un qualche collegamento, una congiunzione che fa si che da a si muova naturaliter verso B. Sappiamo che per il lettore che segue le nostre tracce vergate sul foglio questa nostra pretesa di certezza non debba essere facile da condividere, siamo consapevoli che in questo modo scardiniamo le sue convinzioni e convenzioni. Ci lasci tuttavia pregarlo affinché ci conceda una sospensione del suo senso del vero e del verisimile e, allo stesso tempo, accetti, senza tante domande o perplessità, che un qualunque fatto possa essere causa od effetto di un altro, sufficientemente per il volere (la credenza, diremmo se non sembrasse di parlare di mobili e arredamento) specifico e proprio di un essere umano che li reputa tali. Solo in questo modo sembrerà possibile (il dubbio avvolge a volte anche il narratore più onnisciente) ricondurre il mondo, i fatti, le azioni, le cose che contornano l’uomo sotto il suo controllo. Un potere che non permette di dominare il mondo e di impedire che accadano le cose che non vorremmo e viceversa, ma semplicemente che dà il diritto e la forza di sottomettere alle nostre (astruse?) spiegazioni e comprensioni ciò che sta intorno e ciò che accade. L’infinito desiderio di attribuire una consecuzionalità agli imprevisti del mondo rende gli essere umani, in un perverso modo, i creatori stessi di un realtà che si è costretti a subire e a soffrire. Nell’attribuzione del legame di causalità soggettivo (ma per questo non meno forte) l’uomo si erge a divinità potente e infallibile, anche se tale infallibilità arriva, mestamente, solo a posteriori, quando i fatti sono già successi e ciò che resta è solo il misero tentativo di trovargli un perché, una spiegazione.
Se allora il lettore ci concederà questa parentesi del proprio senso del verisimile, potremmo proseguire e raccontare quale fu l’effetto di quella singola, prima foglia rossa ciondolante verso terra.

Se ne stava alla finestra, aveva di poco scostato le tende bianche appena stirate dal caldo vapore del ferro, procurandovi nuove pieghe e crespe. Il viso mollemente appoggiato nelle mani giunte e le dita affusolate ad accarezzare le guance morbide. L’espressione era persa, come a seguire quel nulla che stancamente fissava nel mondo di fuori. I lunghi capelli d’oro riposavano delicatamente lungo le braccia, appoggiate su piccolo sifone, proprio sotto la finestra e il corpo seguiva una linea particolare, con il busto proteso verso il fuori e le gambe saldamente ancorate all’interno, metafora di un’indecisione che non era solo del corpo.
Il lungo abito bianco l’avvolgeva come un abbraccio, proteggendola e scaldandola dai primi freddi che dalle montagne poco lontane scendevano maligni.
Se ne stava così, silenziosa, a fissare il mondo al di fuori della finestra e a sognare. Restò in quella scomoda posizione a lungo, finchè, abbassando gli occhi verso il giardino intorno alla casa in cui viveva, non vide la pianta d’acero. Rossa delle mille foglie colorate d’autunno in attesa, forse anche lei, di un segnale segreto. Fu proprio in quel fugace momento in cui i suoi occhi verdi languivano sulla pianta d’acero che la foglia di cui abbiamo già abbondantemente parlato decise di concedersi all’autunno cadendo. Fu così che la vide. L’osservò lentamente staccarsi e dolcemente planare, come una soffice piuma, verso il manto erboso poco sotto, attratta dal suo ineluttabile fato che la voleva, in quell’ora di quel giorno, morente.
Ed ecco, così senza clamore, senza strilli o proclami che un fatto semplice come il morire di una foglia nel mese di novembre divenne, da singolo fatto slegato dal mondo, una causa. Una causa che porterà nel giro di poche ore ad un numero imprecisato di effetti conseguenti.
La ragazza seguiva con lo sguardo la foglia precipitare e man mano che essa cadeva verso terra l’emozione nasceva in lei, facendosi, centimetro dopo centimetro, sempre più intensa, sempre più ardente fino a che, nel momento in cui la foglia toccò placida il suolo erboso, esplose vigorosa, come un fuoco artificiale che deflagri nel cielo notturno. Il leggero poggiarsi della foglia sui fili d’erba fu salutato dalla salva di cannoni esplodenti dell’emozione della ragazza che toccava il suo climax.
Se, agli occhi di un qualunque osservatore esterno che avesse avuto la fortuna di assistere a quella scena, nulla sarebbe apparso degno di nota e di considerazione, la foglia e la ragazza che si intravedeva oltre il vetro appannato della finestra, invece, vissero il momento maggiormente importante della loro vite, l’una infatti moriva, l’altra nasceva nuovamente. Per entrambe quell’ora in cui il sole era già oscurato dall’orizzonte ma ancora la luce si fermava sulle cose di quel giorno di Ognissanti, fu l’ora del destino.
Così come la foglia, morendo, non urlò la sua disperazione, anche la ragazza non diede segno della fragorosa eruzione di emozioni che avveniva dentro il suo animo candido. Semplicemente si alzò dalla scomoda postura, si stiracchiò e, indossato un cappotto non troppo pesante, scese le scale della grande casa e uscì per le vie della città. Prima però di addentrarsi per il labirintico intrico di vie, viali, piazze che serpeggiava tra le case, si fermò in giardino e, chinatasi, raccolse la foglia, deponendola con venerabile devozione nella tasca del cappotto. Così, sorridendo, aprì il cancelletto del giardino e si perse nelle strade della città.
Questo fu l’effetto della foglia morente: una ragazza smarrita.

La ragazza si smarrì. Non era certo difficile perdere il senso dell’orizzonte in quell’intrico di strade che costituiva il reticolo della città. Non vi era tra le vie e le piazze l’ordine simmetrico che tanto piacque agli antichi romani, diversa era l’origine dell’abitato, più antico, frutto di un agglomerarsi progressivo indiscriminato, come una sorta di tumore che cresce senza freni e senza alcun minimo progetto, se non quello di espandersi sempre più, inglobando i territori vicini.
Camminò a caso la ragazza, lasciandosi trasportare dal manto stradale, come se non fossero i suoi piedi a governare il movimento ma piuttosto un immaginario rullo semovente, guidato da un capriccioso macchinista. Era sempre stata una fanciulla a modo, devota alle prescrizione che gli amati e affettuosi genitori le avevano imposto e non si era mai spinta più di due o tre isolati oltre la casa a meno di non essere accompagnata. Non conosceva le insidie che una città sul far della sera offre al curioso viandante. Aveva sentito di storie terribili che a volte, nelle notti fredde e nere, sognava con un misto di repulsione e di morbosa attrazione. Si figurava nella giovane e innocente mente loschi figuri sporchi e puzzolenti pronti a ghermirla e a farle cose di cui solo a sussurrare si faceva peccato. Ogni cosa oltre i pochi luoghi che conosceva, il panettiere e la pasticceria su tutti, si tingeva di un alone di mistero e di leggenda, territori popolati da creature quasi leggendarie e mitologiche: uomini infinitamente crudeli, streghe cattive e rachitiche ma anche principi azzurri puri come l’acqua del mare e fate giocose e ridenti. Era quel suo perdersi la sua scoperta del mondo che piano la conduceva lontano, un viaggio che per lei era aldilà dei confini del mondo, oltre le colonne che separano il mondo dal nulla. Camminò lentamente, con i suoi passi piccoli e veloci, osservando ammirata e stupita le case, i negozi e la gente che via via si presentavano ai suoi occhi avidi di sapere. I luoghi incontrati divennero per quella ragazza smarrita come un quadro mutevole, un’opera d’arte ardita e innovativa, in cui le figure scorrevano veloci, tanto che a volte non riusciva a capire chi o che cosa avesse effettivamente visto, o che cosa avesse incrociato.
Intanto, la poca luce che era caparbiamente rimasta sul mondo ad illuminare il cielo si affievolì e si ritirò a seguire il sole che ormai era ben oltre l’orizzonte visibile. Le ombre si facevano più lunghe, i luoghi più tetri e i volti più cattivi e tutto, se possibile, assumeva ancora di più un alone di segreto, un inconfessabile bisbiglio che avvolgeva ogni cosa, un mormorio indecifrabile ma insistente e fastidioso.
Ma la ragazza non si fermò. Non che avesse una meta, il suo cammino era senza scopo, guidato solo dal caso imprevedibile. A volte era un bambino sfuggente, a volte un palazzo imponente, a volte un negozio invitante. Non vi era regola in ciò che attirava la ragazza e la spingeva a scegliere quella o quell’altra direzione, la via di sinistra o quella di destra. Capitava che finisse in vicoli ciechi, che si chiudevano con un muro, senza la possibilità di proseguire, allora, senza scoraggiarsi o lamentarsi si voltava e ripercorreva i suoi passi, prendendo al primo bivio una direzione differente. Se avessimo potuto seguire dall’alto il suo peregrinare caotico avremmo tracciato sulla tela della città una riga disordinata, senza alcuna funzionalità a raggiungere un luogo specifico, un avanti e un indietro ripetuto, incessante.
La ragazza però proseguiva, guidata dall’emozione suscitata nel suo gentile animo dalla foglia caduta che ora riposava, come tumulata, nel taschino del suo cappotto. Era forte quella emozione, ancora viva e vivace dentro di lei, tanto da sconquassarla e da non farle sentire paura dei molti occhi incuriositi, famelici, bramosi, avidi che la fissavano al suo passaggio.
Prima che gli ultimi raggi del sole lontano abbandonassero il mondo la ragazza si era addentrata per molti isolati nel cuore della città, tanto da non sapere più neppure in che direzione sorgeva la sua casa.
Fu così, nella più completa casualità, che la ragazza giunse di fronte alla vetrina. Si trattava in realtà di una semplice ampia finestra abbellita e decorata con festoni colorati e da cui si intravedeva un piccolo ripiano di legno avvolto da una tovaglia merlettata e su cui vi erano adagiati in bell’ordine torte, pasticcini e paste di ogni tipo e forma. Al semplice vederli quei dolci creavano un effetto diretto sulla salivazione, stimolando la voglia di azzannarli, affondando la faccia nel dolciume e nel soffice preparato cremoso. La ragazza non aveva tanti vizi o capricci, ma se proprio uno glielo si doveva trovare, beh, la golosità era senza dubbio il suo. Amava sentire il sapore e la fragranza dei dolci appena sfornati sul palato, sentire il morbido profumo caramelloso dello zucchero fuso stuzzicargli le narici e il denso e fragoloso sapore delle creme avvolgergli il palato in un deliquio di sensi. Spesso si recava con la madre dal pasticciere vicino a casa e ordinava ora una pasta ripiena di crema di cioccolato, ora una crostata alla frutta caramellata, ora un sorbetto alla nocciola. Se fosse dipeso da lei avrebbe preso ogni volta sia l’un che l’altro che l’altro ancora, tuttavia la compostezza che si addiceva ad una signorina a modo le impediva di lasciarsi andare e di sbizzarrirsi beata dando un morso ora a quella torta, ora a quella pasta, ora a quello sformato, riempiendosi la bocca di sapori diversi ma tutti ugualmente buoni.
La piccola pasticceria con la vetrina che era una finestra le si parò davanti all’improvviso, dopo aver scelto di andare a sinistra piuttosto che a destra al bivio poco dietro, e per lei fu come una sorta di miraggio. Sentiva i primi morsi della fame che, puntuale come un orologio, le agitavano lo stomaco come mille vermicelli infuriati. Si frugò nelle tasche del cappotto e con un sospiro di sollievo scoprì che aveva con sé qualche spicciolo, avanzato forse da una precedente uscita. Li contò e in base ai suoi calcoli decise che poteva permettersi anche due o tre delle paste più grosse, chessò una alla crema, una alla frutta e una al cioccolato e sfogare quel suo sogno di mangiarle tutte insieme, come un dolce straripante di gusti.
Entrò nel negozio. Fu accompagnata dal suono di una squillante campanella sbatacchiata dalla porta che si apriva ed ad accoglierla fu il caldo odore dello zucchero, del lievito e di così tanti altri aromi che il suo piccolo naso non riusciva neppure a cogliere, come se tutti si fossero mischiati a comporre il profumo perfetto, l’essenza suprema, l’odore del respiro degli dei. Rimase ammaliata, conquistata dall’effluvio denso che le invadeva i polmoni e per un attimo l’emozione della foglia cadente fece posto ad una nuova pace, figlia legittima dell’appagamento dei sensi.
Da dietro lo scarno bancone, poco più che una tavola imbandita, una vecchia la destò da questo stato di languore e la riportò lì, nel negozio di dolci. Che cosa posso fare per te signorina? La voce della vecchina era stridula, una voce che ben si intonava con le sue altre caratteristiche fisiche: piccola, gobba, il naso lungo e adunco, rivolto verso il basso, i capelli stopposi di un bianco latte e gli occhi di ghiaccio, leggermente tremuli a fissare con insistenza, invadenti.
Con questi soldini quante paste posso comprare?, la risposta della ragazza fu tremolante, il tono baso e insicuro, spaventata dall’aspetto dell’anziana dietro il bancone e dalla situazione per lei così nuova. La vecchia con una velocità sorprendente per la sua età si mosse e giunta di fronte alla fanciulla arraffò i pochi spiccioli adagiati sulla mano traballante. Li contò con avidità e poi, fissando la giovane con un misto di disprezzo e delusione, la vecchia sospirò. Una o due di quelle paste piccole al massimo, e indicò dei piccoli pasticcini sul lato sinistro della tavola. La ragazza li fissò, erano molto meno di quanto si era aspettata e di quanto le avrebbe dato il simpatico pasticciere vicino a casa ma la fame si faceva sentire sempre più, ora anche incitata e spronata dal profumo nell’aria. Rassegnata, con un gesto sommesso del capo, accettò quanto la vecchia indicava. Va bene, prenderò quelli. L’anziana signora prese a caso due di quei pasticcini, senza neppure chiedere se la ragazza li preferiva alla crema o al cioccolato e li avvolse in un tovagliolo colorato, porgendoli con un gesto svogliato e brusco alla giovane. La fanciulla li prese tra le mani e li portò al cuore in un gesto protettivo, come se si trattasse di un piccolo tesoro da salvaguardare. Ringraziò la vecchietta gibbosa e uscì dal negozio, sentendo su di sé lo sguardo maligno e cattivo dell’anziana signora. Solo quando si chiuse alle spalle la porta della pasticceria e si ritrovò nella strada sconosciuta tirò un sospiro di sollievo, concedendosi un lungo respiro liberatorio.
Sempre coccolando i due pasticcini al petto, la giovane si allontanò con passo svelto dal negozio di dolci e svoltati un paio di angoli si fermò. Qui disfò il tovagliolo che avvolgeva il suo tesoro e, preso un pasticcino tra le dita, lo osservò a lungo. Un piccolo cilindro di color crema, sodo, gonfio di ripieno profumato, invitante e goloso. Dimenticò la faccia spaventosa della vecchia e si dedicò completamente al dolce disvelato. Lo annusò, gli diede una fugace leccata con la punta della lingua, ne tenne il sapore in bocca un po’, lasciando che si diffondesse per tutto il palato, poi, finalmente decisasi, gli diede un bel morso, azzannandone una buona metà.
Fu così che nacque la seconda causa di questo nostro resoconto. Questo gesto, questo semplice morso ad un pasticcino invitante, fu il fatto che, scatenato da un precedente effetto di un’anteriore causa, porterà ad un altro accadimento che rappresenterà un ulteriore effetto. Un gradino successivo nella scala che stiamo scalando. Un anello nuovo nella catena di eventi che ci condurrà verso la scoperta che il signor Jacopus B. fece della sua misteriosa e (fino ad un giorno particolare) invisibile armatura.

Prima ancora di vederlo arrivare lo sentì, udì da lontano un suono sordo, ritmato e cadenzato. Un tloc tloc ben scandito, che pian piano si faceva sempre più avvertibile, sempre più vicino. La ragazza aprì gli occhi che aveva chiuso per non disturbare il senso del gusto con le informazioni provenienti da altri sensi e li fece scorrere un po’ spazientita intorno ma non vide nulla che giustificasse quel suono particolare. Decise di prestare maggior attenzione al rumore che la stava disturbando, cercò di capire chi o che cosa, nel buio intorno, potesse produrre simile scrocchio. Dpazientita intorno ma ancora non vide nulla che poteva giustificare quel suono particolare.formazioni provenienti da altri senSembrava proprio come se due oggetti non troppo duri picchiassero l’uno contro l’altro, come se un tacco di cuoio passeggiasse su un leggero e sottile tappeto. Non riuscì a comprendere la natura di quel tocco finché non scorse, sbucato dall’angolo poco lontano, ciò che lo produceva. Aveva ancora languidamente poggiata sulla lingua la crema affinché lasciasse delicatamente emanare tutto il suo sapore, fino ai quei minuscoli ma deliziosi ingredienti nascosti, quando l’uomo che crocchiava le caviglie fece la sua comparsa. Un’entrata in scena non certo teatrale, per un uomo che di teatrale non aveva nulla, ma un ingresso nelle pagine di questo resoconto importante, perché questo signore che crocchiava le caviglie prenderà il testimone della staffetta di cause ed effetti che stiamo lentamente descrivendo e ne compirà un passo importante, apportando un anello significativo alla catena causale di cui stiamo dando il resoconto.
L’uomo che crocchiava le caviglie camminava con un’andatura lenta, senza fretta ed, ad ogni passo, dai suoi piedi si levava quello strano tloc, frutto dello scontrarsi di qualche piccolo osso nelle sue caviglie. Dedichiamo qualche momento a questo nuovo personaggio apparso improvvisamente in questa cronaca. In realtà non vi è molto da dire dell’uomo che crocchiava le caviglie. Non aveva caratteristiche peculiari che potessero distinguerlo dal resto della gente, non era né troppo alto, né troppo basso, non era magro ma neppure grasso, non era calvo e di certo un capellone. Ogni sua caratteristica era nella media, si confondeva con gli altri così bene che molti di quelli che lo avevano conosciuto se ne dimenticavano poco dopo o chi l’aveva incontrato velocemente era pronto a giurare di non averlo mai visto, tanto l’immagine dell’uomo che crocchiava le caviglie non si imprimeva nella mente della gente. Se un qualche affermato studioso di statistica avesse voluto raccogliere le infinite peculiarità dell’essere umano e da queste, attraverso particolari formule e calcoli, estrapolare l’ideale di uomo medio, di uomo statisticamente comune, avrebbe di certo tracciato un quadro preciso raffigurante questo singolare signore. Avrebbe potuto quasi vantarsi, l’uomo che crocchiava le caviglie, di questa sua unicità, di questo suo essere l’ideale e perfetto esempio dell’uomo comune, se non fosse che neppure questo primato gli apparteneva fino in fondo. Infatti, una sua peculiarità unica ed inimitabile c’era ma era talmente inutile e talmente fastidiosa che non gli consentiva di vantarsene e di costruirci sopra una stima ed una considerazione alta di sé. Immaginiamo che anche il nostro attento lettore possa facilmente intuire che tra tutte le particolarità esclusive a cui un uomo possa aspirare, quella del crocchiare di caviglie sembra proprio la meno desiderabile e la meno efficace ad alcunché.
Sta di fatto che la ruota del caso, nel sommare i geni del padre e della madre in un nuovo feto vivente, aveva voluto (anche se il termine volere indica una qualche forma di consapevolezza che non crediamo vi sia) che si formasse un uomo medio, standard con l’unica particolarità di far crocchiare le caviglie ad ogni passo compiuto. Se forse da bambino aveva potuto divertire gli altri compagni con questa sua qualità (sebbene perdesse sempre a giochi in cui era necessario nascondersi), già prima dell’adolescenza le ragazze, che sono per un uomo il primo giudice, avevano bollato quello strano ragazzo cigolante come una nullità, anzi, neppure come una nullità ma come semplicemente uno qualunque, non degno né di stima, né di ribrezzo, né di amore, né di odio. L’uomo che crocchiava le caviglie era una sorta di figura evanescente nel paesaggio del mondo e delle relazioni sociali, una sorta di fantasma semitrasparente che lasciava che la vita scorresse via senza riuscire ad afferrarla veramente tra le sue mani rarefatte. O ancora come un bambino che tenti di catturare tra le dita il riverbero danzante del sole contro uno specchio. Uno sorta di essere fatto d’aria che tenti inutilmente di acciuffare un qualche oggetto solido e pesante.
Questo era l’uomo che crocchiava le caviglie che giunge in questo nostro resoconto dall’angolo in fondo alla strada in cui, placidamente, la fanciulla che aveva la foglia nel taschino e un emozione nel cuore, stava assaporando il primo pasticcino. Non importa a questa narrazione (e quindi al suo narratore) da dove provenisse l’uomo che crocchiava le caviglie, sarebbe un’altra storia e al momento non crediamo sia il caso di perderci in altre faccende. Ciò che ci riguarda è che egli divenne, inconsapevolmente, l’effetto della causa rappresentata dalla fanciulla che mangiava il pasticcino. Avrebbe potuto essere chiunque altro, ma il caso volle che fosse lui e così non possiamo che adeguarci e narrare ciò che capitò.

La fanciulla, lo ricordiamo solo per quei pochi lettori disattenti, si era fermata in quel punto preciso della città dopo essere corsa via dalla vecchia panettiera, spaventata dal suo sguardo maligno, e lì si era rifugiata, credendo di trovarsi a debita distanza, per poter gustare il pasticcino. Proprio lì, in quel preciso punto, a pochi passi dall’angolo che si vede oltre, aveva deciso di riprendere fiato, aprire l’involucro del pasticcino e, dopo il rito di preparazione, morsicarlo. Il fine di tutto era quel morso, quell’addentare il profumato involucro di soffice pasta per liberare la crema, dolce e deliziosa, e poterne gustare il piacere fino in fondo. Ogni cosa l’aveva condotta lì per un’unica, sola, inequivocabile ragione: il morso al pasticcino. Ed è per questo che proprio quel morso rappresenta la seconda causa di questa nostra vicenda. Seconda causa che porterà ad un secondo effetto, che ad un certo momento, il lettore ormai lo intuirà, si trasformerà e diverrà terza causa di un terzo effetto, e così via, sino a che, ad un certo momento imprecisato, non arriveremo all’effetto finale: il signor Jacopus B. che scopre la sua misteriosa armatura.
Ma a proposito del signor Jacopus B., che cosa stava facendo in quel preciso momento in cui si scalava il secondo piolo di quella scala che aveva la sua vita come ultimo gradino? Beh, vista l’ora potremmo facilmente ipotizzare che si apprestava a concludere la sua giornata, infilandosi il pigiama azzurro a righe che tanto gli piaceva, la berretta di cotone con il batuffolo morbido in cima e, appoggiata la puntina sul vecchio grammofono, si preparava a coricarsi cullato dalle note di un tale compositore russo, il cui lavoro era diventato famoso grazie ad un altro compositore francese, in un melting pot di genialità musicale.
Non possiamo non domandarci se il sonno a cui si preparava sarà sereno, visto la mole di eventi che stavano capitando e che lo riguardavano così da vicino. Siamo certi, però, che se avesse saputo cosa stava avvenendo di certo non si sarebbe addormentato facilmente e non avrebbe avuto un tranquillo riposo.
Ma non divaghiamo e restiamo al resoconto, visto che siamo giunti ad un punto estremamente delicato. La ragazza era ferma, la mano destra portata alle labbra e la bocca piena di crema pasticcera, nella mano sinistra stretto teneramente fra le dita l’altro pasticcino, desolatamente pronto a fare la stessa terribile fine del suo compagno di sventure. L’uomo che crocchiava le caviglie, svoltato l’angolo, le si stava avvicinando con fare indifferente, perso in altri pensieri, tanto che non la vide subito ma se ne accorse solo quando le fu a pochi passi. Allora, come se una lampadina gli si fosse accesa nella testa, si ricordò che si era dimenticato di portare con sé l’orologio. Era sempre stato un po’ sbadato (né troppo, né troppo poco) e questa volta aveva sacrificato al demone della sua smemoratezza il suo vecchio orologio, un po’ graffiato ma preciso come appena acquistato. Si ricordò di non essersene ricordato e si chiese che ore fossero. Quella fanciulla che faceva degli strani versi con la bocca, capitava proprio a fagiolo. Di certo una così compita, delicata, innocente fanciulla portava con sé un precisissimo orologio che avrebbe potuto indicargli l’ora esatta. Allora, avvicinandosi, lentamente per non farla spaventare e fuggire via, quasi che fosse un timoroso cucciolo selvatico e, ancora un po’ insospettito dalle singolari smorfie della sua mandibola, le rivolse la parola. Col tono più lieve che poteva pronunciò la domanda fatale, scusi, signorina, mi sa dire che ore sono?
La fanciulla, per nulla intimorita dallo strano individuo che le si era avvicinato crocchiando le caviglie, rispose. E fu così che una boccia ne colpì un’altra e il movimento dell’una si propagò alla seconda e la vita del signore che crocchiava le caviglie cambiò, in peggio ovviamente.
L’episodio è campale e merita tutta la nostra attenzione affinché nulla si perda nelle pieghe del non detto; non vogliamo che il lettore ci possa accusare di averlo ingannato, tenendolo all’oscuro di un qualche particolare importante per il dipanarsi degli eventi. Saremo fedeli e sinceri e narreremo ogni cosa così come avvenne.
Udita la domanda, la fanciulla fissò l’uomo che crocchiava le caviglie (che essendosi fermato aveva smesso di fare quel singolare rumore) e con un sonoro e vistoso movimento della bocca e della gola deglutì la crema che aveva teneramente sin lì accarezzato nel palato. Poi, con la bocca vuota (come voleva l’educazione impartitagli) poté rispondere. Piegò il braccio sinistro, guardò le lancette e diede il responso alla domanda. Riportò esattamente l’ora segnata sul quadrante tondo del suo orologio. Senza neppure permettersi di arrotondare per difetto o per eccesso. Diede l’ora e il minuto che comparivano esattamente sullo sfondo chiaro.
L’uomo che crocchiava le caviglie ascoltò la risposta della giovane con soddisfazione, era come pensava, non era certo in ritardo e sarebbe arrivato all’appuntamento con estrema precisione, senza ritardare e senza troppo anticipo.
Era per lui un incontro di estrema importanza, uno di quei momenti in cui sembra che la vita giunga davvero ad un bivio, attimi in cui la scelta fatta segna il resto del cammino su questo pianeta. Lui era ben sicuro della valutazione, di quale strada doveva imboccare a quel bivio che la vita gli poneva davanti, vi aveva riflettuto sopra un po’, ma poi aveva preso una decisione ferma: avrebbe incontrato quella persona che l’attendeva al punto stabilito e le avrebbe chiesto di sposarlo. E così la sua vita avrebbe imboccato la strada figlia di questa opzione e l’avrebbe portato a fondersi, in una sorta di quotidiana osmosi, con la donna che lo aspettava a poche centinaia di metri da lì. Non era così presuntuoso da essere certo che la donna avrebbe detto di si e avrebbe acconsentito a diventare la moglie dell’uomo che crocchiava le caviglie, ma precedenti episodi (che noi ora non narreremo ma che ogni lettore può intuire) gli facevano credere quasi certo l’assenso a questa sua proposta. Non voleva, tuttavia, arrivare troppo presto all’appuntamento: non gli sembrava il caso di mostrare in maniera così plateale la sua ansia per questo momento campale della sua biografia. Dall’altro lato non contemplava neppure l’ipotesi di giungere in ritardo, sapeva che la donna non lo avrebbe atteso a lungo, troppo ricco di antefatti dolorosi era il loro passato per poter trovare ancora la la forza per pazientare. Quello era uno di quei momenti in cui bisogna solo saper cogliere l’attimo e basta un’indecisione di pochi minuti per vedere la propria vita prendere un’altra direzione, o meglio per poter assistere alla morte di una vita e al sorgerne di un’altra (quasi mai migliore).
L’ora che la giovane gli riferì lo tranquillizzò, era puntuale, aveva calcolato che al luogo dell’appuntamento mancava ancora circa una mezz’ora di cammino e che sarebbe così giunto al momento esatto. Giusto per vedere arrivare nella piazza la donna, correrle incontro (immaginiamo il frastuono delle sue caviglie) e senza esitazioni, stringerla a sé, baciarla e quasi ancora con le labbra appiccicate, sussurrarle la frase che ogni uomo dice una volta sola nella sua vita, vuoi sposarmi? Sarebbe stato il ricordo più bello, più vivo, l’istante che avrebbe donato senso a tutta la vita dell’uomo che crocchiava le caviglie. Tutto per giungere a quel punto e tutto per viverne la gioia per sempre.
Grazie mille, signorina, lei è stata molto gentile. L’uomo che crocchiava le caviglie, così ringraziò la fanciulla e, con uno splendido sorriso che mostrava i suoi denti leggermente (né troppo, né troppo poco) storti, proseguì il suo cammino, allontanandosi dalla fanciulla, inconsapevole di essere diventato l’effetto di una catena causale e soprattutto ignaro di aver, in quel preciso momento, imboccato l’altra direzione del bivio. Il lato che l’avrebbe condotto, dritto dritto, all’isolamento, all’abbandono, alla disperazione ed ad una morte solitaria.
La giovane fanciulla osservò lo strano individuo crocchiare le sue caviglie allontanandosi senza fretta, chiedendosi dove sarebbe andato e per un attimo fantasticò di mirabolanti avventure e peripezie stupefacenti, ma il richiamo del suo secondo pasticcino fu più forte. Scacciò via dalla mente le sue fantasie e fissò con avidità il morbido dolcetto e iniziò il sadico rituale che avrebbe portato alla fine della tenera leccornia.
Lasciamola così, senza indulgere troppo, il ruolo della fanciulla nell’economia di questa storia è giunto al termine, ha condotto con sé il testimone di una singolare staffetta, sino al momento in cui lo ha lasciato all’uomo che crocchiava le caviglie. Ormai è inutile dedicarle ancora attenzione, abbandoniamola alla sua fuga per la città, all’emozione che serba nel cuore, senza chiederci cosa le accadrà e cosa ne sarà di lei.
Ci rimprovererà il lettore più sensibile di avere usato questa fanciulla, di essercene serviti sino al momento in cui di lei vi era bisogno e poi, come un vecchio straccio, averla gettata via, dimenticandola in un angolo. Ci potrebbe rimproverare di non aver seguito il dettame (categoricamente imperativo, direbbe un signore illustre) che impone che gli uomini (e le donne) si debbano trattare sempre come fine e mai come mezzo. Capiremmo le lamentele del lettore ma non ci sentiremmo offesi dal suo tono duro e accusatorio. Facilmente, potremmo rispondere che in realtà noi non abbiamo fatto altro che seguire, come dall’alto di un leggera mongolfiera, una piccola parte della vita della ragazza, da un punto a ad un punto b, per poi decidere di scortare un’altra vita. Non ci sembra di aver utilizzato la giovane fanciulla, non l’abbiamo costretta a fare nulla, non le abbiamo imposto nessun comando, semplicemente ci è piaciuto osservare una breve parte del suo cammino nel mondo. Poco importa se per i nostri scopi quella parte aveva un significato ulteriore, se da noi era vista come tassello di un puzzle complicato, un frammento di un disegno più ampio che tracciasse sul foglio del reale una figura ben precisa. La ragazza è e rimane completamente inconsapevole di questo suo essere uno spicchio di una torta più grande. Per lei, le azioni fin lì compiute, e che noi abbiamo seguito fedelmente, hanno valore per sé stesse, o meglio per il senso lei vi attribuisce, senza che ciò che pensiamo noi, il significato che noi vogliamo diamo loro, le influenzi, condizioni o vincoli in alcun modo. Quelle azioni sono sue e tali rimarranno, anche se le inconsapevoli conseguenze avranno ripercussioni su altre vite e su altri uomini.

Come dicemmo all’inizio di questa nostra rendicontazione, a volte è il caso che determina il fato degli uomini, tanto da farci sospettare che tutta la nostra vita non sia altro che un’accozzaglia di vicende casuali, sconclusionate e senza senso. Ci sembra quasi di vedere gli uomini e le donne correre di qua e di là, affannandosi affaticati, nello strenue e vano tentativo di raccogliere tutti i cocci della propria vita tentando di dare loro un ordine, cercando di attribuire a quell’insieme indistinto e caotico che è la vita un qualche verso da cui guardarla, un sopra e un sotto, un davanti piuttosto che un rovescio. La vita appare come una pagina scritta in una lingua dai caratteri astrusi, un’incalzare di incomprensibili simboli tratteggiati sul foglio di cui non si riesce neppure ad intendere da che parte vadano visti e tanto meno letti.
Fu di certo il caso a far sì che proprio quel giorno la batteria dell’orologio della fanciulla con l‘emozione nel cuore e la foglia nel taschino si esaurisse, distillando la sua ultima goccia di energia una mezz’ora prima del momento in cui l’uomo che crocchiava le caviglie chiese le l’ora. Sarebbe bastato che dai lunghi mesi di vita della batteria si riuscisse a cavar fuori un pizzico di forza in più per far girare le precise lancette ancora per un ora e la vita dell’uomo che crocchiava le caviglie sarebbe cambiata e con essa questa storia e quindi, ancora, la vita del signor Jacopus B. (che continua a russare beato nel suo mondo di sogni). Ma no! Il caso fu di altro parere e la batteria si fermò, tanto che a volerci credere si fa quasi fatica.
Avrà già intuito il nostro sagace lettore le conseguenze di questa birichinata del caso. Se l’orologio, privato della sua forza e dell’energia della batteria, non faceva più ruotare, ciclicamente e perfettamente, le sue dorate lancette, allora l’ora che la fanciulla disse all’uomo che crocchiava le caviglie era sbagliata. Minuto più, minuto meno, l’indicazione era errata di circa venti minuti. L’orario mostrato dal quadrante era venti minuti in ritardo rispetto a tutti gli altri orologi del mondo. Solo venti minuti ma che per l’uomo che crocchiava le caviglie furono lunghi come una vita, una vita vissuta in solitudine e nell’amarezza.
L’uomo che crocchiava le caviglie non era in orario, aveva perso un minuto qui, un minuto là e intanto il tempo scorreva (tranne che sull’orologio della fanciulla) senza che lui se ne avvedesse. Forse in qualche recesso della sua mente distratta una spia si era accesa, e gli aveva fatto scattare in testa l’idea di chiedere l’ora, peccato però che l’avesse domandata all’unica fanciulla presente sulla strada con l’orologio fermo. Un vero peccato.
Se avesse saputo del suo ritardo si sarebbe affrettato, avrebbe corso, forse a perdifiato, sarebbe arrivato alla piazza dell’appuntamento sudato e ansimante ma sarebbe arrivato in tempo. Puntuale per incontrare la donna che voleva fosse sua moglie. In tempo per imboccare il bivio di una vita felice e in comunione. Ma non lo seppe e così, malauguratamente, non si velocizzò, non accelerò il passo, camminò lento e spensierato e giunse in ritardo. La donna dai capelli corvini che aveva atteso (nonostante si era ripromessa di non farlo neppure per un minuto oltre l’ora convenuta) se ne era già andata. Andata per sempre verso una vita diversa.
Non poteva supporre l’uomo che crocchiava le caviglie che la dolce fanciulla che aveva incrociato avesse l’orologio difettoso, se lo sarebbe aspettato forse da qualche sbandato, da qualche losco figuro, ma mai da una così composta ragazza che pareva non poter aver difetti. Fiducioso continuava la sua lenta passeggiata lungo le vie della città pregustandosi il momento in cui avrebbe visto arrivare il viso sorridente della donna con cui voleva svegliarsi ogni mattino della sua vita. Ad ogni suo passo, ad ogni tloc dei suoi piedi però l’uomo che crocchiava le caviglie perdeva il tempo che non aveva e nella piazza la donna smarriva la pazienza che non voleva più avere.
L’uomo che crocchiava le caviglie raggiunse il luogo convenuto, mezz’ora dopo aver incrociato la fanciulla. Sorridente si avvicinò alla fontana che sorgeva come un monolite di ancestrale memoria al centro dello spiazzo e attese. Non fece caso al campanile che si intravedeva poco oltre, solo in parte nascosto dalle basse case che circondavano la piazza. Non rivolse lo sguardo al grande orologio illuminato che, come un faro, sbucava in cima a questa specie di minareto. Non vi lesse l’ora che rischiarava la notte intorno.
Attese. Lo sguardo ansiosamente fissato nella direzione della strada da cui la donna sarebbe dovuta spuntare, aspettandosi di vederla comparire ad ogni momento, ad ogni battito del cuore. Ma lei non si faceva vedere e la via restava dolorosamente deserta. Attese ancora l’uomo che crocchiava le caviglie, sentendo pian piano dentro di sé montare l’ansia, la preoccupazione, i dubbi.
Come i mille serpenti attorcigliati sulla testa della Medusa, i pensieri dell’uomo che crocchiava le caviglie si azzuffavano nella sua testa senza ordine e senza controllo, le sarà capitato qualcosa, si sarà fatta male, sarà inciampata, avrà deciso di non venire, avrà incontrato qualcun altro e sarà fuggita via, sarà solo in ritardo per farmi soffrire, non può non venire, eccola che spunta, no, è solo un’ombra, dov’è?, perché non arriva?, che sia io in anticipo, ma dove sarà finita?, ti prego arriva, non posso più aspettare, ho deciso, sono pronto, sono qui per vedere te e chiederti di sposarmi.
Ma la donna che voleva vedere per ogni altro giorno della sua vita non giunse. Non giunse mai più.
Attese per altri minuti, finché non fece scorrere lo sguardo intorno e notò, finalmente, il campanile vicino. Vide il grande orologio illuminato ma non comprese subito cosa gli stesse gridando. Dovette aggrottare la fronte e concentrarsi per poter leggere l’ora riportata dall’angolo che le lancette disegnavano sul quadrante. Era tardi. Molto tardi. Era arrivato nella piazza da non più di dieci minuti ma il cerchio là in alto segnava un orario ben diverso dalle sue aspettative. Oltre mezz’ora dopo l’ora convenuta. Per l’uomo che crocchiava le caviglie fu come se il mondo intorno crollasse, come uno sbilenco castello di carte sotto il vento di un tornado. Una miriade di frantumi si disperse nell’aria e ogni cosa perse di senso e di importanza. Tutto, tranne le lancette di quel campanile.
Non volle crederci, non poteva crederci. Era arrivato in ritardo. Come poteva essere possibile. Aveva calcolato tutto nel mondo corretto. La fanciulla gli aveva detto che mancava mezz’ora, era in tempo, non poteva averci messo così tanto da quell’angolo a quella piazza. Era una strada che aveva fatto altre mille volte, conosceva la distanza, il tempo necessario a percorrerla.
Poi il dubbio si fece strada nelle tortuose vie della sua mente. Un timore che divenne ben presto la certezza di un fallimento. E se la fanciulla gli avesse indicato l’ora sbagliata? Non poteva essere. Impossibile. Una così raccomandabile giovinetta. Ma se l’avesse fatto davvero?
Corse intorno alla piazza, come un forsennato, un pazzo demente. Aveva solo una cosa nella testa, cercare un altro orologio. Un terzo indicatore dell’ora che potesse ergersi a supremo giudice della sua vita. E lo trovò, poco distante, in fondo alla piazza, protetto da un piccolo portico di legno. Una farmacia, chiusa per la notte. Là in alto, a fianco dell’insegna verde, un orologio piccolo, modesto, quasi timido nell’indicare ai passanti l’orario esatto. Pudico nel suo rivelare la verità. Un ambasciatore umile e dimesso a dire al mondo intero che l’uomo che crocchiava le caviglie aveva gettato via la propria vita, che si, non era uno sbaglio, all’appuntamento era arrivato con venti minuti di ritardo. E lei se ne era andata, e lui sarebbe rimasto solo.
Il piccolo orologio della farmacia segnava esattamente la stessa ora del grande, splendente quadrante del campanile, disegnava la stessa identica angolazione delle lancette.
Lei non c’era nella piazza, due orologi mostravano lo stesso orario, in un ultimo barlume di lucidità, di fredda e risplendente chiarezza, l’uomo che crocchiava le caviglie capì. Comprese che nulla sarebbe più importato e che, d’ora in poi, avrebbe semplicemente atteso il giorno della sua morte, ripensando a quella sera e alla donna che amava. Lei l’avrebbe reso unico, speciale e non più l’uomo mediocre, senza pregi, né difetti che era.
Si inginocchiò e mestamente pianse. Ma furono lacrime che non lavarono la sua disperazione, la sua colpa e il suo fallimento.
Caddero le lacrime sul suo volto sino a precipitare come una pioggia primaverile sul lastricato della piazza. Lentamente si formò un piccolo lago salato, un cerchio acquoso di disperazione in cui riflettere il dolore e la commiserazione più struggente. Rimase così, fermo, in ginocchio, ad irrigare di tristezza i ciottoli di pietra per molto tempo, finché la notte non si fece profonda e nera, come la sua pena.
Lasciamolo per un attimo solo, mio caro lettore, allontaniamoci un poco dalla sua mestizia. Riconosciamogli il rispetto di chi vede la sua vita scivolar via, come acqua vanamente raccolta fra le dita tremanti e tese. Voltiamo lo sguardo altrove, in nome di un buon cuore nei confronti di quest’uomo mediocre, ma facciamolo anche per noi stessi, per rifuggire una desolazione che non siamo in grado neppure di osservare. Vigliacchi, giriamo lo sguardo per non voler vedere, per far finta, per ingannarci e credere che la vita non riservi tali dolori e tali pene.
Torniamo al fine di questo resoconto affinché non ci si dimentichi, perso tra le vicende casuali che stiamo narrando, quale è lo scopo di questa narrazione.
Avevamo detto che una scoperta casuale, frutto del caso malandrino, avrebbe portato il nostro signor Jacopus B. a vedere per la prima volta l’armatura nero brunita che gli copriva il corpo, proteggendolo ma anche separandolo dal mondo e da tutte le persone che sinora aveva incontrato. Un’armatura che era una barriera e, come ogni recinzione, serviva a isolare uno spazio finito, limitato, senza i dubbi e le ansie della vastità di un orizzonte.
Come il signor Jacopus B. avesse indossato la prima volta tale armatura rimarrà un mistero, persino il quando resterà nel vago, anche se facilmente immaginiamo che fu dal momento stesso della sua nascita, tuttavia non vi sono prove a testimonianza di ciò. Ciò che scopriremo, insieme al meravigliato ed esterrefatto, signor Jacopus B., è che l’armatura era progressivamente cresciuta con lui, rafforzandosi ed ispessendosi anno con anno. Nel momento in cui la vide riflessa nelle sue pupille spalancate, il signor Jacopus B. aveva percorso poco più della metà del cammino della sua vita e ciò che osservò era una bardatura incredibilmente spessa, dura come la pietra e impenetrabile ad ogni cosa.
Verrà il momento di descriverla nel dettaglio e non vogliamo ora compiere un balzo troppo repentino in avanti, anticipando quanto verrà, tuttavia non possiamo resistere dal dire al lettore curioso che sebbene il modello fosse quello in voga nell’età di mezzo dell’uomo, in tutto e per tutto simile alle corazze usate nei tornei e nelle giostre, singolari ed unici erano gli spuntoni che comparivano, casualmente, qua e là sulla superficie metallica dell’armatura. Denti aguzzi e sottili fatti per ferire, per lacerare, per colpire ogni possibile intrusione. Strumenti di offesa oltre che di difesa. Un perfetto congegno, cresciuto e modellatosi giorno per giorno sul signor Jacopus B., apparentemente senza difetti e pecche. Ma per fortuna una piccola magagna la scoveremo (o meglio, la scoverà il signor Jacopus B.) e grazie a questa il nostro protagonista potrà vedere la mostruosità che lo avvolgeva e (ma qui non vogliamo anticipare nulla) forse persino di liberarsene.
Fermiamoci ora, rischiamo di venir meno a quel proposito di ordine che ci eravamo promessi pagine sopra. Torniamo dall’uomo che crocchiava le caviglie, sperando di vederlo in piedi, non più devastato dal pianto della disperazione. Continuiamo a raccontare di quei suoi attimi nella piazza.

Non sapeva quanto tempo era rimasto inginocchiato a spremersi i bulbi oculari sino a consumare l’ultima goccia di lacrima. Non gli importava più del tempo, sapeva che esisteva solo un eterno presente, fatto di ricordi appiattiti in un unico battito di ciglia, senza alcun futuro se non quello della commiserazione e della proclamazione del fallimento.
Solo quando le ginocchia cominciarono a sanguinargli si alzò, e, al suono del crocchio delle sue caviglie, si terse la fronte sudata e le guance rigate dal pianto. I suoi occhi erano rossi, cerchiati e spenti, senza vita ormai.
Piano si diresse verso la fontana. Qui, indifferente all’acqua putrida che vi ristagnava, si lavò il viso, quasi consolato dalla carezza mefitica e puzzolente del liquido giallognolo che marciva nella vasca. Il lento declino verso l’annichilimento della mente e del corpo era cominciato. Non si sarebbe mai più interrotto.
Il gesto di lavar via i segni del primo avvilimento aveva per l’uomo che crocchiava le caviglie un’enorme valenza simbolica. Era l’atto manifesto con cui perdere per sempre il vecchio, ingenuo e felice, uomo mediocre che sognava una vita a fianco della donna dai capelli corvini. L’acqua portò via, perso nei fori di un tombino nero e senza fondo, le speranze, le gioie, i sogni di un essere che era ormai morto, come una pelle di serpente distaccatasi che resta al vento e al sole di un deserto sconfinato. Strato dopo strato il liquido putrescente della fontana raschiò via i connotati di un vecchio volto e svelò, dolorosamente, i tratti di un nuovo viso, deformato dal ghigno malefico del fallimento. Con l’atto di lavarsi il viso l’uomo che crocchiava le caviglie celebrava una nuova nascita nella pena infinita e nella morte delle illusioni.
Sarebbe stato solo ogni giorno della sua vita, si sarebbe alzato e si sarebbe addormentato pensando a lei, incolpandosi e accusandosi, fino a che, persino il suo corpo, si sarebbe rifiutato di andare avanti e si sarebbe spento. Fu consapevole, da quel momento, che il resto del suo cammino nel mondo sarebbe stato un semplice attendere l’oblio della propria coscienza martoriata, pregustando il nero dell’incoscienza eterna.
Non sarà nostro compito seguire l’uomo che crocchiava le caviglie sino al giorno (che gli auguriamo non lontano) in cui chiuderà per sempre gli occhi e così facendo troverà la pace e la serenità ormai perse. Il presente resoconto ha incrociato la vita di questo uomo nel momento più tragico della sua vita e manca poco al tempo in cui lo abbandoneremo, così come abbiamo fatto con la fanciulla con l’emozione nel cuore e la foglia nel taschino. Ancora pochi minuti ma che per questa rendicontazione avranno un peso decisivo. Sarà la prossima azione dell’uomo che crocchiava le caviglie a rappresentare la nuova causa di questo strano (ce ne rendiamo conto) resoconto.
Stiamo compiendo un cammino singolare, fatto di balzelli, di saltelli da una causa ad un effetto. Una catena senza fine, senza una sintesi finale ma solo un continuo, vano e vuoto, proseguire alla ricerca di una meta a cui approdare, donando a tutto il resto un senso.
Dobbiamo ancora osservare come l’uomo che crocchiava le caviglie si trasformi da effetto di un morso a causa di qualcosa d’altro che non mancheremo di riportare. Ci resta da descrivere solo il singolo, specifico fatto che segnerà il sorgere della nuova origine. Così come fu per la foglia che cadde e per la fanciulla che morse il pasticcino.
Narreremo l’annodarsi di una vita ad un altra, l’unione in una causalità casuale e puramente soggettiva, presente solo negli occhi di un narratore curioso e nelle vite coinvolte. Una relazione che ancora una volta sarà tutto fuorché oggettiva ed universale.
Non indugiamo oltre, ormai il lettore conosce il meccanismo che governa questa narrazione, non serve spiegarlo ogni volta.
L’uomo che crocchiava le caviglie, dopo essersi asciugato con un fazzoletto bianco e lindo, il volto sporco dei miasmi del liquido della fontana, si sedette su una vecchia panchina proprio sotto un lampione. La luce giallognola rischiarava una superficie non molto più ampia della panchina, come un cerchio di luce tracciato per terra, ultimo baluardo contro il buio della notte tutt’intorno. L’aria era fredda e pungente, come se dai monti intorno alla città scendesse dritto dritto verso la piazza un soffio dell’inverno alle porte. L’uomo che crocchiava le caviglie si strinse nelle spalle e restò in silenzio a fissare il nero davanti. Poi cominciò a muovere le labbra, come a mormorare una specie di preghiera, una litania funebre, un canto liturgico. Tutto d’un fiato, lievi e inudibili parole gli uscirono dalle labbra, ancelle silenziose di un’emozione nuova. L’uomo che crocchiava le caviglie non volle farle fuggire, non volle perderle nell’aria fredda e nel nero della notte. Si rifiutò di abbandonarle a sé stesse, perse per sempre nell’oblio della dimenticanza. Le voleva fissare, incastonare sulla carta, trattenerle, quasi esporle, come una bella opera d’arte alle pareti d’un museo. Allora estrasse dalla tasca della giacca la piccola matita che portava sempre con sé, dal portafoglio un pezzo di carta spiegazzato e consumato, probabilmente una vecchia ricevuta di qualche acquisto e si mise a scrivere. Velocemente le sue dita tracciarono col carboncino della matita dei segni sul foglio. Freneticamente la punta smussata si consumò nel lasciare traccia di un sentimento racchiuso e mostrato da alcune parole, cesellate e incastonate con un diadema prezioso sulla sgualcita ricevuta.
Scrisse sino a che non restò neppure un minimo, infinitesimale spazio bianco e tutto fu oscurato dal segno grigio ed argentato della matita.
La calligrafia dell’uomo che crocchiava le caviglie era precisa, ordinata, pulita e anche in quello spazio ridotto si riusciva a leggere perfettamente le lettere, le parole e le frasi che vi lasciava.
Quando anche l’ultima parola fu tracciata, l’uomo che crocchiava le caviglie rilesse quanto aveva scritto, versò un’ultima lacrima, tributo alla loro bellezza e al suo infinito patire e si alzò. Fece scorrere per l’ultima volta lo sguardo lungo la piazza, sapeva non sarebbe mai più tornato in quel luogo così carico di ricordi e si incamminò, lasciando il piccolo pezzo di carta poggiato sulla panchina. Lì, immobile, a estrema testimonianza del suo passaggio. Dimentico delle intenzioni di preservare per sempre le parole mormorate (o forse consapevole che ve ne sarebbero state tante e tante altre) non portò con sé il foglio e lo abbandonò al suo destino.
Accadde così che il foglio sciupato giunse nelle mani di coloro i quali prenderanno il testimone di questa storia e che ci condurranno sino al signor Jacopus B. e alla sua scoperta sensazionale.

Fu così che la poesia, freneticamente vergata sulla ricevuta spiegazzata, restò ferma ad attendere l’alba che sarebbe sorta di lì a poco. Placidamente poggiata sul sedile di legno della panchina, era scossa di tanto in tanto da qualche rivolo di vento freddo, come se un tic nervoso le facesse sussultare ora quell’angolo, ora quell’altro. Rimase comodamente adagiata, inconsapevole del potere nascosto nelle sue parole e del suo ruolo in questo nostro lungo resoconto. Non poteva certo sapere che i tratti neri, ravvicinati e scanditi, che la componevano, dandole vita, avrebbero portato ad un così alto numero di conseguenze ed effetti imprevedibili, inconsueti e decisamente singolari. Se ne stava lì, spensierata, ad attendere che il sole spuntasse oltre i palazzi, aldilà del campanile alto e delle montagne ancora più lontane. Era la sua prima alba e voleva gustarsela pienamente, curiosa di vedere un astro di fuoco e calore fare capolino nella notte, rischiarandola. Era una poesia e in fondo non poteva che essere sensibile allo spettacolo del giorno che sboccia. Era nata da poco e già bramava la vita e le esperienze mutevoli che essa dona.
Attendiamo con lei, lasciamo che le ultime ore della notte scivolino via e si perdano nel passato; sediamoci al suo fianco sulla panchina di legno e, forse anche sonnecchiando, chiudiamo gli occhi e prepariamoci alla magia del primo raggio di luce che fende, uccidendolo, il buio.
Sorgerà un giorno nuovo, uno dei tanti giorni che sono spuntati dalle nebbie orientali dell’orizzonte e che devono ancora sorgere là, oltre i monti. Un giorno che per molti, tantissimi, sarà un giorno qualunque, identico agli altri che finiscono nel dimenticatoio della vita e che si perdono, come se non fossero mai stati davvero vissuti.
Ma quel giorno non per tutti fu qualunque. Fu in quella giornata che il nostro, al momento defilato, protagonista farà la sua scoperta. La rivelazione che modificherà la sua vita tanto da renderla irriconoscibile agli occhi dei più. Quel sole che stava pigramente sorgendo, quasi sbadigliando oltre l’orizzonte, illuminerà una sequela di fatti così assurdamente legati fra di loro da far credere che nulla possa davvero capitare per caso e che da qualche parte vi debba pur essere un libro nero, magicamente decorato, che narra le vite di ogni uomo. Un testo, chissà forse pure un romanzo, scritto da qualche capricciosa divinità briccona che, come noi umili narratori, trova piacevole il passar ore a tessere trame, intrighi, capricci e inconcepibili vicissitudini. Un narratore, lo dobbiamo confessare, con una fantasia infinitamente superiore a quella, misera e limitata, di chi scrive questa storia. Tuttavia, come detto, ridetto e ripetuto, nessun ordine, nessuna premeditazione, non v’è nessun biografo divino a giustificare l’imprevedibilità delle vite degli umani, ma solo il semplice, beffardo, cieco, irrazionale caso. Se un qualche tributo lo volessimo necessariamente donare ad una divinità, non potremmo far altro che immolare il nostro più bel capretto al dio della fortuna che muto e sordo, resterà indifferente al collo sgozzato del tenero cucciolo e al sangue che copioso si riversa per terra.
Ma non perdiamo tempo, la vicenda sta giungendo al suo termine ed immaginiamo che il lettore desideri sapere come da una foglia, da un morso e ora da una poesia si arrivi ad un’armatura medievale. Manca ancora un tassello, un anello nuovo a questa strana catena causale. Un tassello che non mancheremo di descrivere e che ora, magnanimi, anticipiamo: un bacio.
Questa digressione, senza meta e senza un fine preciso, è solo servita per far scorrere il tempo più velocemente e far passare le conclusive monotone ore della notte per arrivare al momento esatto in cui i primi raggi luminosi portarono l’ambasciata del nuovo risveglio del sole.
Ed ecco, fermiamoci, la bocca un po’ spalancata dalla meraviglia, contempliamo la nascita di un giorno nuovo. L’alba del giorno dei Morti.
Non avrà dimenticato il lettore attento che questa trafila apparentemente caotica di fatti legati fra di loro era stata inaugurata il primo giorno di novembre di un anno imprecisato. Ebbene, se non ipotizziamo interventi magici (e di certo non lo faremo) dopo il primo giunge normalmente il secondo, dopo l’uno il due, come ogni bambino ci potrà, orgogliosamente, riferire.
Passato il giorno in cui si celebra la festività di Ognissanti, giunge (per una scelta che farebbe riflettere) la data in cui si venerano tutti i morti, potremmo dire Ognimorti.
Un giorno particolare questo di Ognimorti, una data in cui i vivi, infinitesima parte degli uomini e delle donne che hanno solcato questo azzurro pianeta, dedicano un pensiero e forse un fiore a chi ormai non è più, a coloro di cui ci si ricorda e anche a quelli di cui si è perso persino il nome. Festa delle ceneri, dei corpi putrefatti, della memoria e delle lacrime di nostalgia.
Giorno particolare dicevamo, perché durante queste ventiquattro ore, in cui i vivi tributano un omaggio ai morti, nessuno muore. Neppure il malato più grave, neppure la vittima dell’incidente più disastroso, neppure il vecchio più Matusalemme, tutti sopravvivono; moriranno, questo è certo, magari il giorno dopo o quello successivo ancora ma nemmeno uno proprio in queste ventiquattr’ore.
Una circostanza davvero singolare che è ai più tenuta segreta. Gli scienziati, le varie autorità, i governi democratici, così come quelli dispotici tacciono su questa stranezza. Pericoloso sarebbe diffondere questa verità fra il popolo. Lo sappiamo, la gente è facile preda delle emozioni, delle fantasie e delle illusioni. Chissà cosa penserebbe; forse sognerebbe di una qualche forma di rivelazione, di un messaggio inviatoci da una divinità benevola che concede un giorno di tregua dalla nera falciatrice, oppure fantasticherebbe di una morte impersonificata che si dedica a far visita al suo popolo e alle sue vittime, per capirle, studiarle e forse persino amarle. Cosa vieterebbe, allora, di immaginare la morte felicemente addormentata fra le braccia di un qualunque violoncellista, esausta e appagata dalle fatiche dell’amore? Tutto sarebbe possibile, la ridda di ipotesi non avrebbe confini e l’uomo spenderebbe tutta la vita nel vano tentativo di comprendere la stranezza del secondo giorno di novembre, dimentico di tutto il resto, dei suoi doveri, dei suoi compiti e ruoli. Sarebbe davvero pericoloso. Estremamente letale per il buon ordine del mondo. I potenti della terra non fecero fatica un giorno lontano a mettersi d’accordo, nonostante le religioni differenti, i credi politici opposti, le lotte e le guerre in corso, l’odio e il pregiudizio. La verità sul due novembre andava taciuta. Strenuamente posta sotto silenzio. Fu l’unico caso in cui tutti, ma proprio tutti, i governanti del mondo si dissero concordi. Non capitò mai più.
Tante sono state le teorie che gli scienziati, segretamente incaricati di disvelare questo mistero, proposero negli anni ai grandi della Terra. Speculazioni spesso in aperta contraddizione le une con le altre, tanto che ben presto persino gli scienziati si rifiutarono di perdere il loro tempo preziosissimo per dedicarsi ad una ricerca che non potava da nessuna parte (e soprattutto non portava gloria, visto che doveva essere tenuta segreta).
Tra tutte quella che ci piace di più e che vorremmo ricordare è quella nota per essere la più semplice, la meno astrusa. Questa tesi recita più o meno così: se nel giorno dei Morti non si muore è perché questo giorno è dedicato alla loro celebrazione. L’animo di ognuno di noi è allora proteso verso i defunti, dimenticando per un giorno della nostra sicura natura mortale e così, quasi che bastasse non pensarla per allontanarla da sé, semplicemente ci si scorda di essere destinati a spegnere gli occhi. Rivolti a chi è ormai estinto perdiamo di vista anche il nostro destino. Nella morte degli altri tralasciamo la nostra e, così facendo, ci dimentichiamo di morire. Con questo pensiero viviamo, nonostante tutto.

Ma ora bando alle astruse digressioni in cui amiamo perderci, dimenticandoci del fine di questo narrare. Sorge l’alba ed è ormai tempo di dedicarsi a ciò che accadde quel mattino alla poesia e come, da questa, si arrivi dritti dritti all’armatura del signor Jacopus B.
Signor Jacopus B. che, dobbiamo dirlo, da buon mattiniero qual’era proprio nel momento in cui la prima luce si rifletteva sugli oggetti del mondo, stropicciava gli occhi, ancora appiccicati per il lungo sonno, svegliandosi. Sarà un gran giorno per il nostro protagonista.
La piazza era quasi completamente rischiarata dalla luce del primo sole, quando da una viuzza laterale, un po’ nascosta, fecero il loro ingresso nella nostra storia i nuovi interpreti di questo casuale passaggio di testimoni.
L’ora esatta non importa, il lettore pignolo (che immaginiamo già quante volte si sarà lamentato prima di giungere a questa frase) potrà scoprirlo consultando gli strani almanacchi che calcolano esattamente l’ora di tutte le albe e di tutti i tramonti dell’anno. A noi basterà dire che si era nell’ora in cui la luce fa capolino nel mondo, anticipando e annunciando il sole che ancora riposa oltre l’orizzonte, come una sorta di sovrano che ama farsi presentare da giocosi paggetti.
Ebbene, fu in quell’ora che la coppia di anziani entrò nella piazza. Ogni mattina facevano un percorso differente, scelto per lo più per caso, dettato a volte da qualche incombenza, come il comprare il pane o il latte oppure il far visita al medico o a qualche amico senile, ma molto più spesso totalmente in maniera casuale. Un libero passeggiare per la città che si risveglia e che comincia, pigramente, a rumoreggiare.
Abitavano a poche strade di distanza dalla piazza della fontana e di solito le loro passeggiate muovevano verso la direzione opposta rispetto ad essa, non amavano quella strana scultura a forma di piramide che sorgeva al centro dello spiazzo e che emanava il fetore dell’acqua putrida che vi ristagnava. Tuttavia, proprio quella mattina, fu lei a voler andare verso quella parte. Lui acconsentì, consapevole dagli anni di vita insieme che le sue improvvise decisioni, le sue imprevedibili intuizioni nascevano da una sensibilità profonda che quasi le dava il potere di vedere oltre quello che le persone comuni, lui compreso, riescono a cogliere nell’ordito del reale.
Si chiedeva spesso se la donna a cui aveva dedicato la vita non fosse una sorta di maga, o addirittura di strega e si vedeva in un’epoca lontana, cavaliere coraggioso, accorre per salvarla dalle spire del fuoco di un rogo alimentato dalla superstizione e dall’ignoranza delle folle arringate. A modo suo era un sognatore, d’altronde si era guadagnato la sicura pensione scrivendo romanzi d’avventura per ragazzi e feuilleton popolari. Ora scriveva solo poche pagine di tanto in tanto, per lo più raccontandosi la vita che aveva vissuto, per farne un bilancio prima che la morte venisse a prenderlo. Sperava che fino a che non avesse concluso la sua autobiografia la morte l’avrebbe aspettato, quasi curiosa di leggere la sua ultima fatica letteraria sino all’ultimo rigo.
Lei era stata insegnante in un piccolo liceo di città. Si ricordava ognuno degli alunni passati per la sua classe e molti ancora le scrivevano, raccontandole la loro vita di adulti. Era stata un’insegnante severa ma aveva saputo donare a tutti i suoi studenti una parola giusta nel momento del bisogno e grazie a quella parola, pronunciata con umiltà, tutti loro la ricordavano con affetto e con nostalgia.
Non è intenzione di questa narrazione soffermarsi a raccontare come l’insegnante e lo scrittore si incontrarono per la prima volta tanti anni orsono. Noi che ne conosciamo la storia non possiamo fare a meno di sorridere per come ancora una volta il caso aveva saputo tessere una trama intricatissima e labirintica per portare quelle due persone a imbattersi l’una nell’altra. L’abbiamo detto all’inizio di questo lungo resoconto: a volte le scoperte più importanti capitano per caso.
Torniamo a no: l’uno al braccio dell’altra sopraggiunsero nella piazza dopo soli cinque minuti di camminata. Abitualmente vagavano per i vicoli della città per più di un’ora prima di rientrare, era il loro modo di tenersi giovani, nel corpo e, soprattutto, nello spirito, scoprendo luoghi nuovi celati dagli alti palazzi che componevano la città. Incredibilmente finivano ogni volta per scovare un angolo di città mai visto che li lasciava meravigliati e sorpresi, come se fossero stati quasi dei bambini all’avventura in un bosco fatato.
Quella mattina però lei volle fermarsi subito, sono stanca, disse e lui preoccupato acconsentì, indicandole una panchina vicina su cui sedersi a riposare. Non era in realtà stanca, era ben abituata a camminare e le sue gambe sopportavano ben più che quei pochi metri percorsi. Tuttavia sentiva che qualcosa non andava. Nell’aria c’era una sensazione strana, intensa. Una sorta di alone o di odore, l’aurea di un’emozione densa che permeava la piazza e i palazzi intorno. Era stata quella sensazione a spingerla verso lo spiazzo della fontana e ora che vi si trovava la sentiva forte e violenta premerle addosso. Un’invisibile nebbia solida in cui faticava a muoversi.
Capì che lì, poco tempo prima, doveva essere successo qualcosa di importante, di grave. In quel luogo doveva essere avvenuta una sorta di esplosione d’emozioni il cui fragore ancora aleggiava in giro. L’aurea sfuggente la spingeva sempre più verso la panchina che si trovava nei pressi della fontana, come se lì dovesse trovarsi il fulcro, l’epicentro del terremoto. Si lasciò condurre attraverso la piazza sino al lampione che si stava spegnendo e alla panca di legno che si trovava proprio sotto.
Si sedette spossata e trasse un lungo respiro. Più volte lui le chiese se stava meglio, cosa si sentisse, se dovesse accompagnarla a casa o piuttosto correre ad una cabina telefonica e chiamare un medico; era sempre stato molto premuroso e con lei lo era in modo anche eccessivo. Ad ogni sua domanda scuoteva il capo distratta, si vedeva che la concentrazione di lei era rivolta altrove, indirizzata verso il tentativo di comprendere ciò che sentiva.
Non volle tuttavia spaventarlo oltre misura e allora, con un gesto affettuoso, gli accarezzò il volto rugoso e gli sussurrò, sto bene, caro, non preoccuparti. Lui che la conosceva bene, che sapeva ormai come interpretare ogni sua espressione, leggendo fra le pieghe del volto grinzoso per l’età, scorse la sincerità e si placò dalla frenesia di soccorrerla. Anche lui si sedette e restò in silenzio ad attendere che qualcosa capitasse, che lei decidesse di rivelargli il vero motivo di quella improvvisa stanchezza.
Ma lei non parlò, non ve ne era bisogno. Su quella panchina vi era adagiata la risposta ad ogni possibile domanda, la fonte dell’emozione che veleggiava nell’aria. Lei non dovette far altro che far cadere lo sguardo alla sua destra e vedere poggiata la stropicciata ricevuta decorata e cesellata dal tratto dell’uomo che crocchiava le caviglie. La prese fra le mani piccole e delicate e, tenendola un pò lontana dal volto e dagli occhi, vi lesse la poesia che vi era stata vergata. La lesse e la rilesse mentre lui la guardava con curiosità chiedendosi che cosa fosse quel foglio spiegazzato che aveva così profondamente conquistato lo sguardo di lei.
Fu così, con una coppia di anziani innamorati seduti su una panchina, che quella poesia scritta di getto e senza metrica segnò il passaggio del testimone invisibile che stiamo così fedelmente e strenuamente inseguendo. Fu così che la catena causale aggiunse un nuovo anello e la scala un nuovo piolo. Fu così che l’effetto del morso della fanciulla sulla vita dell’uomo che crocchiava le caviglie divenne la causa di un’altra sequela di eventi che altrimenti non sarebbe mai capitata.
Un foglio spiegazzato su cui era incisa una poesia, grazie ad esso la vita della coppia di anziani cambiò.
Vedremo che mutò solo di un poco perché serve molto di più a cambiare la vita di due persone anziane, felici e legate così intensamente da essere divenute pian piano nel tempo una cosa sola. La piccola causa della poesia modificò forse più che la vita dei due anziani, la loro giornata. Ma tanto bastò a far sì che la vita del signor Jacopus B. ne fosse completamente sconvolta.
Quanto ci insegna tutto ciò sulla stabilità che l’età consente di raggiungere, o forse a voler meglio indagare i fatti e gli avvenimenti alla luce di una lente più spessa e potente, potremmo supporre che ciò che dona stabilità contro le imprevedibili tempeste della vita, contro gli straripamenti del fiume della sorte, non è la vecchiaia ma piuttosto un nesso forte, profondo, antico. Un nodo che il solito romantico chiamerebbe amore.

Lei non disse nulla. Con un gesto semplice e complice porse il foglio rovinato all’uomo che le sedeva al fianco. Lui prese dalle mani di lei la ricevuta impiastricciata dalla matita e, inforcando gli occhiali da presbite che gli donavano un’aria da vero scrittore, lesse. La prima volta fece scorrere veloce gli occhi sui segni tracciati poi, stupito e sorpreso, rilesse con più calma, mormorando le parole della poesia, lasciandole delicatamente sostare sulle labbra e sulla punta della lingua. Non vi può essere fretta in alcuni momenti della vita, nel dire ti amo e nel dire ti odio serve un tempo lunghissimo, un eterno attimo senza fine. Si prese tutto il tempo che era necessario a che la poesia gli entrasse nella mente, nel cuore e persino in ogni cellula della pelle, in ogni anfratto del corpo.
Poi abbassò lo sguardo, poggiò la poesia sulle gambe accavallate e si voltò. Lei lo stava fissando, in attesa di un suo gesto, di un suo cenno o forse semplicemente della muta condivisione di un’emozione.
Lui le sorrise e il suo volto si infittì di solchi e rughe, ferite incise dal tempo e dalla vita. Lei ricambiò il sorriso e non disse nulla. Restarono così, per qualche attimo, a guardarsi sorridenti.
Quanti linguaggi, quante parole pensate e pronunciate in migliaia di lingue, alcune ancora vive, altre ormai morte, quanti idiomi sconosciuti nel mondo per tentare di significare il reale, di esprimerlo e, così facendo, di possederlo. Un’infinità di espressioni, di modi di dire, di frasi fatte con cui, vanamente, lottare per assoggettare la molteplicità del reale al nostro potere, alla nostra mente. Quanti pensatori gettarono la loro vita seduti su scomodi scranni in sale buie di antiche e polverose biblioteche a cercare la parola che ogni cosa dice, che tutto significa. La parola, unica e singola, che dona la comprensione, il possesso di tutto ciò che vi è intorno a noi. Quelle poche, semplici e conosciute lettere che, cantate e sussurrate, permettano di vedere l’ora, il dopo e il prima, il qui, il là, il su e il giù. Il verbo o il sostantivo (o forse l’aggettivo) che racchiude in sé la vita e la morte di tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. La parola perfetta che, in fondo, consente semplicemente di capirsi e di comprendersi. Di dire all’altro noi stessi e viceversa. Ma non è nelle parole che vi è la capacità di capire. Non è nell’insieme più o meno decodificato di suoni che l’uomo trasmette i propri significati e afferra il senso degli altri. Fallace è la parola. Vano è il verbo. Inutile il sostantivo e ridondante l’aggettivo.
Altrove di dovrà cercare, in altri luoghi dovrà ingobbirsi lo studioso per scovare ciò che concede di comprendere. La segreta ed arcana formula magica che dischiude il potere di dirsi e cogliersi alberga non nei rituali ripetitivi del linguaggio. Non è lì che dobbiamo inseguire la comunione con l’altro.
Non sappiamo, noi che verghiamo questo resoconto utilizzando a nostra volta lo strumento della parola, dove vada ricercata la comprensione finale di ciò che ci attornia. Vorremmo conoscere la risposta e vantarci, professarla al mondo e predicarla. Ma ne siamo all’oscuro.
Tuttavia se, costretti, dovessimo tentare un’ipotesi, allorché alquanto coraggiosa e audace, non esiteremmo a sostenere che in quello sguardo, in quel muto fissarsi negli occhi, in quel pascersi nelle pupille dell’altro, la coppia di anziani, seduta alla panchina, aveva raggiunto il segreto arcano. Lui e lei in quel saldarsi silenzioso si compresero, dissero le mille parole che la loro bocca non pronunciò e si capirono. Si assimilarono completamente. Furono un solo pensiero condiviso che li univa, sgorgando dagli occhi dell’uno verso gli occhi dell’altra e viceversa. Indecifrabile linguaggio per dirsi io sono questo ed io questa e così, magicamente, possedersi.
Nello sguardo silenzioso lessero interi volumi di parole, pagine e pagine fittamente scritte, dense di espressioni, esempi, perifrasi e di ogni altro astruso artefatto linguistico. Un fiume in piena di suoni che loro espressero e compresero in un banale guardarsi e che tradussero in un solo, chiaro e manifesto significato. Un senso comune e condiviso che racchiude, come uno scrigno incantato, tutta la loro vita insieme, tutto il loro darsi reciprocamente ogni giorno.
Fu lei a rompere l’incantesimo del silenzio che tutto diceva. Lo fece sussurrando alcune parole che infransero la magia della comunicazione muta tra di loro. Andiamo a casa? Lui sorrise e pensò che quella donna ormai sapeva leggergli dentro e conosceva ogni suo desiderio, ogni suo sogno. Non dovette neppure acconsentire col capo, si alzò e le porse il braccio con cui sorreggersi. Lei vi si aggrappò ancora un po’ spossata dall’emozione che aleggiava nell’aria e si alzò. Sentì sul viso la sensazione che giaceva nell’aria. Non sapeva cosa avesse prodotto quell’esplosione di sentimenti, di passione, di dolore che ristagnava come una nuvola greve e bassa sulla piazza, intuiva che dietro vi fosse un dramma inenarrabile, una vita che si frantumava contro il muro dell’assurdo. Non voleva conoscere la verità che si nascondeva nel vicino passato della piazza, era certa che lì era accaduto un fatto straziante, infinitamente mesto. Preferiva non conoscerlo, non esserne parte, tuttavia rivolse un pensiero a chi aveva patito un simile dolore, una sorta di benevola preghiera, come per potergli donare un po’ di conforto, un pizzico di pace. Un pensiero che voleva solo essere una mano tenera, una carezza sulla schiena di quell’uomo dolente con cui condividere, anche solo per un attimo, il fallimento e il patire. Ci piace credere che l’uomo che crocchiava le caviglie, ormai lontano, potè sentire quel gesto d’affetto e sorprendersi di quel momento in cui i dolore sembrò attenuarsi.
Se le cause dell’alone che aleggiava nell’aria erano oscure, chiare ne furono, invece, le conseguenze. O forse sarebbe meglio dire il frutto di quanto era accaduto. E questo frutto era lì, stretto fra le dita dell’uomo che lei amava, forse ancora più sgualcito di quando lo avevano raccolto sulla panchina. Il foglio, la ricevuta decorata, la poesia vergata sulla carta. Quella poesia era la pietra preziosa che nasce dal comprimersi di montagne sotto il calore di mille fuochi, era il condensarsi di emozioni violente, rabbiose, furenti, ribelli e riottose. I versi tracciati sulla carta erano il manifestarsi ordinato di ciò che non può esistere regolato ma che ha senso solo nella caoticità e nell’impetuosità del sentire. La poesia era un miracolo, una sorta di piccola sfera trasparente in cui osservare tutti i mari di tutti i pianeti, tutti i monti di tutti i satelliti, tutte le luci di tutte le stelle, tutte le oscurità di ogni morte. In quelle poche righe vi era racchiuso una cascata di emozioni, lì pronte ad essere lette e quindi, ad essere vissute. Amore, odio, rabbia, speranza, tenerezza, passione furente, disillusione, sofferenza, struggimento, quante!, quante ancora, tanto da non riuscire neppure a comprenderle e a vederle tutte. Ogni emozione che l’uomo avesse mai sin lì provato era contenuta in quei versi tracciati finemente sulla carta spiegazzata. La poesia cantava l’uomo e lo racchiudeva in sé.

Così il passo successivo di questo percorso causale e disordinato che stiamo tracciando si compì. I due vecchi innamorati lessero la poesia che era frutto di un morso e che a sua volta nasceva da una foglia. Strana catena davvero quella che stiamo con fatica componendo. Rimbalzi imprevedibili di causalità bizzarre si alternano e si muovono in direzioni inaspettate. Solo una cosa è certa, lo è stata sin dall’inizio perché su questo punto si è voluti essere sinceri e schietti dal principio. La fine. Il fine di tutto questo pellegrinare fra cause ed effetti bizzarri. Chi legge, chi ha continuato a seguire questa rendicontazione sino a questa così lontana pagina, sa che tutto ciò che è stato e che sta ancora per essere narrato ha un punto preciso a cui giungere. Un piccolo porto là in fondo alla tempesta. Lo conosciamo e non abbiamo ora esitazioni a ripeterlo: il signor Jacopus B. che scopre la sua misteriosa armatura e, possiamo dirlo, finalmente se ne libera.
Abbiamo già conosciuto il signor Jacopus B., ne sappiamo l’eccentricità, quel suo essere un po’ strano, un po’ folle in alcuni suoi comportamenti. Una bizzarria che però, ad differenza di molti altri personaggi quantomeno coloriti che popolano le strade e i mezzi di trasporti pubblici del mondo, viveva questo suo essere stravagante con grande naturalezza, senza sensi di colpa o forse, potremmo dire, senza neppure ben rendersi conto di essere un pochino strambo ed originale.
Chissà forse un giorno racconteremo di quella volta in cui il signor Jacopus B. incontrò l’uomo pecora o forse di quando scoprì che il mondo che lo circondava non aveva senso, per arrivare addirittura a quando litigò furiosamente con la strana creatura aliena i cui simili avevano invaso la Terra.
Ora, non ce ne voglia il lettore, ciò che dobbiamo raccontare è però un altro episodio della sua vita, forse altrettanto importante di quelli a cui abbiamo fatto cenno sopra.
E ancora presto per soffermarci e rivolgere lo sguardo da narratore sul signor Jacopus B., arriverà il suo momento. Ci piace però, ogni tanto con la coda dell’occhio seguire il percorso parallelo che il signor Jacopus B. compì per giungere al punto e al momento esatto in cui avrebbe dovuto essere affinché la catena causale che stiamo descrivendo si chiudesse. Vista l’ora, di certo il signor Jacopus B. aveva già compiuto le abluzioni mattutine e probabilmente già fatto colazione. Se non siamo in errore (e in quanto narratore onnisciente questa ipotesi va preferibilmente esclusa) nel momento in cui i due vecchi innamorati decisero di lasciare la piazza alzandosi dalla panchina, il signor Jacopus B. usciva di casa. Elegante come sempre nel suo lungo cappotto grigio e avvolto nella morbida sciarpa di lana potremmo seguirlo per un breve tratto. La destinazione è facile da supporre: il teatro. Le prove dell’ultimo spettacolo si stanno facendo via via più pressanti perché la prima natalizia è quanto mai imminente e la parte che il signor Jacopus B. interpreta, sebbene piccola, non va sottovalutata e va provata e riprovata migliaia di volte.
Lasciamolo proseguire meditabondo lungo la strada che ogni mattina percorre per giungere al teatro. Gustiamoci un po’ malignamente la sorpresa che sappiamo gli capiterà e di cui lui è completamente all’oscuro. Sarà divertente osservarne la faccia sbalordita fra poco.
Torniamo però ora ai depositari del testimone di questa stravagante staffetta.
Sorretta dal bracco di lui, lei si fece condurre fuori dalla piazza dalla direzione in cui, non molti minuti prima, erano giunti, ancora ignari di essere destinati a far parte del disegno che stiamo tracciando, pennellata dopo pennellata.
I due anziani innamorati, legati in un abbraccio che sembrava persino più intenso di quanto erano soliti fare, camminarono spediti con la fretta di chi vuole ritrovare i luoghi conosciuti, di chi non ha altro desiderio se non quello di rifugiarsi fra le mura tiepide dell’edificio che chiama casa.
Avevamo detto che la piazza sorgeva a poche strade di distanza dall’abitazione della coppia e, infatti, proseguendo con passo svelto e deciso giunsero all’ingresso del loro cortiletto in pochi minuti.
Non si lasci ingannare il lettore dalla rapidità con cui si svolse la vicenda dell’insegnante e dello scrittore. Non vi è neppure bisogno di ricordare che il tempo è assolutamente soggettivo e, a volte, un solo minuto può durare più che intere giornate. Quanto era capitato alla coppia di vecchi innamorati, sebbene accaduto in una sola mezz’ora, fu per le loro vite importante come molti degli anni già vissuti insieme. La poesia, infatti, aveva avuto il potere di ricordare loro il legame che li univa, di ripetergli che erano una cosa sola e di comprendere (caso più unico che raro nella storia degli amori e delle coppie) la fortuna di tale privilegio.
Non si amavano né di più, né in modo più intenso dopo la lettura della poesia scritta dall’uomo che crocchiava le caviglie, semplicemente ora erano maggiormente coscienti di quale incredibile, magico, assoluto dono il caso avesse fatto loro: trovarsi e, per chissà quali oscuri motivi, amarsi.
Fu quello l’effetto della poesia sulla coppia, la conseguenza che li riguardò da vicino, anche se ai fini di questa narrazione e della discoverta che vogliamo narrare sarà un altro esito che ci interesserà. Un atto quotidiano, comune, banale ma che non sarebbe capitato, almeno non lo sarebbe stato in quel preciso momento e tempo in cui il signor Jacopus B. avrebbe potuto vederlo.
La conseguenza della lettura dei versi tracciati sulla carta rovinata dall’uomo che crocchiava le caviglie fu un bacio, un bacio dato esattamente nel momento in cui il signor Jacopus B. passava davanti alla casa dei due anziani innamorati e rivolgeva lo sguardo proprio in quella direzione, osservandolo.
Stiamo anticipando, rischiando di rovinare la sorpresa al lettore. Procediamo con calma anche se la fine è prossima e l’ansia, la frenesia di dire, di raccontare si fa forte e pressante.
Abbiamo lasciato i due vecchietti all’ingresso del loro piccolo ma ordinato giardino davanti a casa. Un quadrato di verde attraversato da un vialetto di ciottoli grigi che portava in pochi passi alla villetta bianca, modesta, ma frutto di cosi tanti sacrifici da sembrare una reggia agli occhi di lui e di lei.
Tra il giardino e la porta di entrata alla villetta una piccola veranda, protetta da una tettoia di mattoni ocra scoloriti dal tempo e dalle intemperie. Si fermarono proprio lì i due anziani innamorati. Lui delicatamente la fece sedere ad una delle sedie che circondavano un piccolo tavolo rotondo, su cui i due erano soliti bere un caffè o un tè nei pomeriggi in cui il tempo lo permetteva. Lui si adagiò sulla sedia vicina e per un attimo chiuse gli occhi come a voler tener dentro di sé l’emozione che provava in quel momento e goderne sino in fondo, pienamente. Poi, con quel sorriso cesellato intorno alle rughe solcate dal tempo, le si avvicinò col viso. E sempre senza dirle nulla la baciò. Fu un bacio tenero, affettuoso veloce. Lei rispose al suo bacio con le labbra ma anche con gli occhi, dicendo ancora in quel linguaggio silenzioso tante e tante cose.
Lui prese il foglio che ancora stringeva fra le dita, lo guardò e rivolgendosi a lei lesse ad alta voce le parole, i versi e le strofe della poesia. La declamò come se l’avesse composta egli stesso e ora gliela stesse donando.
Non dovremmo indagare ed indugiare in questo loro momento così intimo, così privato, non vorremmo descrivere la lacrima che scese lungo il volto de lei, scorrendo lungo la guancia in un percorso tortuoso fra una ruga e l’altra. Non vorremmo ma dobbiamo. E allora, un po’ crudeli in questo nostro sguardo curioso e invadente, non ci resta che esitare e vedere.
Lui finì di leggere la poesia, depose il foglio sul piccolo tavolo rotondo, guardò lei e allungò le braccia. L‘abbracciò, la strinse a sé, come a volerla inglobare, far sua, racchiudere in sé e la baciò con bacio vero, intenso, profondo che ha il potere di dire a chi si ama molto più di ogni altro scambio dei corpi. Fu un bacio lungo come a volte solo i ragazzini che altro non conoscono dei modi con cui amarsi sanno scambiarsi.
Vi sono a volte delle immagini, come alcune fotografie, che sanno narrare e dire più di lunghi tomi di racconti. In quei momenti ogni cosa è perfetta e tutto contribuisce a disvelare significati nascosti e lontani. Quante frasi, finemente composte, sarebbero necessarie al narratore per esprimere il medesimo senso. Forse neppure vi riuscirebbe e stremato getterebbe lontano il foglio sporco di inchiostro desistendo dal proposito di mostrare ciò che quell’immagine ha rivelato così naturalmente e facilmente.
Difficile il compito del narratore, costretto a trasmettere sensazioni provate o vissute, attraverso uno strumento fiacco e debole come la parola. Basterebbe avere il dono di saper prendere fra le mani un pennello e tracciare su una tela linda l’immagine del suo sentire, così, unicamente guardando, si potrebbe raccogliere il senso di un sentire profondo e intimo.
Consapevoli di questa nostra impossibilità deponiamo le armi del narrare e chiediamo al gentile lettore di perdonare il nostro fallimento, il nostro limite. Questa è l’immagine che non possiamo descrivere neppure utilizzando tutte le parole che l’uomo ha pensato per significare le cose e le idee del mondo: una piccola casa bianca, un giardinetto verde attraversato da un vialetto di ciottoli grigi, una veranda di legno marrone e due anziani innamorati che, seduti, si baciano di un bacio lungo e appassionato. Sappia il lettore, nella sua mente, comporre la figura che cerchiamo di trasmettere e non ce ne voglia se non vi riesce. Forse non è ancora venuto il tempo per questo fruitore di conoscere e di sapere quell’impossibilità del dire racchiusa da un bacio. Verrà il momento, non tema il lettore, ma forse queste pagine che ha sin qui seguito lo lasceranno perplesso e stupito. Le abbandoni, allora, ritorni ad esse fra alcuni anni, quando avrà provato e così capito che in due labbra che si sfiorano, si toccano, si cercano vi è nascosto un universo che nessuna scienza può spiegare e numerare ma che si può solo accettare, come la più profonda professione di fede.
Lasciamo quel bacio che non può essere ridotto a parole e numeri e volgiamo lo sguardo altrove, entra ora in scena il vero protagonista di questa storia. Il signor Jacopus B..

Avevamo accennato al fatto che il signor Jacopus B. se ne stesse andando, come ogni altra mattina, verso il teatro che sorgeva al centro della città percorrendo le consuete strade senza mai deviare dal suo percorso ripetitivo e meticoloso.
Uomo di grande fantasia ed immaginazione, il signor Jacopus B. sapeva al tempo stesso essere ripetitivo e noioso fino allo sfinimento; una volta che individuava una modalità comoda per svolgere un compito non l’abbandonava più e la faceva sua in modo indelebile. Aveva, anni addietro, identificato le strade più veloci per giungere a piedi al teatro da casa sua e da allora non si era mai neppure sognato di provare soluzioni alternative. Dritto per due strade, poi a destra, poi a sinistra, una piazza, una stradina, una seconda piazza poi a sinistra e in fondo al viale il teatro. Mai una variazione, mai uno schiribizzo della mente che lo facesse svoltare destra piuttosto che a sinistra o viceversa, come se in realtà stesse percorrendo una specie di tunnel senza uscite e senza altre possibilità che quelle incise nella sua testa dall’abitudine.
Così, anche quella mattina del secondo giorno di novembre, percorreva le identiche vie che aveva calpestato per anni e che pensava di dover calpestare ancora a lungo (la pensione era una sorta di miraggio all’orizzonte di innumerevoli riforme dello stato sociale).
Aveva valutato esattamente il tempo necessario a percorrere tutto il tragitto, trentacinque minuti si passeggiata. Non solo, conosceva nel dettaglio il tempo necessario del transitare in ogni singolo segmento dell’intero percorso: cinque muniti qui, otto là, dodici per quella strada, tre per la prima piazza e così via.
Grazie a questa mania possiamo calcolare esattamente il minuto in cui il signor Jacopus B. passò di fronte alla casa della coppia di anziani innamorati. Proprio in fondo alla stradina fra la prima e la seconda piazza, al minuto ventitre del cammino, il signor Jacopus B. costeggiò il piccolo giardino quadrato con il vialetto di ciottoli, la veranda di legno e tutto il resto.
Non vi aveva mai fatto particolare caso, era una delle molte costruzioni che attraversava al suo passaggio e non aveva nulla di speciale da attrarre la sua attenzione, si confondeva con la porzione di città che attraversava, come una specie di sfondo sfocato non degno di considerazione.
Anche quella mattina, siamo certi, sarebbe passato oltre senza degnarvi uno sguardo se non fosse stato per la catena di cause ed effetti che abbiamo sin qui descritto. Ogni cosa sembrava decisamente orchestrata affinché il suo sguardo si spostasse leggermente a destra e si posasse sugli anziani intenti nel loro più struggente bacio.
Calma! Serve tutta la calma necessaria per narrare l’ultimo piolo della scala che stiamo, faticosamente, scalando. Non affrettiamo i tempi e proseguiamo con il consueto ordine che ci ha condotti, fedele cane pastore, sino qui.
Dicevamo che il signor Jacopus B. stava percorrendo a piedi il tragitto di trentacinque minuti che lo portava giusto giusto al teatro. Possiamo facilmente figurarcelo: mani infilate nelle tasche del cappotto, sciarpa avvolta elegantemente sul collo e sguardo perso. Lo vediamo fissare un punto imprecisato davanti a lui e mormorare, lo sguardo concentrato e la fronte aggrottata. Se potessimo avvicinarci di soppiatto, quasi di nascosto, potremmo sentire abbastanza distintamente le sue parole, una specie di litania ripetuta, una sorta di rosario sgranato. Affinato l’orecchio al mormorio indistinto, riconosceremmo senza ombra di dubbio le battute di un personaggio minore di una nota tragedia: vendicane l’infame.. lo snaturato assassinio, o ancora, è ormai prossima l’ora in cui debbo restituirmi al tormento delle fiamme sulfuree, ed alcune altre.
Non perde un’occasione il signor Jacopus B. di ripetere le parti che gli spettano nelle varie rappresentazioni in cui è chiamato a recitare. Racconteremo un giorno dell’importanza che egli attribuisce ai ruoli secondari che gli vengono sempre affidati e di come vi dedichi ore ed ore di studio. Per ora, tuttavia, questo argomento non ha importanza.
Così, proseguendo per la sua strada senza guardarsi intorno, perso in altri palcoscenici affollati di teatranti, passò la prima piazza e si incamminò lungo la discesa, la via stretta e ombreggiata, che lo portava dritto verso la seconda piazza. La stradina era piuttosto corta, forse poco più di cento metri e di solito era sgombra da passanti distratti e affaccendati, tanto da consentirgli transitarla in non più di un paio di minuti. Cosa saranno mai quei due minuti all’interno di tutta la camminata della mattina, oppure di tutta la giornata o addirittura di tutta la vita vissuta sin lì. Poca cosa ci verrebbe da dire, sbagliando. Quei due minuti risulteranno fondamentali nella vita del signor Jacopus B., tanto che se li ricorderà per tutto il resto della sua, ancora lunga, vita.
Nel momento esatto in cui il signor Jacopus B. costeggiò la casa, i due vecchi innamorati unirono le loro grinzose labbra nel bacio. Fu come se due corridori, partiti da punti differenti di un tracciato segnato, giungessero al traguardo nel medesimo, identico preciso momento, tanto da rendere impossibile capire chi dei due fosse il reale vincitore della corsa.
Finalmente ogni cose giunge al suo termine e l’ordito della casualità bizzarra che abbiamo sin qui seguito fra innumerevoli ed improvvise svolte arriva al suo termine, alla sua agognata conclusione.
Siamo approdati al punto esatto in cui il signor Jacopus B. scoprì di aver indossato per tutta la sua vita un’armatura medievale nera e brunita, spessa e impenetrabile.

Il suo sguardo fu attirato da un movimento fugace alla periferia del suo campo visivo, quasi inconsapevolmente si voltò verso la direzione da cui sembrava provenire l’ombra guizzante che aveva colto. Probabilmente, ciò che lo sorprese e lo costrinse a voltarsi fu una presenza nuova in un luogo che fino ad allora aveva sempre visto deserto.
Era transitato di fronte alla casa dei vecchi innamorati un numero infinito di volte e mai vi aveva scorto qualcuno, l’aveva sempre trovata disabitata: le finestre chiuse, la porta sbarrata e le sedie desolantemente vuote sulla veranda. Non aveva mai incontrato alcuna anima viva che vivesse in quella piccola casa. Il nostro lettore conosce il motivo di questa ripetuta assenza dei due vecchi innamorati dalla casa in quell’ora del mattino. Abbiamo descritto la loro consueta abitudine di passeggiare per la città alle prime luci del giorno, perdendosi nei vicoli, nei sentieri di cemento e nelle piazze decorate. Proprio in quell’ora il signor Jacopus B. era solito transitare davanti alla casa e così mai aveva avuto il piacere di incrociare la coppia di anziani. Anche quel mattino, se il caso non avesse voluto che lei leggesse la poesia vergata dall’uomo che crocchiava le caviglie che era giunto in ritardo ad un appuntamento per colpa di un morso dato ad un pasticcino da una ragazza che era nella città per aver visto una foglia cadere a terra, ebbene dicevamo, anche quel mattino il signor Jacopus B. non avrebbe scorto né lei, né lui. Tuttavia a sua completa insaputa il caso aveva intessuto una trama intricata e arzigogolata per far si che la scoperta fosse possibile.
Quante vite si erano sfiorate, toccate e scontrate per arrivare a questo preciso, puntuale attimo.
Il volto del signor Jacopus B. si girò verso destra e li vide baciarsi.
Rimase sorpreso. Non li aveva mai visti e sulle prime non riuscì a dare un senso esatto a ciò che i suo occhi gli trasmettevano. Per i primi battiti del suo cuore la coppia di anziani intenti a baciarsi furono solo una sorta di macchia di colore sullo sfondo bianco della casa. Un ammasso di colori indistinti e in lento movimento. Poi mise meglio a fuoco e ciò che era confuso cominciò a prendere forma, i colori si trasformarono in forme dettagliate e i contorni presero vita imponendo la loro severa rigidità. Dalla tavolozza disordinata di un pittore confusionario prese vita un disegno minuzioso, reale e riconoscibile.
E così il signor Jacopus B. si accorse di loro, si avvide dello scambiarsi un lungo e struggente bacio, fatto di dolcezza, passione e di assoluta intimità.
Restò lì, fermo ed immobile, un po’ imbambolato a guardare. Non riusciva a staccare gli occhi da quella scena; era come se ne fosse intrappolato, legato, incatenato. Osservò il braccio di lui avvolgere le spalle di lei attirandola a sé con un gesto delicato, vide la mano di lei scompigliare i radi capelli bianchi di lui nell’accarezzagli la nuca, fissò le labbra toccarsi e fondersi in un unico, lento, incessante movimento, gli occhi dei due anziani chiusi ma al tempo stesso così espressivi, ricchi di una pace e di una serenità che mai aveva notato altrove. Il signor Jacopus B. chinò leggermente il capo verso destra quasi a sfiorarsi la spalla, in un gesto di universale concentrazione e sorpresa. Osservò stralunato.
Senza accorgersi del suo essere indiscreto, persino sfacciato non si mosse e rimase a fissare la coppa scambiarsi il gesto di un amore riconosciuto e celebrato.
Durò a lungo il bacio, i due anziani innamorati sembravano non voler porre mai fine a quel momento di totale condivisione e comunione e per il signor Jacopus B. i minuti che passarono (magari per chiunque altro rapidissimi e inutili) si estesero, si dilatarono e la lancetta dei secondi sul suo vecchio orologio sembrò muoversi con una fatica immensa, con uno sforzo mastodontico e sfiancante. Il signor Jacopus B. si percepì in un non tempo in cui nulla avanza e ogni cosa resta chiusa in una sorta di bolla eterna di presente.
Un’immagine statica, un’anomalia nel progressivo procedere nel tempo dal passato al futuro attraverso l’illusione del presente.
Ma alla fine i due anziani innamorati si allontanarono l’uno dall’altra; prima il bacio si fece più lento, più pacato, poi le labbra cominciarono a separarsi finché gli occhi si aprirono e i vecchi innamorati si guardarono e si sorrisero, stupiti di un gesto inusuale e antico, come le loro memorie di giovani amanti.
I loro sguardi si serrarono in un vincolo indissolubile, come se le pupille fossero attratte da una forza misteriosa e magica, una potenza tanto intensa da trasformare quegli occhi nei due confini di un sottile ed invisibile filo indistruttibile.
Fu lui ad alzarsi per primo, non disse nulla (nulla vi era da dire in quel momento), le offrì il suo braccio e la stretta della mano con cui sollevarsi e seguirlo. Lei accettò il suo silenzioso invito, strinse con le dita delicate e bianche la mano di lui, nodosa e forte, e lo seguì.
I dure vecchi innamorati scomparvero così dietro la porta della casa bianca e in questo resoconto non compariranno più. Il loro ruolo nella serpeggiante staffetta che stiamo descrivendo si è concluso. Terminata la loro parte nella recita delle vite che stiamo descrivendo su questo palcoscenico improvvisato.
Perché la scoperta del signor Jacopus B. si compisse dovevano trovare la poesia, leggerla, comprendere la fortuna del loro amore e, semplicemente, celebrarlo. Non ce ne voglia il lettore ma ancora non crediamo di aver sfruttato le vite di inconsapevoli personaggi per un fine e un obiettivo che ha il nostro utile come unica ragion d’essere. Abbiamo rigettato questa affermazione sia per la fanciulla con l’emozione nel cuore e la foglia nel taschino che per l’uomo che crocchiava le caviglie, ma ancora con più veemenza e intensità lo facciamo ora. Noi, il cui destino di narratore è solo miseria e solitudine, siamo stati onorati di raccontare e di mostrare al lettore curioso la forza e la vitalità di una donna e di un uomo che si amano ma che soprattutto sono consapevoli del tesoro che stringono tra le mani, tanto da serbarlo come il dono più grande e proteggerlo ad ogni costo. E’ stato un privilegio rievocarlo e l’abbiamo fatto con rispetto e con reverenza, consapevoli del prodigio che si compiva.
Umili narratori di un evento immenso e sorprendente abbiamo imparato il nostro essere poca cosa e la nostra infinita invida.
Ma non di noi dobbiamo parlare, sarebbe oltremodo vanaglorioso annoiare il lettore con le vicissitudini e i commenti che riguardano il narratore, egli è semplicemente una figura diafana il cui compito (lui si sfruttato per uno scopo utilitaristico) è quello di riportare sul foglio bianco una sequela di fatti e di lasciare poi al lettore la totale libertà di esprimere un giudizio, un parere ed un’opinione su quanto appena letto. Le nostre considerazioni non valgono nulla e sono certo meno interessanti di quelle che il lettore vorrà fare al termine di questa lettura.
Riprendiamo il cammino, ormai tutto è già avvenuto e non rimane che presentarlo, utilizzando le giuste parole.

Arrivò all’improvviso, inaspettata, repentina, senza lasciargli neppure il tempo di comprendere cosa stesse accadendo, cosa stesse succedendo al proprio corpo. Fu come una sciabolata data dalla mano di un guerriero feroce e crudele ma, soprattutto, invisibile. Una ferita, uno sfregio, bruciante che lo costrinse a piegarsi, privo del respiro e boccheggiante.
Una fitta di dolore all’altezza del costato, nella parte sinistra, violenta, furibonda, tanto da sorprendere il signor Jacopus B. e per un attimo accecarlo di sofferenza. Rimase chino per diversi minuti, incapace di muoversi, di proferire parola e quasi persino di pensare. Affannato tentò in tutti i modi di sopportare il dolore che lo stava sconquassando. Era una sensazione mai provata, uno squarcio che si propagava verso l’interno, una sofferenza che non perdeva intensità ma che pian piano, incessante, meticolosa, giungeva ad ogni fibra del suo corpo, obbligandolo ad usare tutta la sua forza per non svenire, per non impazzire.
Era come se un’onda lo stesse attraversando, ma non solo una volta, infinite e continue volte, rimbalzando da parte a parte del suo prostrato corpo. Desiderava urlare, sfogare con la voce il dolore che lo devastava ma non riusciva neppure ad aprire la bocca, a modulare un qualunque, gutturale e inarticolato, suono. Era costretto a rimanere fermo, piegato, le braccia avvolte intorno al costato, la faccia volta verso terra e gli occhi sbarrati, chiusi con ferocia, la fronte sudata, i capelli scarmigliati e la bocca distorta in un ghigno di folle impotenza.
Non vi era nessuno che passava per quella stradina, era deserta e anche i due vecchi innamorati ora erano chiusi in casa, probabilmente a contemplarsi e a stupirsi che in mondo così bizzarro e crudele loro fossero riusciti ad restare uniti, ad amarsi. Semplicemente desiderosi che ogni loro vita futura potesse donare loro il privilegio di vedersi, anche solo per un momento, perché, sapevano, che sarebbe bastato un attimo per leggere nei rispettivi occhi la certezza che lì vi era il senso delle loro vite.
Il signor Jacopus B. era solo in mezzo alla strada e nessuno poteva aiutarlo, sorreggerlo, chiedergli che cosa gli fosse capitato (se anche lui l’avesse saputo). Era lì, immobile, in balia di qualcosa che non capiva, che non riusciva a comprendere.
In realtà, il dolore era così veemente da impedirgli di razionalizzare un qualunque pensiero sensato, ogni cellula del suo corpo era concentrata sino allo spasimo nel vano tentativo di fermare, di opporsi, di contrastare la sofferenza che lo attraversava come una marea impetuosa.
Il signor Jacopus B. restò inerte e dolorante.

Ogni scoperta, dalla più piccola ed insignificante, alla più grande e portentosa passa da un sentire, da una percezione del corpo. Prima di essere decodificata in schemi obiettivi di razionalità e di intelletto l’azione dello scoprire è originata dal corpo, da uno o più sensi innescati da un qualunque inspiegabile motivo. Può trattarsi di un odore, di un immagine, di un sapore che arriva impetuoso alla mente e porta con sè un’intuizione, una sorta di epifania sensoriale. E’ in questa intuizione dei sensi che alberga la magia e il mistero dello scoprire. Tutti i dati necessari a compiere alla scoperta sono sempre stati lì, alla potata di ogni singolo essere umano, più o meno visibili e coglibili, ma comunque ben presenti davanti agli occhi della gente. Perché una persona (chissà poi perché proprio quella) li veda, li assembli e li componga in un significato nuovo è fondamentale che vi sia un qualcosa di diverso, di qualitativamente differente. L’interpretazione inaspettata da cui si origina la discoverta si ancora in un quid che trascende la pura intellettualità e che si genera ad un livello inferiore, primitivo, corporeo e sensoriale. In quel luogo antico, retaggio di un dimenticato modo spontaneo di cogliere e comprendere il mondo, si scatena la scintilla che porta a vedere ciò che era sempre stato chiaramente riconoscibile con uno sguardo nuovo, dandogli un senso completamente rinnovato. In questo modo, assolutamente imprevedibile, frutto del capriccio di una parte dell’uomo non sottomessa a leggi, codici, norme ed imposizioni, l’uomo riesce a svelare il senso del mondo e, così, a possederlo e dominarlo.
Per il signor Jacopus B. la sensazione corporea che gli permise di veder finalmente ciò che dall’inizio della sua vita era lì, chiaro, manifesto, evidente fu il dolore. Fu proprio l’improvvisa e inspiegabile sofferenza che lo squassava a consentirgli di superare il velo di una quotidianità falsa, di un percepire distorto dell’abitudine cieca e di giungere, naturalmente e senza alcuna difficoltà, a vedere. Il dolore fu la chiave con cui aprì la porta della stanza in cui albergava la verità. Solo grazie a quel patire riuscì ad abbattere tutte le finte e ingannevoli costruzioni che l’avevano sin dalla sua nascita imprigionato e reso cieco.
La fitta fu lo strumento figlio del suo antico passato di uomo primitivo, libero dalla costruzioni della società, con cui scardinò la serratura che gli impediva di compiere la scoperta e di comprendere.
Solo dopo lunghi e tremendi secondi in cui credette davvero di non riuscire a vincere il dolore e di morire così, improvvisamente e senza una qualunque ragione, il suo corpo riuscì ad abituarsi alla sofferenza, lenendola e attutendola. Piano le onde del male si fecero meno impetuose e la tempeste del patire parve progressivamente placarsi.
Le sue cellule usarono ogni stratagemma di cui la natura le aveva dotate per combattere, incanalare il tormento del corpo e consentirgli così di superare quei lunghi e infiniti attimi di totale annichilimento nella sofferenza. Lentamente, ancora insicuro del fatto che il supplizio si stesse davvero attenuando, il signor Jacopus B. trovò la forza per respirare e lo fece in profondità, a fondo, consentendo ai polmoni di riempirsi di ossigeno e di espellere i fumi nefasti del male.
Solo dopo diversi lunghi respiri il signor Jacopus B. ebbe la forza e il coraggio di alzarsi e stendersi. Era rimasto piegato per tutto il tempo, le mani appoggiate, premute violentemente sul punto da cui si era originata la fitta. I suoi occhi erano sempre chiusi, quasi che avesse paura che bastasse aprirli per ridestare la cascata furente dello strazio. Si accorse, con grande sollievo, che il dolore stava passando; era sempre lì, come un carbone ardente, ma ormai il fuoco dell’incendio era domato e ormai lontano.
Volle comunque rimanere ancora un po’ lì, fermo in piedi a respirare lentamente e a fondo, tenendo gli occhi chiusi. Voleva riacquistare un poco le forze prima di riprendere il cammino verso il teatro. Ancora debole cominciò a interrogarsi sulle ragioni e i motivi di quella fitta apparsa subito dopo aver visto i due anziani innamorati baciarsi, sapeva avrebbe rimuginato su quell’episodio per settimane e che, probabilmente, non sarebbe riuscito a darsi una spiegazione sufficientemente convincente, né ora né mai.
Perché il suo corpo aveva reagito così violentemente alla vista del bacio scambiato con passione e trasporto dai due vecchi? Perché lui era rimasto così catturato da un gesto che di per sé non aveva nulla di straordinario? Per quali motivi sentiva che quel dolore era indissolubilmente legato a ciò che aveva visto? Come potevano due vecchi che si baciavano provocargli un dolore così devastante da quasi ucciderlo? Cosa si nascondeva nel gesto dei due anziani innamorati che aveva costretto il suo corpo a reagire così violentemente? Ne era certo, era stato quel bacio la causa della sofferenza che l’aveva piegato in due e quasi ucciso.
Non si sbagliava il signor Jacopus B., in questa narrazione fratta di stravaganti cause ed effetti incatenati fra loro da bizzarri percorsi e tragitti, anche il bacio e il dolore erano legati da un rapporto di causalità, anzi, se ci è consentita una nota ulteriore, diremmo che non era neppure tra le più stravaganti ed insolite che abbiamo sin qui narrato.
Ecco così svelato l’ultimo legame fra causa ed effetto di questo eccentrico rendiconto: dal bacio un dolore e ciò che ne verrà non sarà più una conseguenza causale ma una semplice constatazione. Se volessimo usar parole difficili diremmo che non si metterà in gioco ancora la necessità della causalità, quanto piuttosto la spontanea, subitanea limpidezza della tautologia.
Il signor Jacopus B. non appena fu certo di aver domato completamente il dolore aprì gli occhi, e così la vide.
Nera, brunita, spessa e dura, avvolta tutto intorno a sè e splendente al sole del mattino. L’armatura medievale era finalmente lì, davanti ai suoi occhi e il signor Jacopus B. la contemplò con infinito stupore e sorpresa.

All’inizio pensò di essere impazzito. Il dolore lancinante probabilmente aveva alterato i suoi occhi o peggio ancora ne aveva devastato il cervello e la cosa nera che si vedeva addosso era un’allucinazione, figlia di una qualche malformazione del sistema nervoso.
Richiuse gli occhi. Attese diversi secondi respirando lentamente e cercando di non pensare a nulla, svuotando la mente, certo che quella cosa sarebbe scomparsa non appena riaperte le palpebre. Timoroso socchiuse gli occhi, un piccolo spiraglio che lasciava filtrare solo i colori del mondo e non le forme che restavano vaghe e sfocate. Tuttavia fu sufficiente. Il colore che vide, indistinto in una massa informe, fu il nero lucente che aveva visto un attimo prima.
Allora spalancò gli occhi, rabbiosamente, quasi in segno di sfida. Ma l’obrobio era sempre lì.
La fissò con maggiore attenzione cercando di capire che cosa fosse quella mostruosità che lo avvolgeva e lo imprigionava. Ne osservò le singole parti, soffermandosi sui dettagli, sui singoli particolari. Fece scorrere lo sguardo sui bracciali, gambali, la cotta, i guanti, i calzari, gli strani spuntoni affilati che partivano dalle spalle e che fendevano l’aria per una lunghezza di circa venti o trenta centimetri, come denti famelici di una creatura demoniaca. Fu solo dopo diversi secondi che capì ciò che vestiva, come un abito fatto su misura, non era altro che un’armatura medioevale. Ne aveva viste molte nelle sue peregrinazioni nei vari musei storici della città, ne riconobbe la foggia e la fattura e riuscì persino a identificare il periodo storico in cui datarla. Si ricordò di averne notata una non dissimile al museo di storia delle civiltà che sorgeva nella periferia a sud della città; si trattava di una corazza usata per i duelli nelle giostre, quando si sfidavano prodi e valorosi paladini contro misteriosi e cruenti cavalieri. Era il tempo in cui le fanciulle venivano salvate da orrende creature marine, in cui coraggiosi eroi perdevano il senno alla ricerca di coppe sante e i poeti avevano il dono di creare con le parole composizioni di inusitata bellezza. Era l’epoca che per una strana ragione veniva chiamata l’era oscura.
Il signor Jacopus B. stranamente non si fece prendere dal panico; certo, il nostro lettore potrà facilmente immaginarlo, era terrorizzato e paralizzato dalla sorpresa e dallo stupore. Ma non si lasciò andare a comportamenti folli, non si mise ad urlare, ad imprecare, a correre di qui e di là senza meta, insomma non diede di matto.
Lo abbiamo ripetuto più volte e in queste cronache della vita del signor Jacopus B. emergerà con grande chiarezza, il nostro protagonista è un uomo pacato, tranquillo, meditabondo e riflessivo. E’ solito affrontare ciò che il mondo, la vita e la realtà gli presentano con grande aplomb, quasi che in realtà nulla lo sfiori davvero sino in fondo, come se vi fosse una zona nascosta in lui impossibile da scalfire, da ghermire. Un nocciolo di pura razionalità fredda con cui guardare il mondo intorno e tenerlo lontano.
Il signor Jacopus B. fece leva proprio su questa parte fredda della sua coscienza per evitare che la sua testa prendesse il volo verso il delirio e verso la follia.
Fronteggiò la cosa con grande calma. Cercò di vedere la situazione come un qualunque altro problema e più o meno nello stesso modo in cui affrontava lo studio di una nuova parte difficile da interpretare a teatro. Decise di rimanere in piedi, immobile mentre la sua mente si fermò e, anche se solo figurativamente, si sedette alla scrivania per tentare di sbrogliare il problema.
Dunque, aveva visto due vecchi innamorati baciarsi, subito dopo era stato trafitto da un dolore massacrante e quando era riuscito, con estrema fatica, a riprendersi aveva scoperto di indossare un’armatura medioevale. La prima cosa che si chiese fu, da quanto tempo la indosso? E’ comparsa all’improvviso dal nulla o l’ho sempre vestita e mai me ne sono reso conto?
Il signor Jacopus B. si mise a ragionare. Le ipotesi che gli passavano per la testa erano le più disparate. In fondo, possiamo immaginarlo, non era certo facile dare un senso al fatto di vedersi vestito da un’armatura medioevale. Scartò subito l’ipotesi che fosse apparsa all’improvviso, che gli fosse stata messa addosso nei momenti deliranti della fitta al fianco. Non sapeva darsi una ragione precisa di questa certezza ma era sicuro che quella cosa nera era sempre stata lì, appiccicata alla sua pelle e lui solo ora se ne era accorto. Bene, se era sempre stata lì e non l’aveva mai vista perché se ne era reso conto proprio in quel momento?
Di certo esisteva un legame di un qualunque tipo fra il dolore provato e la scoperta dell’armatura. Ne era convinto.
Istintivamente osservò l’armatura all’altezza del costato sinistro, proprio nel punto da cui era partita la fitta e lì, evidente e manifesto, vide lo squarcio. Un profondo, lacerato taglio lungo diversi centimetri che penetrava a fondo nel metallo lucente dell’armatura. Una lacerazione i cui lembi volgevano verso l’interno come se fosse stata prodotta dalla penetrazione di una qualche affilata lama tagliente. Il signor Jacopus B. ebbe la certezza che il dolore che aveva sentito si fosse originato proprio da quella ferita, come se la sofferenza che lo aveva squassato non fosse propria del suo corpo ma quanto piuttosto un patire della corazza che egli aveva solo percepito indirettamente come suo.
L’armatura era stata ferita da qualcosa, aveva urlato di dolore e così facendo aveva rivelato al signor Jacopus B. la sua presenza, come qualcuno che per un colpo di tosse malandrino rivela il proprio nascondiglio agli inseguitori. L’inganno, quella specie di incantesimo di invisibilità che aveva avvoltola corazza sino ad allora si era disgregato sotto i colpi del dolore e della sofferenza e ora l’oscenità restava lì, visibile, manifesta in tutto il suo orrore.
Era come se da quello squarcio fosse emersa violenta ed impetuosa la verità sino ad allora celata. Un fiume in piena con cui spazzar via le menzogne e gli inganni.
Il ragionamento del signor Jacopus B. proseguì. Che cosa aveva provocato la lacerazione? La risposta a questa domanda era piuttosto semplice ed immediata. Al signor Jacopus B. venne in aiuto la consecuzionalità degli eventi, ossia ciò che era accaduto un attimo prima del soffrire tremendo provocato dal colpo alla corazza. Facile, il bacio. Il lungo appassionato, intenso bacio che la coppia di anziani amanti si era scambiata. Ne era certo, se lo sentiva in ogni fibra del corpo. La relazione di cause ed effetto era talmente palese che solo uno stolto non l’avrebbe colta. Ciò che restava da indagare erano piuttosto le ragioni di quella causalità. Perché quel bacio aveva ferito l’armatura rendendola visibile ai suoi occhi?
Il signor Jacopus B. capì che in quella domanda era nascosto il senso di tutto quanto gli era capitato e che rispondendo ad essa con sincerità avrebbe capito ogni cosa e, probabilmente, risolto il mistero dell’armatura.
Liberò la mente da ogni pensiero, lasciò che la risposta giungesse da sola, proveniente da una parte più profonda, più istintuale del suo essere. Sapeva che non sarebbe stata la razionalità ad aiutarlo a risolvere l’arcano.
Prima di proseguire crediamo sia giusto fermarci anche noi un attimo e dare qualche spiegazione al lettore. Questo momento di riflessione servirà anche per avere la percezione del tempo che il signor Jacopus B. dedicò alla ricezione passiva della risposta.
Non ce ne voglia il lettore se stiamo ancora una volta abusando della sua pazienza; la parola fine di questa narrazione non è lontana e chiediamo un ultimo sforzo a chi ha seguito questo resoconto sin qui.
Potevamo evitare di soffermarci così dettagliatamente sulla riflessione del signor Jacopus B. e giungere, con una sorta di balzo ardito, a dare subito la spiegazione senza mostrare le vie e i percorsi con cui essa emersa nella mente del nostro protagonista. Tuttavia non ci è sembrato corretto. Abbiamo voluto lungo queste pagine mostrare gli stani sentieri in cui la causalità si è legata per giungere ad un fine preciso e non sembra ora opportuno sbrigare la pratica con frettolosità e superficialità. Ciò che il nostro protagonista scoprì in realtà non fu altro che una presa di coscienza di qualcosa che era sempre strato lì, manifesto e chiaro ai suoi occhi. Serve dunque, più che raccontare cosa scoprì, soffermarci sulle ragioni e sulle mosse che gli consentirono di cogliere l’ovvio nascosto dalla cecità quotidiana. Solo in questo modo potrà risultare chiaro a lettore fedele il senso di tutte queste pagine così faticosamente vergate.
Ci conceda il lettore ancora un po’ della sua attenzione.

La risposta, così come aveva supposto il signor Jacopus B. venne da sé. Senza bisogno di forzarla o di cercarla da qualche parte, strappandola ad un luogo in cui riposava beata. Liberamente e autonomamente essa si mosse e giunse alla coscienza del signor Jacopus B.
Un momento prima non c’era, il momento dopo era lì, ovvia, semplice, immediata e lucente nella sua chiarezza.
Il motivo per cui il bacio fra i due vecchi innamorati aveva attratto il nostro protagonista, l’aveva incollato nel fissare, un po’ guardone, lo scambio d’affetto fra lui e lei, la ragione per cui aveva patito il dolore più forte provato in vita sua e che aveva divelto la corazza era semplice, ovvio. Così semplice nel suo essere palese da fargli chiedere come mai non l’avesse colto prima e per quali motivi aveva sempre rifiutato di vedere una cosa tanto lampante.
Il signor Jacopus B. si era emozionato. Si, aveva provato un’emozione nuova, mai sentita prima di allora. Un’emozione a cui faceva fatica a dare un nome ma che se avesse dovuto classificare in un parola conosciuta avrebbe chiamato compassione. Si trattava di una specie di turbamento dell’anima che lo spingeva a sentirsi vicino ai due vecchi innamorati, a vivere come propria la forza della loro tenerezza, del loro sentire, del loro trasporto. Nel momento in cui fissava sbalordito quel gesto d’amore per la prima volta in vita sua aveva sentito un rimescolio delle viscere, un battito mancante del cuore, un nodo nuovo allo stomaco. Mai se ne era avveduto a livello cosciente ma ora gli sembrava banalmente chiaro. Nel guardare il bacio anche lui aveva provato gli stessi sentimenti dei due vecchi amanti. Il signor Jacopus B. aveva sentito per la prima volta in vita sua la forza di quella cosa misteriosa e stravagante che le persone normali chiamano amore. Quel sentimento così forte, così umano, così vivo e vero aveva ferito la corazza che si era costruito negli anni, un’armatura di freddezza, di glaciale indifferenza, di solitaria altezzosità e, come mai in vita sua, aveva sentito il desiderio spasmodico, assoluto, accecante di avere al proprio fianco una persona da amare. Un persona con cui condividere il peso di una vita altrimenti insensata.
Il semplice desiderarlo aveva devastato l’armatura con cui aveva tentato da sempre di isolarsi dal mondo e di bastare a sé stesso. Un tentativo fallimentare e inutile che si era disgregato all’improvviso grazie ad un semplice bacio scambiato con sincerità da due innamorati.
Il signor Jacopus B. aveva così visto l’inganno in cui si era imprigionato, aveva svelato la menzogna con cui era vissuto fino a quel momento, l’illusione vana con cui si era trastullato. Ora non rimaneva altro che gettar via quell’imbroglio e finalmente vivere con sincerità, ammettendo a sé stesso che anche la propria vita poteva avere un senso solo se si rispecchiava negli occhi di una donna da amare.
Per la prima volta nella storia dell’uomo il secondo giorno di novembre, il giorno in si celebrano i defunti senza tuttavia che nessuno mai muoia, perì un uomo. Il vecchio, fasullo, costruito signor Jacopus B. in quel giorno di Ognimorti si spense per sempre. Spirò a causa di un inspiegabile ferita provocata da una sconosciuta lama che lo attraversò, ferendolo a morte. In quella data che sul calendario è segnata come il due novembre accadde un vero e proprio prodigio. Un uomo costruito di metalliche protezioni e finzioni mancò e, immediatamente, ne nacque uno nuovo, diverso. L’uomo che in quelle costruzioni era rimasto imprigionato e bandito dal mondo venne così alla luce.
Come un castello di carte traballante, tutte le certezze dei suoi precedenti anni caddero in una cacofonia fragorosa di menzogne e si persero per sempre. Per il signor Jacopus B. quel momento, quella scoperta era come una nuova nascita, una vera nascita. Era stato partorito ancora nel dolore ma questa volta il pianto era vero, sincero e autentico.
Così venne al mondo il vero signor Jacopus B.

Il resto di questo resoconto è possibile raccontarlo sbrigativamente.
Il signor Jacopus B. non fece altro che togliersi l’armatura pezzo dopo pezzo, finché ciò che rimase non fu egli stesso, il suo corpo, il suo sentire, il suo palpitare e così, nudo e spontaneo, sorridendo se ne andò felice per il mondo.

Fine

Logos
02/11/2006
Questo racconto è stato scritto ascoltando l’album “10.000 days” dei Tool.

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