27 febbraio 2006

Il Foglio Bianco

IL FOGLIO BIANCO

“Cosa vede in quest’immagine?”

La voce dello psicologo era impostata, ferma, come se avesse seguito un corso di dizione e di teatro prima di ottenere l’abilitazione alla professione.

“Ma cosa vuoi che veda in questo sgorbio?”

Fu l’unica cosa che riuscì a pensare. Aveva davanti un foglio con una macchia informe, speculare, di diverse tinte di grigio, colore sparso a caso su una pagina e poi piegato a metà, casualmente, senza senso, senza nessun intento figurativo.

“Che vuoi che ti dica? Che vedo i miei genitori far l’amore? Che vedo un elefante che cammina furioso sul corpo di un leone? Io non ci vedo niente!”

Avrebbe voluto avere il coraggio di dirle quelle parole che riusciva solo a formulare nella mente ma sapeva che era troppo vigliacco per poterlo fare. Temeva l’ospedale a cui l’avrebbero destinato per anni se non avesse collaborato con quella specie di stregone della mente che aveva davanti.

Fissò il medico, ne osservo gli occhiali mollemente poggiati sulla punta del naso, gli occhi chiari, inespressivi, i baffetti curati, le labbra sottili chiuse in una smorfia che non era neppure un sorriso distorto.

Fece finta di osservare un po’ la figura con interesse e poi, con un enorme sforzo di immaginazione, cominciò a raccontare di animali che si inseguivano, di montagne innevate, di spiagge deserte, di bambini felici e giocosi.

Il medico lo osservava senza muoversi, non prendeva neppure appunti, lasciava che fosse il piccolo registratore a fare tutto il lavoro di memoria, avrebbe affidato poi a qualche suo tesista il lavoro di sbobinatura.

Il silenzio della stanza era rotto solo da quella voce timida e incerta che descriveva paesaggi impossibili, visti in una macchia informe, nemmeno il ritmico scorrere del nastro del registratore sembrava disturbare quel momento di raccoglimento e di presunta confessione.

La luce soffusa proveniente dalla abat-jour sulla scrivana del medico ad illuminare il foglio macchiato emanava un alone rossastro che si diffondeva in tutta la stanza, come una sorta di profumo caramelloso che sembrava appiccicarsi alle cose e possederle.

“Lei mi prende in giro.”

Non era una domanda. Aveva sempre sentito dire che gli psichiatri rispondono a domande con domande, che mai fanno affermazioni, lasciando che sia sempre il paziente a dare le risposte che ritiene più giuste. A loro spetta semmai il compito di fare delle domande e di farle nel momento opportuno.

Ma quello non era un quesito.

Alzò gli occhi timoroso e fissò il medico.

“No… che glielo fa pensare?”

“Lei non mi ascolta. Le devo ricordare che questa è la sua ultima possibilità prima di finire nel reparto psichiatria dell’ospedale cittadino?”

Terrore. Domande giuste al momento opportuno. Quella era giusta. E il momento era dei più opportuni.

Non tentò neppure di scusarsi. Aveva sempre visto gli strizzacervelli come depositari di un sapere magico, esoterico, in grado di vedere aldilà della fronte e di cogliere verità e menzogna, di sapere cose che neppure noi stessi sappiamo del nostro essere. Davanti a loro si era sempre sentito un libro aperto anche se aveva cercato di ingannarli, di nascondersi, di non dire quello che, invece, passava nella sua testa.

Fissò quegli occhietti cattivi e inespressivi che lo guardavano con derisione. Rimase un lungo momento in silenzio come se volesse cercare delle parole sepolte nella sua mente, nascoste da chissà quanti strati di difese e di blocchi e, infine, pacatamente disse:

“Io non vedo nulla.”

Sincerità. Se il medico voleva la verità, eccola! Per lui quella macchia davanti agli occhi era solo una forma senza senso, non gli richiamava alla mente nulla, neppure sforzandosi riusciva a vederci qualcosa di concreto. Non capiva perché lo psicologo si incaponiva con quel test ridicolo e assurdo, cosa avrebbe potuto scoprire della sua mente confusa con quei disegni infantili e senza forma? Per lui quegli sgorbi non rappresentavano davvero nulla.

“Nulla?”.

Una risposta così assurda aveva messo in difficoltà il medico. Non si era aspettato un responso così banale, tanto normale da essere vero. Molti pazienti non vedevano nulla al test di Rorschach, erano quei soggetti in cui i blocchi dell’io erano così forti da impedire in ogni modo l’emersione dell’inconscio. Si trattava dei casi più radicali ma, in fondo, anche i più semplici. Era come se fossero una lastra di metallo duro ma senza elasticità, bastava la giusta pressione per spezzarla e allora lì l’inconscio fuoriusciva come una cascata, rivelando fobie, nevrosi, psicosi, perversioni, un magma sepolto che eruttava senza limiti.

“Si, dottore. Vedo solo una macchia informe.”

Lo psicologo rimase in silenzio per un attimo. Probabilmente stava valutando quella risposta.

Improvvisamente prese il foglio su cui era impressa la macchia e lo capovolse. Il retro del foglio era semplicemente bianco.

“Che cosa vede ora?”

Questa volta fu lui a rimanere spiazzato. Lo stava prendendo in giro? Si divertiva a ridicolizzarlo?

“Ma...Ma…il foglio è bianco…” Balbettò.

“Lo vedo anche io che il foglio è bianco. Lo guardi. Mi dica se ci vede qualcosa e, in caso, cosa ci vede”.

Stupito continuò a fissare lo psicologo.

“Su, lo guardi.”

Per la prima volta la voce del dottore aveva assunto un’intonazione umana, quasi paterna.

Abbassò lo sguardo e si mise stupidamente a fissare il foglio bianco.

I secondi passavano, scanditi dal silenzio fedelmente riprodotto nel registratore che impassibile continua a far scorrere il nastro.

Gli occhi erano sempre fissi su quella superficie bianca. Quel rettangolo immacolato che stava lì, fermo, poggiato sul tavolo.

Sentiva lo sguardo indagatore dello psicologo fisso su di sé, ne sentiva l’attesa che emergeva.

Continuò a fissare. Pian piano dimenticò la stanza, la scrivania, persino il medico che gli stava di fronte. Rimase solo lui e il foglio bianco. Gli occhi erano lì, concentrati, a guardare il bianco. Non stava cercando delle immagini che non c’erano. Stava solamente osservando quel colore.

Le palpebre sbarrate, le pupille fisse oltre la stessa vista, oltre lo stesso vedere semplicemente, fissate su una superficie monocroma. Finché qualcosa accadde.

Come un fiore che dischiude i petali il bianco si aprì. Si espanse, crebbe veloce e vorace dell’ambiente che lo circondava, salì vibrante dalla scrivania al resto della sala. I suoi occhi erano sempre lì, bloccati, nel centro del foglio, in un particolar punto di genesi del tutto che stava sorgendo, che stava prendendo vita.

Fu come una lenta marea che, ad onde sempre più ampie, estende il suo dominio in profondità nella terra ferma, onda e risacca, avanzata e ritorno, movimento lento, progressivo, continuo, incessante, ma ad ogni passo un pezzo di realtà era conquistata dal potere del bianco. Non fu esplosione improvvisa che dipinse tutto ma una fiacca, apatica e ripetuta deriva del bianco nel reale.

Non vi era panico nei suoi occhi, solo assorta contemplazione del potere che si faceva strada nel mondo. Lo osservava passivo e inerme come di fronte al manifestarsi di una creatura superiore, che in quel momento nasceva. Prendeva vita dai suoi occhi e seguendo il suo sguardo giungeva ad essere.

L’esser stesso del mondo, le sue forme, i suoi colori, le sue manifestazioni oggettive sembravano pian piano arrendersi alla deriva di quel potere, come se un’armata conquistatrice avesse invaso il reale e lo stesso sgretolando, convertendolo alle sue leggi e alle sue religioni.

Non vi era opposizione, non vi era freno, vi era solo umiliante, passiva rassegnazione di una dominazione, di una perdita di controllo, di una progressiva distruzione di senso.

La monocromia dominava sulla molteplicità dell’essere.

Alla fine tutto fu bianco. Il suo sguardo immerso in quella totalità trionfante.

E fu così che lo vide.

Di quei pochi minuti che seguirono non ricordò nulla. Seppe solo che tutta la vicenda fu ricostruita con accurata precisione dal nastro del registratore che aveva immortalato la sua voce e quei minuti di apparente folle delirio.

Nemmeno quando fu posto sulla sedia elettrica vollero dirgli come mai quando riprese coscienza di essere nella stanza la prima cosa che vide furono gli occhi spalancati dello psicologo e la sua bocca aperta un ghigno innaturale e la bava.. la bava.. la bava che colava dal mento del medico.

Fu l’ispettore di polizia incaricato delle indagini sul decesso dello psicologo il primo ad ascoltare la registrazione di quei minuti. Ciò che sentì fu il folle vaneggiare di un povero malato di mente, frasi confuse, logiche assurde, colori irreali descritti con minuziosa attenzione, teoremi di geometrie astratte, racconti di mitologie inumane e poi il finale, quello strano finale che continuamente gli tornava ala mente, come una strana onda che avanza e ritorna. Spinta e risacca. Non capì mai come tutto quello potesse c’entrare con la morte dello psicologo, con il suo infarto improvviso da shock. Sostenne fino alla fine che era una follia condannare quel povero disgraziato alla sedia elettrica per una morte che era certamente naturale, non vi era stato nessun omicidio, il medico era morto perché gli era scoppiato il cuore a causa di una paura enorme o di uno spavento incontrollato ma ordini provenienti da molto in alto furono molto chiari: quel uomo doveva morire. Senza clamore. Senza perdita di tempo. Senza inutili scartoffie. In alto qualcuno voleva che di quel disgraziato non rimanesse neppure il ricordo.

Passarono solo sei settimane dalla morte del medico all’esecuzione. Il processo fu silenzioso, veloce, efficiente. Furono ascoltati tre testimoni. Due per l’accusa, uno per la difesa. La giuria popolare si riunì in camera segreta per ventiquattro ore e la sentenza fu scontata. La difesa non presentò appello. I giornali riportarono la notizia dell’esecuzione in ultima pagina, in un trafiletto quasi invisibile. Le associazioni contro la pena capitale non protestarono. La comunità internazionale non si lamentò.

Così come era vissuto quel uomo morì. Nel silenzio.

L’ispettore capì subito che dietro quel uomo vi era qualcosa che doveva restare nascosto e allora non insistette nelle sue lamentele, nella sua difesa e non disse nulla quando una mattina scoprì che la sua scrivania era stata saccheggiata nella notte e fra tutti i documenti spariti compariva anche la cartella con la trascrizione della registrazione con le farneticazioni di quel disgraziato. Sporse regolare denuncia e tutto fu messo a tacere.

Nella sua mente però, ripetutamente, tornavano le parole di quel uomo che ormai riposava tre metri sotto terra nel cimitero civile della città.

A volte era lui a richiamarle alla mente, altre volte erano loro che si facevano strada tra percorsi bizzarri della memoria e allora sentiva quella voce insicura, timida, quasi sorpresa, raccontare che cosa vi era nascosto nel bianco di quel foglio.

“…e così le infinite linee concentriche trovano il senso in un fulcro asimmetrico.

Poi vedo… vedo una vasta distesa, è di fronte a me, sconfinata, non ne percepisco la fine, allora mi volto, è anche dietro di me, senza termine, fin dove lo sguardo riesce a giungere vedo questa distesa, come se ne fossi circondato, ne sono in mezzo e mi avvolge in ogni direzione, si confonde con la linea dell’orizzonte, si perde in un eterno confine in cui cielo e terra si fondono in un tutt’uno. Abbasso lo sguardo, solo ora mi accorgo che questa distesa è fatta di sabbia, una specie di infinito deserto, mi chino e raccolgo un po’ di granelli nella mano, li lascio scivolare tra le dita, la sabbia è calda, scaldata da un sole che non si vede nel cielo semplicemente azzurro. Una vasta pianura di piccoli grani di terra rossastra, un colore d’ocra, come se miliardi di mattoni fossero stati sbriciolati e distesi in un piano infinito.

Sono in un luogo che è stato chiamato il deserto eterno. Non so perché sono certo che questo sia il suo nome. Lo sento. Come se fosse una conoscenza dentro di me, che ho sempre avuto ma di cui non ho mai saputo nulla. Avanzo nel deserto eterno. Non fa caldo, non sto sudando. Muovo un passo. La sabba è morbida sotto le mie suole. Sento quello strano rumore di granelli che cozzano e stridono l’un l’altro ad ogni mio passo, come se si stessero lamentando del mio calpestarli. Li ignoro e avanzo. Non ho una destinazione. Non sto andando a est, piuttosto che a sud, non vi sono punti cardinal nella distesa illimitata che si apre ai miei occhi. Semplicemente cammino. Un piede dopo l’altro, segno quel immacolato deserto delle mie esitanti tracce, delle mie orme, come se stessi scrivendo il libro della mia vita e lo facessi della strada che ho percorso. Non vi è tempo se non vi è spazio. Non ho punti di riferimento per contare momenti che scorrono se non i segni timidi che lascio dietro di me, mi volto e vedo questa striscia continua di impronte muovere serpeggiando da un punto ormai lontano, quasi confuso nella distanza, sino al punto in cui ora poggio i miei piedi. Mezz’ora? Un giorno? Sempre? Da quanto sto camminando? Non mi rispondo neppure e continuo. La prospettiva da cui guardo la distesa intorno a me non cambiata, è come se non stessi mai abbandonando il centro di questa pianura eterna e in realtà mi stessi muovendo circolarmente in un momento immobile.

Poi scorgo qualcosa. Si confonde da lontano con l’immensità che ho negli occhi. Tuttavia qualcosa vi è che rompe la perfezione di un piano liscio e levigato. Una protuberanza, un’escrescenza, una sorta di bubbone che spunta da lontano, confuso tra in quella linea che fonde l’azzurro del cielo al rosso del deserto. Avanzo più deciso. Ho una meta. Ho un obiettivo da raggiungere. Passo dopo passo la tumefazione del reale che mi circonda sembra prendere una forma costituita. Sembra definirsi all’orizzonte. Un tumulo di terra compatta. Una sfera sprofondata nella sabbia che lascia emergere solo la parte più esterna, una sorta di cupola distesa sul piano del deserto. Un gibbone sulla perfezione del deserto eterno. Mi accorgo che il ritmo del mio passo è aumentato, sto quasi correndo, sento il respiro farsi corto, qualche goccia di sudore cadere sulla fronte, la costruzione si definisce man mano che mi avvicino. Mi accorgo ora che non è perfettamente liscia, ma sulla sua superficie spuntano altri bozzoli semicircolari, come una sorta di figliata parassitaria, non vi è ordine apparente, vi è quella casualità che è propria della vita che si impone, della vita che trova tutte le strade per continuare sé stessa, nel singolo individuo e nelle generazioni successive, vi è quella prepotenza, quella brama della vita che nel suo infinto egoismo e stimolo semplicemente accade.

Continuo ad avanzare, sempre più veloce, paradossalmente non sento la stanchezza anche se mi sembra di correre da ore, mi volto fugacemente e mi accorgo di quanta strada ho percorso, le tracce delle mie suole, ora più distanti l’una all’altra per via della corsa, seguono una precisa linea retta che, come una freccia, giunge dritta alla tumescenza.

Vi sono di fronte. La prima cosa che noto è la sagoma nera che si apre di fronte a me, un ingresso che è un invito, un richiamo, un’attrazione fisica verso il nero che si affaccia.

Mi controllo, faccio correre lo sguardo su quel edificio. So bene che sono le mie categorie mentali a definire quella cosa un edificio, una costruzione, un artefatto più o meno umano ma il mio corpo, il mio inconscio, quella parte di me non influenzata dalla normativa sociale in cui sono intriso, urla, urla e mi dice altro. Quella escrescenza è viva. Non è un artefatto ma è un essere vivente fatto di terra, di sabbia, di qualunque cosa ma vive e prospera nel deserto eterno. Vive sono le sue tumescenze piccole che emergono bizzose dalla superficie, senza ordine, accavallandosi l’una sull’altra nella lotta per la vita che è la lotta della vita.

Il suo richiamo silenzioso è fortissimo. Non resisto. Varco la soglia.

Il nero mi avvolge. E’ un abbraccio affettuoso, materno. Un senso di protezione che mi circonda, mi fascia, come una lanosa coperta calda, mi sento al sicuro, non temo i fantasmi che solitamente albergano ne buio, anzi l’oscurità mi nasconde agli occhi delle creature demoniache che vivono nella luce della quotidianità.

Mi sento come trascinato. Condotto. Avanzo sicuro sebbene non veda nulla, né la strada che i miei piedi calpestano, né le pareti che mi circondano, lascio per un secondo vagare la mente nella fantasia e sogno di vene pulsanti accavallate le una sulle altre, gorgoglii e rigurgiti di sostanza vitali e linfatiche, di sangue appiccicoso e di bile nerastra, mi sembra persino di percepire quei rumori viscosi e viscidi che caratterizzano le macchine viventi. Mi distraggo per un po’ ascoltando e sognando la vita che continua e che si preserva all’interno della tumefazione che mi ha accolto e che mi protegge.

Poi una luce. Appare all’improvviso confusa da lontano. Bianca, fredda, stride col calore avvolgente del nero che mi culla, un atomo di gelo nel calore di un grembo materno. Ho camminato molto. Molto più di quello che avrei dovuto viste le dimensioni ridotte del tumulo all’esterno. Sembrava non più grande di qualche metro, invece, ho continuato a percorrere quella strada invisibile per molto tempo. No ho avuto l’impressione né di scendere, né di girare intorno ma, in fondo, di questo aspetto poco mi importa. Seguo la luce. Non è sufficiente per rischiare intorno a me e tutto rimane allora il semplice parto della mia fantasia sovraeccitata. Il punto luminoso che distinguo da lontano è semplicemente il richiamo finale, è come se mi stesse urlando: “Qui vi è la fine del tuo cammino.”

Gli ultimi passi, la luce è di fronte a me. Lì. E’ debole, soffusa, il suo alone di raggi e onde serve a rischiarare solamente un oggetto.

Un leggio. Poggiato sopra un libro chiuso.

Lo osservo nella scarsa luce che lo circonda. Un libro normale. Cartonato, elegante senza essere sfarzoso. Nero, piuttosto lucido. Sulla copertina una scritta. I caratteri argentati, maiuscoli, grandi, chiari, quasi fluorescenti nella luminosità fioca della tumescenza. Il titolo del libro. Di fronte a me. Assurdamente qui dove ogni cosa cozza con il comune senso di realtà, di normalità, è questo libro, così normale, così comune, così quotidiano, ad essere veramente irragionevole, irrazionale e fuori posto. Lo prendo fra le mani. Lo alzo di fronte ai miei occhi e non posso trattenermi dal leggere a voce alta le parole del titolo, so che sono per me. Ne ho le la certezza assoluta. Modulo a voce sulle indicazioni foniche di ogni lettera e il risultato è questo insieme di suoni coerente: “Il Vostro Futuro”.

Non mi soffermo molto a pensare al senso di quelle parole, mi sembra così immediato, così chiaro, così evidente. Non è rivolto solo a me in quanto singolo essere vivente, è rivolto a me come rappresentante di un’intera razza, gli esseri umani. E’ il nostro futuro che vi scorgerò all’interno, è ciò che ci aspetta, è il domani che ci attente. E’ il futuro di una razza. Stranamente non sono divorato dalla curiosità di sapere cosa ci riserva la fortuna, il destino, il caso, le nostre azioni. Non mi interessa sapere cosa sarà di noi domani, sono maggiormente incuriosito da questo oggetto in sé, da questa cosa così comune, così abituale che posta in un contesto così assurdamente diverso si carica dello stessa irrazionalità, trasformandosi esso stesso in un oggetto dai poteri miracolosi, inusuali come quello di predire il futuro. Mi accorgo che è come se fosse il contesto a definire il grado di realicità degli oggetti che ne fanno parte. Un libro, così comune, posto in un contesto irreale, diviene esso stesso irreale, acquisendo caratteri e specificità non quotidiane. Per un attimo mi chiedo se anche per me vale lo stesso ragionamento. Io, un comune essere umano, in questo stato di cose irreale acquisisco peculiarità non comuni? E quali sono? Mi immagino come una sorta di essere super potente, perfetto e immortale che destina la sua vita infinita al vagare nel deserto rosso che mi circonda, scoprendone segreti e luoghi magici.

Scrollo la testa. Torno al presente. Apro il libro. Il futuro della razza umana è lì di fronte a me. Chiaro, manifesto, semplice, come può esserlo la sola parola che vi leggo nell’unica pagina di cui è composto il libro. E mi accorgo come tutto sia vano, inutile e sprecato.

Ancora ad alta voce modulo la parole e come un mantra la ripeto, la ripeto, la ripeto, migliaia di volte, catturato al suo potere e al suo volere.

La mia voce fuoriesce come una cascata gorgogliante a cui siano state tolte improvvisamente le barriere di contenimento, esplode nell’etere nero e affettuoso che mi circonda, portando il dolore della verità nel mondo intorno a me.

So che ferirò, so che tradirò, so che deluderò ma la parola va pronunciata:

“Morte”.

E la ripeto. Infinite volte. Senza sosta.

“MorteMorteMorteMorte …”.

Logos

26/02/2006

17 febbraio 2006

L'invasione aliena

L’INVASIONE ALIENA

La mattina del suo quarantanovesimo compleanno il signor Jacopus Balevius scoprì che il mondo era stato invaso dagli alieni.

Ne ebbe una prima fugace impressione quando alle sette del mattino, come ogni santa mattina che Dio mandava in terra, la sveglia cominciò a gracchiare, sintonizzandosi automaticamente su Radio Cucina.

Il signor Jacopus amava svegliarsi con la voce suadente della signorina che elencava gli ingredienti di qualche complessa e arcana prelibatezza, era davvero pacificante sentire il dolce timbro femminile scandire con soave leggerezza: “250 grammi di burro, 400 grammi di farina, un cucchiaio di zucchero” e così via.

Il giorno assumeva un colore diverso, per un attimo gli sembrava quasi di sentire la fragranza delle torte appena sfornate, il profumo degli arrosti appena cotti e le note muschiate di qualche vino pregiato. Se poi era di luna buona, chiudendo gli occhi, si immaginava che questa (bellissima) signorina l’attendesse in cucina, pronta a servirlo e riverirlo, come una moglie di altri tempi.

Proprio la mattina del suo compleanno però la signorina che ormai lo svegliava da anni era stata sostituita e al posto di una ricetta prelibata e fantasiosa, declamata come la più romantica delle poesie, strillava dagli altoparlanti della sua radiosveglia una voce burbera e concitata. Il tono militare e prepotente era così marcato che anche via radio si riusciva ad immaginare un qualche generale impettito e altezzoso, abituato a dare ordini e ad essere obbedito immediatamente.

Il signor Jacopus, ebbe bisogno di qualche secondo per capire cosa stesse succedendo, all’inizio pensò a qualche vicino infuriato che urlava improperi e ingiurie, poi quando pian piano la coscienza emerse da fumi del sonno, capì che si trattava della sua piccola radiosveglia e, strizzando gli occhi per concentrarsi meglio, si mise all’ascolto.

In realtà la prima cosa a cu pose attenzione fu l’assenza della sua bella signorina, si sentì un po’ tradito, ma come? Proprio il giorno del suo compleanno doveva farsi sostituire da questo tale urlante? Rassegnato si mise all’ascolto di ciò che la radio, tramite la voce sempre più congestionata dell’uomo, stava diffondendo nella stanza. All’inizio capì solo qualche parola qua e là: “rimanere in casa”, “creature provenienti dallo spazio”, “pericolo per la vita umana” “niente panico”… Se questi pochi sprazzi sarebbero bastati ad una persona qualunque per quantomeno allarmarsi, il signor Jacopus, che era noto per la sua flemma intoccabile, rimase tranquillo e cercò d trasformare quelle poche parole urlate in un discorso compiuto:

La Terra è stata invasa da creature provenienti dallo spazio con chiari intenti bellicosi, si pregano tutti i cittadini di rimanere all’interno delle proprie case; l’esercito in accordo con il governo sta già mettendo in campo tutte le risposte necessarie atte a fermare l’invasione. Vi raccomandiamo niente panico. In caso di attacco alla vostra abitazione vi preghiamo di contattare il Ministero dell’Interno al numero di centralino 06/5286 per segnalare l’indirizzo dell’attacco e l’eventuale numero di feriti morti. Grazie della vostra collaborazione”.

Il signor Jacopus socchiuse ancora di più gli occhi, era quasi possibile vedere i suoi neuroni che si scambiavano informazioni cozzando l’un l’altro, cercando di completare un pensiero complesso e una reazione a quanto appena udito ed ecco che all’improvviso il signor Jacopus sorrise.

Era arrivato alla conclusione di intricate elucubrazioni e la risposta che la sua mente aveva prodotto era geniale:

“Ma allora oggi non si deve andare in ufficio?”

E così si rimise sotto le coperte e si riaddormentò in un batter d’occhio, lasciando la radio accesa sulla voce monotona e ripetitiva dell’annuncio dell’invasione che, come una nenia, lo cullò dolcemente e lo accompagnò tra le braccia di Morfeo.

Dormi per tutta la mattinata di un sonno profondo e beato e solo quando mezzogiorno era già passato si svegliò, riposato e rilassato.

Come spesso capita, nei primi attimi del risveglio la mente dell’uomo è come liberata dai suoi ricordi, dal suo vissuto e in fondo dalla sua stessa vita, come se nascesse ogni giorno come una sorta di lavagna intonsa, poi, quasi che un condotto si aprisse, arrivava la cascata dei ricordi e con essi anche tutta la sofferenza o la gioia del vivere.

IL signor Jacopus all’inizio, guardando la radiosveglia, si spaventò dell’ora: mezzogiorno?! E’ tardissimo! Devo correre in ufficio! Poi ricordò. E si rilassò.

Pigro e ciondolante come può essere un uomo a cui hanno regalato una giornata di ferie proprio il giorno del proprio compleanno, si preparò la sua solita ricca colazione, si fece una bella doccia e, vestitosi con il suo abito migliore, uscì di casa.

Non che dovesse andare da qualche parte in particolare: il frigorifero era ben pieno, il giornale non lo acquistava da anni, amici non ne ricordava dai tempi del liceo, voleva semplicemente fare due passi.

Sceso in strada notò subito che qualcosa non andava.

Di solito a quell’ora vi era un caos vociante di gente che andava e veniva, correva e parlava, in fondo a pochi metri dal centro della città di solito a mezzogiorno c’è un bel via vai. Oggi la strada era deserta e ovunque lui voltasse lo sguardo vedeva solo negozi vuoti, macchine abbandonate per strada, fogli di giornale svolazzanti per aria, insomma il deserto.

Anche in questo caso gli occhi del signor Jacopus si strinsero, segno inequivocabile che la sua mente agile e scattante era all’opera. Fu così che si accorse che la notizia che la radio aveva diffuso la mattina non era rivolta solo a lui e al suo andare o meno in ufficio, ma che era una comunicazione globale, destinata a tutti e che aveva portato delle conseguenze su ogni singolo uomo e ogni singola donna della città: tutti erano rimasti a casa dall’ufficio.

Si sentì un po’ uno stupido per essersi alzatosi così presto mentre ancora tutti dormivano e se li immaginò ancora pacifici sotto le coperte a riposare.

In fondo non era una cosa così grave, poteva ancora dedicarsi alla sua passeggiata e, anzi, non ci sarebbe stato nessuno a disturbare il suo vagabondare senza meta.

Di buona lena, col suo passo deciso e sicuro, il signor Jacopus si mise in marcia.

Era un novembre non particolarmente freddo ma con una persistente umidità nell’aria che formava dei piccoli banchi d nebbia non più grandi d pochi metri ma fitti e spessi. Ecco che allora a volte i monumenti che il signor Jacopus andava via via cercando erano come scomparsi, nascosti alla vista da questa strana nebbia biancastra. Il signor Jacopus non aveva molti hobby, potremmo dire che non ne aveva alcuno, se non quello di girare per la città e di gustarsi le vie, i palazzi, i monumenti, le bellezze architettoniche che ormai, dopo tanti anni, conosceva così bene da poterseli prefigurare prima ancora di vederli. Prima di girare l’angolo, sapendo che avrebbe trovato il monumento funebre ai caduti dell’ultima guerra, se lo costruiva nella mente: il cavallo sanguinante, l’uomo ferito, la bandiera floscia sul masso inciso e così via. Era come un gioco, un quiz sui particolari sempre più piccoli che il signor Jacopus si divertiva a ricordare e a indovinare prima di vederli effettivamente.

Se per uno solo può essere difficile ma in fondo fattibile per tutti i singoli monumenti della città questo passatempo richiedeva un discreto impegno e una buona memoria.

Fu deluso, perciò, il signor Jacopus quando, man mano che procedeva per le vie cittadine si accorse che le sue amate fontane, le sue ammirate statue e tutte le opere memorabili che aveva imparato a conoscere così bene, erano coperte da questa nebbiolina bianca, infida che, guarda il caso, si andava a porre proprio lì, dove sorgeva o il monumento ai caduti, o quello alla vittoria, o la piccola chiesa dei santi liberati. Sembrava quasi che volesse farsi beffe di quell’unico spettatore vagante per le strade oscurandogli proprio gli edifici e le opere che lui cercava.

Dopo aver camminato per un po’, il signor Jacopus cominciò a spazientirsi. Diamine! Era il suo compleanno e ne capitavano di ogni colore! Prima la sua bella signorina scomparsa dalla radio, poi quel vocione antipatico e burbero, ancora poi la gente ancora a letto e ora, questa maledetta nebbia, proprio lì! Dico io! Con tutto lo spazio che c’e’ in giro!

Come avevamo già sottolineato però il signor Jacopus era un uomo molto pacato e molto riflessivo che mai si abbandonava a comportamenti frettolosi ed eccessivi e quindi, più di tanto, non si indispose e continuò a camminare.

Proseguì lungo il solito tratto che inconsapevolmente seguiva quasi tutti i giorni che lo portava dal ponte sul fiume, lungo il parco del Duomo, sino alla porta dei cavalli e da lì, passando per il parlamento, giungeva alla piccola piazza che ospitava l’opera che lui più di tutte amava.

La Fontana della Piramide. Si trattava di una semplice fontana a forma di piramide a pianta quadrata, piuttosto tozza e ormai un po’ degradata ma che per il signor Jacopus era meglio di ogni altra creazione umana, era la meraviglia fra le meraviglie dell’uomo; tutto al suo confronto sbiadiva e si trasformava in una semplice opera di architettura. Solo alla Fontana della Piramide il signor Jacopus riconosceva a pieno titolo il valore di Arte Bella.

Come accennato, non era che una piramide di basalto nero alla cui cima era stata posta una piccola sfera che sprizzava un rivolo d’acqua che scendeva come un manto a coprire tutta la piramide.

Il signor Jacopus era capace di rimanere per ore a fissare quella costruzione, ammirato, ammaliato, inebetito.

Quel giorno però accadde qualcosa di diverso.

Già da lontano si accorse di qualcosa di insolito ma prima di dare giudizi affrettati preferì proseguire per cercare di vedere meglio ciò che da distante gli sembrava folle. Strinse gli occhi, questa volta solo per cercare di combattere la sua miopia che si era sempre rifiutato di correggere con gli occhiali. Fu sol però quando si trovi a pochi metri dalla sua fontana preferita che le informazioni vaghe che gli arrivavano dagli occhi presero forma e la sua mente riuscì a computare ciò che aveva davanti.

Un essere strano abbigliato con un ancora più insolito abito stava indirizzando un tubo verso la sua fontana e questa stava cominciando a circondarsi di quella insolita nebbia che il signor Jacopus aveva visto sin lì e che aveva attribuito ai capricci di un tempo bizzoso.

Questa volta, sebbene non capisse di preciso né chi fosse quell’essere strano dalle quattro braccia, né cosa stesse esattamente facendo al suo monumento tanto amato, il pacato signor Jacopus fu pervaso, forse per la prima volta vita sua, da una rabbia sorda e incontrollabile e così, furibondo e impettito come un gallo da combattimento, si scagliò verso quel singolare individuo.

“Hei! Lei” Ma che cosa sta facendo alla fontana? Si fermi subito! Ce l’ha l’autorizzazione del comune ad usare quel coso?” e così dicendo indico con un gesto vago il tubo da cui usciva una specie di raggi azzurrognolo che colpiva la fontana e che creava quella nebbiolina coprente.

La creatura, che solo il lettore più attento avrà identificato come uno degli alieni che proprio quella mattina avevano invaso il pianeta, si voltò di soprassalto.

E’ piuttosto singolare che un essere alieno alto oltre tre metri, munito di quattro braccia possenti, denti affilati come cesoie, coperto da una corazza naturale impenetrabile e vestito di un armatura di un metallo così resistente da poter essere modellato solo a temperature solari si spaventò e indietreggiò all’assalto arrembante d un omuncolo alto poco più che un metro e settanta che con la sua andatura spedita ciondolava malfermo sulle gambe esili.

“Allora mi sente? La smetta IMMEDIATAMENTE di fare… di fare… beh… quello che sta facendo alla fontana”.

Il traduttore universale che l’alieno portava nel casco dell’armatura ci mise un po’ a tradurre quella frase, era orma abituato a tradurre sol parole di paura, di richiesta di pietà e preghiere pronunciate in punto di morte e non era pronto a traslare nella lingua ringhiante della creatura quelle parole minacciose.

Quando però finalmente il traduttore fece il lavoro per cui era stato progettato e costruito, l’alieno, il cui nome era Krjill che significava più meno: colui il quale nelle pianure innevate del pianeta senza sole uccide senza paura i leoni volanti del vulcano perenne, fissò l’omuncolo incuriosito e perplesso.

Non dovevano essere stati tutti rinchiusi nei campi di internamento quelle creature molli e deboli che infestavano questo ridicolo pianeta? Questo qui da che parte era saltato fuori?

Krjill, che di solito preferiva l’uso delle armi a quello delle parole, per la prima volta da quanto la sua astronave aveva toccato il suolo della Terra si rivolse al terricolo e, utilizzando il traduttore universale, gracidò al microfono della sua tuta spaziale corazzata.

“Terrestre la tua presenza in questo luogo mi disgusta e infastidisce, non mi spiego come le operazioni di rastrellamento si siano dimenticate di te. Vorrà dire che sarà compito di Krjill stesso porre fine alla tua esistenza.”

Il signor Jacopus, che in vita sua di fesserie ne aveva sentite un sacco (lavorava nell’ufficio di un famoso politico come addetto alla campagna elettorale), non collegò immediatamente le informazioni che la radio gli aveva dato a mattina su quella accidentale invasione aliena con il mostruoso essere che aveva davanti e continuò a pensare che si trattasse di qualche addetto comunale folle, magari uno di quei poveretti non tanto apposto di testa che vengono assunti dal comune per svolgere qualche mansione facendoli sentire utili.

“Senti tu… Smettila con queste stupidaggini! Forse non sai che quella fontana un’opera d’arte e va trattata con il massimo rispetto e riguardo! Che cosa è quel diavolo di aggeggio che hai fra le mani? Piantala di sparare quel raggio contro la piramide non vorrei mica che si rovinasse!”

Chiunque fra i lettori avesse conosciuto nel corso degli anni il signor Jacopus si sarebbe certamente stupito di questa reazione così veemente, credo che nessuno lo abbia mai visto così infuriato tanto da alzare la voce e urlare.

L’alieno di nome Krjill invece era ben noto per essere una testa calda e fra la sua gente (che già era nota nell’universo per essere la più aggressiva e impaziente) era considerato uno tra i più litigiosi e irruenti ma questa vola, stranamente, decise di non decapitare seduta stante quell’esserino e di dargli ascolto, persino di rispondergli.

“Cosa sto facendo omuncolo terrestre? Sto cancellando la vostra storia! Sto rendendo questo insulso pianeta libero del ricordo di voi, patetiche creature deboli e molli. Vuoi sapere come lo faccio? Semplicemente cancellando dalla faccia del pianeta tutte le vostre “creazioni artistiche” sparse qua e là”.

Sebbene il traduttore fosse stato programmato bene non era impostato per trasmettere le inflessioni più aguzzi e pungenti della voce dell’alieno, tuttavia questa volta le parole “creazioni artistiche” suonarono proprio come virgolettate, segno di tutto il disprezzo di Krjill per l’arte dell’uomo.

Il signor Jacopus rimase per un momento fermo e mobile, non ci è dato di sapere se stava semplicemente pensando o se era rimasto basito da questa sincera rivelazione della creatura, certamente nella sua mente ora era ben chiaro che quella mostruosità davanti ai suoi occhi non era un impiegato comunale.

Il signor Jacopus alzagli occhi, fisso il casco dell’alieno come se stesse guardando dritto verso le pupille blu della creatura e con voce ferma pronunciò le sue ultime parole:

“Credi veramente che cancellando dalla faccia della Terra tutte le effigi materiali dell’uomo tu possa cancellarne il ricordo? Credi davvero che distruggendo o oscurando tutti i manufatti, tutte le creazioni artistiche (e qui la voce si fece un po’ più dura) che l’essere umano a prodotto dalla notte dei tempi sino ad oggi voi, creature aliene e stupide, possiate annullare l’esistenza stessa dell’uomo, il dominio dell’uomo su questo pianeta? Se lo credi, orrendo essere, allora avrai sì conquistato questo pianeta sconfiggendo la razza umana ma sarai rimasto una creatura stolta e senza conoscenza. Avrai dimostrato forse di essere più forte ma avrai reso chiaro a me e chiunque altro popoli questo assurdo universo che siete una razza primitiva, senza cultura, senza sapere. Che siete semplicemente ignoranti!

Sorrido quasi nel sentire le tue parole, l’assoluta ottusità che le permea: cancellare i prodotti dell’uomo per cancellare l’uomo! Che ridicolezza!

Vedi, mio caro sciocco alieno, probabilmente io non vedrò l’alba del giorno che verrà e questo mio compleanno sarà l’ultimo della mia vita ma permettimi di spiegarti una cosa che forse tu neppure riuscirai a comprendere.

L’uomo ha vissuto su questo pianeta, con questa Terra da migliaia di anni, si è evoluto da forme di esistenza primitive e da forme di coscienza inferiori sino ad arrivare ad essere una creatura ancora imperfetta e debole ma ormai legata indissolubilmente a questa solida roccia che ci sostiene.

Nel corso dei secoli creato infinite sono state le meraviglie che la mano e la mente dell’uomo hanno realizzato, splenditi tesori prodotti dal genio d quella anomalia bizzarria dell’evoluzione che è l’autocoscienza, dipinti, sculture, tragedie e costruzioni geniali come questa fontana che stai distruggendo e lo abbiamo fatto grazie ad un vivido, imprevedibile, assurdo impeto che si sprigiona improvviso dalla parte più profonda del nostro essere e che non riusciamo a trattenere. Una forza che ci costringe a sporcare le mani nei colori, nell’affaticare le dita nel modellare la cera, nel sederci al tavolo e versare mari di inchiostro nero.

Quale sensazione di potere, di forza ci dava il poter creare, il poter convogliare quella pulsione che sta in fondo a noi e donarla ad un nostra opera, quale sensazione di realizzazione, di completezza, come se solo in quel momento l’uomo potesse trovare il senso di una esistenza inspiegabile e assurda, atta di ripetuti atti fisiologici incontrollabili e irrefrenabili.

Pensi forse che la vita sia la somma delle migliaia di defecate e di battiti involontari che siamo costretti a subire? Come vi potrebbe essere libertà nel ciclo quotidiano, perenne del fame-cibarsi-assimilare-cacare? La libertà dell’uomo sta nell’incanalare la sua pulsione creativa e nel produrre, nel realizzare. E’ solo in quel momento che l’essere umano sceglie di essere padre, solo in quel momento l’uomo sperimenta a pieno il senso della paternità. L’ideazione, la produzione, la realizzazione sono il vero concepimento che l’uomo sperimenta. Neppure i figli che sono così amati possono rappresentare la pura, totale, assoluta libertà dell’uomo, essi sono frutto di una pulsione fisiologica e ne sono semplicemente un meraviglioso omaggio, ma solo nella consapevole,volontaria attività artistica l’uomo fuoriesce dalla sua fisiologicità, da suo essere corpo e, trascende, sé stesso e giunge ad essere libero!

Vedi, immondo essere, è grazie a questa capacità di andare oltre nell’atto creativo che tu non potresti, neppure dopo mille anni, cancellare da questo pianeta la memoria, lo spirito, il ricordo dell’uomo.

La Terra è intrisa di questo impulso creativo trascendente, perché è con la materia della Terra che questo impulso si è incanalato e ha trovato la sua realizzazione. La Terra è la materia informe che è stata via via modellata dallo spirito creativo dell’uomo e ne è rimasta pervasa, contaminata, intrisa sino a farlo diventare un suo stesso attributo.

Non può esistere quest’atto creativo dell’uomo se non vi è una sostanza informe da modellare e ricreare al nostro volere libero. Non vi è precedenza fra spirito e materia nell’atto creativo, essi si equiparano e si realizzano, esistono!, solo nel momento in cui si fondono.

L’uomo è libero solo nel momento in cui mette concretamente le mani nell’argilla molle e la modella. L’atto della produzione, del vero concepimento esiste solo in questa fatticità creativa.

Ma ecco che allora, così come lo spirito è pervaso dalla materia e dalla matrice e non ne può fare a meno, la materia viene pervasa dallo spirito che ad essa si lega senza potersi più divincolare.

Stai cominciando a capire, assurdo essere?

Tu potrai distruggere tutti i manufatti creati dalla volontà libera e creatrice dell’uomo cancellando i fabbricati ma ormai è troppo tardi. La Terra stessa, la sua povere, le sue sabbie le sue rocce, il suo legno, ogni cosa è ormai intrisa da quello spirito trascendente che è dell’uomo e solo dell’uomo. Questo spirito ha marchiato per la prima volta questo pianeta e rimarrà quel marchio, come una sorta di tatuaggio indelebile, per sempre. Verranno altre razze, altri popoli a colonizzare e a vivere in serenità su questo mio pianeta ma la terra, la sua stessa essenza è ormai intrisa, è ormai composta come se fosse un suo proprio attributo dallo spirito della razza umana.

Questo pianeta è e resterà per sempre il pianeta dell’uomo.”

Con queste parole concluse la sua vita il signor Jacopus all’età di quarantanove anni, ucciso da un raggio laser non meglio identificato sparato da una creatura aliena di nome Krjill che lo fissava più basito che infuriato, non sicuro di aver compreso le parole farneticanti di quel piccolo omuncolo dalle due braccia.

L’invasione della Terra proseguì, tutti i monumenti e le opere d’arte furono distrutti e tutti gli esseri umani uccisi o deportati come schiavi su altri pianeti.

Tuttavia né la razza di Krjill, né nessuna altra razza aliena che nei millenni dopo si stabilì sulla Terra riuscì mai a sentire veramente proprio quel pianeta.

Logos

27/01/2006

Catabasi

Catabasi
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Guardando il cielo
Cerco una stella fioca
Che illumina una strada
Scomparsa.

Attraverso antiche foreste
Di alloro incoronato
Vago
Ma in esse non trovo conforto.

Sempre più lontano
Sul fiume mefitico
Caronte mi conduce
Ignaro del mio rifiuto.

Lontano è l’approdo,
velato da nebbie sulfuree
oscuro ai miei occhi
stanchi.

Sale il freddo
Dentro le ossa
Piano, malefico
Verso il cuore.

Eccomi al luogo
In cui dimora
L’eterna condanna
Di colui che porta la luce.

E scopro triste
Con le dita tese
Quanto è gelido
il tocco della colpa.

16 febbraio 2006

Il libro dei miei ricordi

Il libro dei miei ricordi

Il libro dei miei ricordi
È scritto del tuo nome.

Scorrono veloci le pagine
E il tuo volto appare in ogni dove.

Quanti luoghi lontani, profumi speziati
Son teatro del tuo incedere bella.

La mia stessa vita perduta
È argilla dalle tue mani voluta.

E ora senza te, questo castello
Crolla sotto le onde nella tempesta.

Vengo trascinato
Dentro il vortice del dolore.

In esso mi perdo e
Cosi, abbandono la vita.

15 febbraio 2006

San Valentino 2006

San Valentino 2006

Oggi è un giorno lungo
E gli alberi sono in silenzio
Perché conoscono la verità della tristezza.

Oggi è un giorno vero
E i colori sono nuovi e opachi
Agli occhi tristi sul mondo.

Oggi è un giorno di lutto
E piano il funebre canto accompagna
il feretro nero della speranza.

Oggi è un giorno nuovo
E domani l’alba sorgerà pigra
Sulla bianca brina dei miei ricordi.

06 febbraio 2006

Il costrutto di identità temporalmente locata

Questa breve riflessione vuole implementare una delle caratteristiche peculiari della filosofia connettivista, uno degli aspetti che ne costituiscono il nucleo fondativo da cui si dipana tutto il pensiero successivo.
Gli assunti primari che stanno alla base della visione del mondo connettivista sono molti e sono ben raccolti ed espressi nelle parole del manifesto e proprio da questa prima vetrina sul mondo vogliamo partire.
In particolare lo vogliamo fare dal primo punto del manifesto:

“Noi vogliamo cantare la resurrezione dell'anima consumata nella tecnologia. La notte, il sogno, la visione e la connessione. E tutto ciò che sublima le nostre anime ad un livello superiore di conoscenza.”

Il connettivismo vuole cantare l’uomo nuovo, l’evoluzione da uno stadio presente, imperfetto, verso uno stadio evolutivo superiore, un uomo che sia consapevole di sé stesso, dei propri limiti, della propria finitudine e da lì muova verso una visione del mondo razionale e pienamente partecipata.
Dalle pagine di Next emerge ad ogni riga, in ogni racconto, in ogni rubrica questo anelito verso un’altrità superiore, verso uno stadio dell’evoluzione umana successiva.
Non si tratta di cantare un Ubermensch infinitamente potente, un eroe nuovo che nasce dalle ceneri di una precedente versione di sé stesso, si tratta, piuttosto, di portare questo uomo presente verso una consapevolezza, una conoscenza del mondo e di sé superiore, per poter arrivare a vivere una vita che sia finalmente percepita come propria e non frutto di illusioni e malafede.

Se finora dalle pagine di Next questa riflessione si è sviluppata soprattutto attraverso l’analisi di quegli strumenti tecnologici, frutto dell’ingegno dell’uomo, che consentono di andare oltre i limiti fisiologici intrinseci della natura umana intesa come corporeità e che permettono di “potenziare” i nostri sensi, la nostra comunicabilità, la nostra padronanza e controllo del mondo, in queste pagine vogliamo dar vita ad un nuovo modo di concepire e di sviluppare questa ricerca del gradino superiore di evoluzione.
Vogliamo immaginare che l’uomo raggiunga una percezione e una consapevolezza del sé finalmente libera da quelle illusioni che l’hanno sino a qui caratterizzato.
Non è nostra intenzione svilire la ricerca del miglioramento e del passaggio all’oltre attraverso l’uso di strumenti, mezzi e macchinari. Anzi, siamo profondamente convinti che in fondo solo grazie a quelli sarà possibile, come è sempre stato sinora, che l’umanità evolva.
Diceva Aristotele che l’umanità avrebbe abbandonato (l’orrida) consuetudine della schiavitù solo quando gli aratri avrebbe arato da soli e così, banalizzando, è stato.
Non solo, gli strumenti tecnologici moderni ci garantiscono la possibilità di superare quei confini spaziali a cui siamo costretti e ci aprono le porte ad una comunicazione globale che ci consente di entrare in contatto con uomini dalle diverse culture, facendo nascere una nuova umanità, globale che non sarà solo il prodotto di un livellamento verso schemi e culture dominanti, ma che, noi crediamo, sarà un melting polt di tutte le culture che partecipano a questa umanità globalizzata e connessa.
Senza dilungarci su questo punto, né senza voler correre troppo alla ricerca di strane e avveniristiche invenzioni postmoderne, immaginiamo solo come ha cambiato la nostra vita e il nostro modo di intessere delle relazioni sociali il breve messaggio di testo (SMS) dei telefoni cellulari, tanto che sinceramente credo che nessuno riesca ad immaginare e a ricordare come era possibile prima avere relazioni di alcun tipo senza il loro utilizzo.
Tuttavia per chi scrive appare ancora insufficiente a compiere quel passo evolutivo l’utilizzo, più o meno scientemente percepito, di strumenti tecnologici di alcun tipo. Essi devono essere il mezzo attraverso cui si realizza l’evoluzione dell’uomo, non tanto il fine dell’evoluzione stessa. In questi giorni e in questi anni di corse verso un’innovazione sempre più repentina e frenetica, l’impressione è che invece essi costituiscano il fine stesso dell’affannarsi dell’uomo e della sua ricerca.

Vogliamo in queste brevi pagine compiere un primo, sparuto, passo verso un nuovo modo di concepire l’evoluzione dell’uomo e il suo salto verso uno stadio superiore. L’oggetto di queste righe sarà quello di immaginare un essere umano che, attraverso una riflessione attenta, su suo essere-essere umano, giunga a disvelare quelle che sono le menzogne che lo hanno sin qui caratterizzato e costretto e ponga le basi per una concezione più autentica del proprio sé.
Osserveremo come tale nuova visione non sia ancora di fondo possibile, poiché di fatto l’uomo ha appena intrapreso questo cammino (o forse non lo ha neppure addirittura cominciato) ma ciò che ora sarà possibile sarà il cominciare ad abbattere, o quantomeno a riconoscere come tali, quelle barriere che l’uomo si è via via costruito e in cui si è rinchiuso, illudendosi in questo modo di poter dominare oltre che la natura fisica anche la sua propria natura di essere umano.
Ciò a cui miriamo è una concezione disillusa di sé che tenga conto di quelle che sono le imperfezioni stesse del proprio essere e non metta in campo delle strategie di mascheramento e di rifiuto che mirino a far percepire la propria natura di esseri umani come perfetta e infallibile.
E’ necessario arrivare a quella chiara consapevolezza che, per la parte fisica, è stata ormai raggiunta ma che per la parte più profonda, l’innerstate, la parte della essere-essere umani è ancora ammantata da un alone di onnipotenza e perfettibilità.
Siamo assolutamente consapevoli che i nostri sensi sono fallaci e fallibili, ma al tempo stesso abbiamo la presunzione di immaginare e di crederci delle entità in grado di comprendere pienamente quella realtà che ci sta intorno ma che non riusciamo neppure a esperire con chiarezza. Abbiamo una percezione dl nostro essere in sé assoluta e completamente decontestualizzata da ogni situazione storica o da ogni limite ontologico.
Queste pagine allora costituiscono la prima parte di una riflessione molto ampia volta a svelare quelli che potremmo chiamare gli “idola” che offuscano e nascondono la percezione e la consapevolezza autentica del proprio essere-essere umani.
La scelta del termina “idola” non è casuale ed è volutamente mutuata dalla riflessione di un filosofo londinese vissuto a cavallo tra il ‘500 e il ‘600: Francis Bacon. Senza entrare in una esplicazione propedeutica della filosofia baconiana, possiamo semplicemente dire che per Bacone (padre della nuova scienza della natura) per poter arrivare a costruire un nuovo sapere oggettivo ed efficace era, innanzitutto, necessario compiere un meccanismo di abbattimento delle “favole” degli antichi, che costituivano una zavorra annichilente la potenzialità conoscitiva dell’uomo .
Per Bacone, aldilà del contesto particolare in cui ha operato il filosofo inglese, queste riflessioni costituiscono l’elemento prioritario da cui muovere per fondare un nuovo modo di conoscere la realtà.
Alla base di queste analisi vi è una considerazione di fondo, che troveremo poi in altri filosofi e che vogliamo con presunzione fare nostra, ossia la convinzione che per poter fondare qualunque nuova filosofia o analisi vi debba essere alla base un’operazione di “pulizia”, di superamento dei vecchi meccanismi, delle vecchie credenze e delle antiche certezze. Un’operazione che possiamo definire come una sorta di pars destruens che deve precedere ogni ulteriore e successiva pars costruens. I poche e semplici parole, Bacone vuole spazzar via dal campo tutte gli antichi monoliti che infestavano lo spazio filosofico seicentesco per poter avere così la via libera per una nuova operazione di costruzione e di innovamento.
Scopo di queste pagine è, con le debite e forti differenze, operare lo stesso meccanismo.
Noi vogliamo cominciare da questa pagine a mettere in dubbio le antiche certezze che caratterizzano l’essere-essere umano, scardinando pian piano le illusioni e le mistificazioni oggi dominanti e attendendo così che il colosso dai piedi d’argilla della visione del sé stesso dell’uomo di oggi si sbricioli da solo sotto i nostri lievi e delicati colpi.
Non abbiamo la presunzione, che aveva Bacone, di poter compiere questa operazione da soli e in una volta sola; siamo certi che il meccanismo distruttivo dovrà essere necessariamente lento, come una sorta di ruscello che sgretola un monte, e che dovrà concretizzarsi in una pluralità di interventi differenti, non tutti operabili da noi, tuttavia vogliamo qui cominciare questa operazione, vogliamo fare quel primo passo da cui parte il viaggio più lungo.

Finalmente possiamo entrare nel vivo della nostra riflessione, dopo aver dovuto inquadrare (il lettore non ce ne vorrà) i motivi e le analisi di fondo che ci hanno spinto a redarre queste parole.
Il primo fra gli idola dell’essere-essere umano illusoriamente fondato nell’attuale livello evolutivo che vogliamo qui cominciare a porre in discussione è il costrutto di identità temporalmente locata.
In altre parole la convinzione dell’uomo di avere un’identità stabilizzata e unica nell’intero arco del ciclo temporale della vita, quella illusione che ci fa credere di essere il medesimo individuo in qualunque punto di quel percorso nel tempo che è la nostra vita.
Come spesso accade le parole dei saggisti e dei filosofi vengono espresse con maggiore chiarezza e intuizione da chi ha il potere con le parole di creare immagini e di fare narrativa. Anche in questo caso per spiegare questo inganno della mente e per farlo con la chiarezza che il lettore pretende ricorreremo alle parole di un narratore, in particolare ad uno dei racconti apparsi sulla meritoria antologia edita da http://www.othersider.com/ dal titolo: “13 passi nella zona oscura” curata da Giuliano Pistoleri e Perla Pugi, scaricabile all’indirizzo web: http://www.latelanera.com/ebook/ebook.asp?id=163.
Si tratta del racconto di Piero Babudro: “La città sacra” che a pagina 42 così recita:

“Solo ora capisco l’ipocrisia che soggiace alla struttura del pensiero: la sciocca pretesa di ricondurre, o meglio ridurre, il cammino di un uomo all’immagine di una nave che solca anni disposti su un’immaginaria linea retta, cercando nel suo incedere un approdo sicuro in mezzo mare burrascoso.”

Babudro ben riesce, utilizzando una felice metafora, a creare l’immagine di come si esplichi l’illusione dell’uomo di possedere una identità temporalmente locata, ossia come una sorta di nave che percorre un mare impetuoso, lasciando una scia di vissuti che costituiscono la struttura stessa, fondativa e definente, della percezione di identità.
Utilizzando un’altra metafora, possamo dire che l’uomo crede di essere una sorta di enorme tunnel personale e specifico della suo cammino che attraversa il tempo, al riparo dal perdersi del passato e dall’ignoto del futuro.
L’uomo dunque percepisce sé stesso come una soggettività vivente in un tempo dislocato su un piano temporale duraturo che comprende il passato, il presente e persino il futuro. La vita dell’uomo non è percepita come composta dai singoli atomi temporali del presente ma piuttosto come un segmento unitario e unico in cui si muove l’uomo.
Questo consente al soggetto di continuare a credere di essere la medesima persona che visse nel passato e di essere il medesimo individuo che vivrà nel futuro non ancora accaduto.
L’operazione di fusione degli attimi presenti in un percorso lineare garantisce all’uomo di credere che la propria vita possa considerarsi come un cammino dotato di senso, fatto da una serie continua di cause ed effetti temporalmente locati.
Vi è così la possibilità di fondare la certezza che l’uomo viva in dimensione srotolata nel tempo, come una sorta di filo d’Arianna che garantisca continuità e coerenza.
In tal modo si ha la convinzione certa di una dimensione del tempo continua, in cui la specificità del presente si annulla in una dimensione e in una versione creata in cui passato, presente e futuro si sono fusi in un unico percorso.
Ciò che permette di costruire questo inganno e di continuare a credervi con assoluta certezza è quello che potremmo chiamare una sorta di belief humiano, ossia una credenza sustruita dalla mente dell’uomo grazie ad alcuni fattori specifici. Tale belief è la memoria, che ci consente di creare quella illusione di tornare a muoverci nel passato e di camminare (quanto meno nella parte dietro a noi) nel tempo.
Credo che qui sia necessario fermarsi un attimo e meglio spiegare: innanzitutto è necessario chiarire perché il costrutto di identità temporalmente locato è di fatto una illusione, un idolo di una vecchia percezione di sé da abbattere. Per farlo dobbiamo ricorrere ancora una volta all’uso di una metafora già vista: quella del tunnel. L’uomo costruisce la sua vita nel tempo come una sorta di tunnel personale che percorre e che crea nel disvelare i momenti, attimo per attimo. Una sorta di unitario segmento che gli consente di credere di fondare la costruzione (illusoria) di una medesima identità nel tempo. Tuttavia, se vi fosse davvero questa identità, se vi fosse davvero questo tunnel nel tempo, all’uomo dovrebbe essere data la possibilità e la facoltà di muoversi liberamente lungo questo segmento temporale. Di poter occupare un punto a scelta, decidere con assoluta e piena libertà di spostarsi nel tunnel (che secondo questa illusione gli è specificatamente proprio) e di localizzarsi temporalmente in momenti differenti.
Non credo vi sia bisogno di sottolineare con molte parole che ciò non è possibile e che è completamente aldilà delle nostra facoltà, l’uomo è condannato (dalla sua natura, dalle leggi dell’universo, da una divinità bizzosa e credule) al presente. E’ questa condanna dolorosa che l’uomo cerca di dimenticare mettendo in campo una serie di meccanismi di autoalienazione e di autoillusione, nella folle pretesa che la vita possa estendersi aldilà del singolo momento del hic et nunc.
Un’analisi razionale, logica, della realtà dei fatti (ed è questo il nostro modo di cercare di vedere il mondo) ci mostra con chiarezza come il tempo per l’uomo è solo apparentemente diviso in tre parti: passato, presente e futuro. Infatti, il futuro non esiste neppure, ha come attributo unico quello del non-essere (Parmenide ci ha mostrato come questa strada non sia percorribile), il passato non esiste più, è semplicemente chiuso in una dimensione superata a cui non si può tornare, anch’esso è caduto in una sorta di non-essere-più che di fatto lo pone in una dimensione a noi non accessibile e il presente, il singolo infinitesimo attimo del qui ed ora ha, al contrario, l’attributo pieno (anche se per brevissimo tempo) dell’essere ed esistendo è il momento in cui noi stessi pure siamo.
Forse qualche parola in più lo merita la concezione del passato perché qui si lega il belief della memoria. Non possiamo che essere d’accordo con chi sosterrà che il passato esiste in noi nel presente e nel futuro nelle conseguenze degli atti e delle vicende che abbiamo vissuto e che restano in noi, influenzandoci e condizionandoci. Sarebbe davvero stolto non crederlo. Tuttavia questa reale influenza è possibile solo grazie alla memoria, è la capacità di serbare dentro di noi (iscritti nei nostri neuroni) il ricordo di ciò che è successo nel passato a permetterci di preservare le vestigia di una nostra storia personale. Solo la memoria dunque ci salva da un oblio di infinite nuove nascite in ogni momento del presente, ma questo non significa che possiamo così fondare l’idea che vi sia un costrutto d’identità reale temporalmente locata. E non lo possiamo fare per molti motivi: in primis perché la memoria non è una trascrizione oggettiva del passato, non è un resoconto obiettivo di cio’ che ci è successo ma è sempre una interpretazione personale di vicende passata alla luce del momento (ossia questo presente) in cui facciamo la valutazione e l’interpretazione. Vi sono dei fatti del passato a cui avete attribuito un senso all’età di vent’anni ma all’età di 40 ne attribuirete un senso opposto.
Proseguendo nella descrizione dell’illusorietà della memoria, possiamo dire che essa crea la falsissima e consolatoria allucinazione di potersi muovere nel tempo passato, quante volte l’uomo si è trovato a fantasticare sulla possibilità di essere in un attimo del suo passato e di rivivere un momento felice, oppure di rivivere ma facendo altre scelte un momento doloroso? Questa è una vera e propria allucinazione costruita dall’illusione che crea la memoria.
Questa falsa credenza di potersi muovere nel passato porta ad un meccanismo ancora più assurdo che si radica con la facoltà dell’immaginazione, ovvero la pretesa di potersi muovere anche nel futuro. Fantasticare, vedersi già proiettati in un futuro che non esiste e che è creato a partire dalle semplici basi dell’ora e che non ha il minimo valore di predizione e di anticipazione ma solo un valore di speranza più o meno frustrata.
Abbiamo così chiarito come la memoria sia quello strumento fondamentale attraverso cui l’uomo costruisca l’illusione della identità temporalmente locata e come questo strumento estenda il suo potere, mischiandosi con l’immaginazione, ad inglobare in tale identità anche il futuro.

Vorremmo ora, nella parte conclusiva di questa riflessione, trarre le consentite conseguenze ad una concezione del vivere libera da questa illusione.
Facciamo ciò descrivendo lo stato delle cose e fermandoci lì. Vedremo che ad oggi, prima che quel passo dell’evoluzione che il connettivismo va predicando sia compiuto, non possiamo fare una descrizione qualitativa del vivere nuovo senza illusioni, non ne abbiamo il potere, non ne abbiamo ancora le capacità.
Permettiamoci di descrive la realtà dell’uomo liberata dall’illusione di uno fra i molti idola che caratterizzano l’essere-essere umano. Ci troviamo di fronte ad un soggetto che vive condannato in un’unica dimensione, costituita da infiniti, irrecuperabili e perduti attimi di un presente che si configura come un semplice ed immediato hic et nunc. Siamo condannati al presente e da questa condanna non possiamo mai liberarci, spetta solo a noi accettarci per quello che siamo, per quello che la natura, il caso, dio ha voluto che fossimo. Liberi da ogni illusoria pretesa di poter essere altro potremo finalmente accettarci e vivere tenendo conto dei nostri limiti e delle nostre prerogative, giungendo così ad una consapevolezza di noi stessi reale e fondata. Una consapevolezza vera.
La nostra riflessione si deve qui fermare però. Non abbiamo gli strumenti essenziali per poter, anche solo immaginare, come potrebbe essere la nostra nuova vita senza un’identità temporalmente locata.
Possiamo porci delle domande ma non possiamo neppur minimamente darci le risposte.
Possiamo chiederci se nella vita pratica di ogni giorno cambierà qualcosa nel nostro modo di comportarci, se consapevoli che ogni attimo è il solo momento in cui de facto viviamo, cercheremo di farlo con maggiore intensità, con maggiore cognizione, con maggiore senso di responsabilità. Noi lo speriamo, e in fondo un po’ lo crediamo, certi che l’attimo che stiamo vivendo non potrà tornare, che noi ad esso non potremmo far ritorno per scegliere altre vie (neppure nell’illusione allucinatoria della memoria) siamo convinti che pondereremo con molta più attenzione le scelte e i percorsi che faremo e che intraprenderemo.
Se così fosse, questo non sarebbe la prova più lampante, più forte che effettivamente l’uomo si è evoluto ad uno stadio di coscienza superiore e che questo gli ha consentito di migliorare, di evolvere anche sul piano del comportamento pratico?

Chiudiamo queste pagine con la pacata convinzione di aver dato vita ad un cammino condiviso che porterà a sgretolare le illusioni dell’uomo e far nascere quello che sarà l’uomo nuovo.


Logos
05/02/2006

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