22 aprile 2009

Excipit

Excipit
Il pianoro era in silenzio. L’erba rada immobile, un mare di verde placido in attesa di un onda, che pareva non arrivare. In alto le foglie sottili e taglienti di alberi possenti se ne stavano mute appese ai rami. Rami di verdi lame. I pallidi raggi del sole in alto filtravano deboli e timidi fra le fronde disegnando sul terreno erboso ghirigori apparentemente causali. Il tempo era fermo e ogni cosa giaceva nel momento. Assuefatta.
In mezzo alla piccola distesa sorgeva il tempio. Rade rovine a ricordare una forma che si era persa nel correre dei cicli. Migliaia, miliardi di cicli. Forse sino all’origine stessa del tempo.
Il tempio era circolare, minuto. Intorno spiccavano piccole e fragili colonne istoriate in intagli raffinati, densi di figure vagamente geometriche. Prospettive confuse assurdamente logiche. Sulla parete esterna correvano dipinti sbiaditi, vaghi ricordi di affreschi multiformi e colorati. Linee improvvise a fondersi e confondersi, come a voler tratteggiare un destino incerto, confuso. Sconosciuto.
Tre gradini consumati dai dimenticati nomi di perduti passi, tracce di maree di veneranti pellegrini incise nella roccia scalfita. Valico precipitoso ai margini dell’entrata al tempio. Un rettangolo di nero che si apriva verso l’interno del tempio. Invisibile, buio fosse denso, solido. Popolato.
Nessuna luce, nessun suono. Neppure l’eco lontana di un canto parco ormai dismesso. Solo silenzio e solitudine.
Nel pianoro era deserto e il tempio spiccava indifferente nel mezzo della foresta eterna. Alberi e alberi ad avvolgerlo. A stringerlo protettivi. Come una madre la foresta si avvolgeva intorno ai disfatti ruderi del tempio. Ghermendoli possessiva.
Un abbraccio. Un enorme abbraccio verde\marrone stretto intorno ad un segreto.
Un minuscolo segreto che sarebbe rimasto tale. Un segreto che era rimasto tale.
Contro ogni volontà. Contro ogni casualità.
Di lontano si udì un grido, un gracchiare flaccido e perverso. Un rapace nero si alzò in volo e planò sul ramo possente di un albero vicino piegandolo sotto il proprio peso. L’uccello si guardò intorno. Sbattè le ali restando immobile. Altezzoso. Gracchiò ancora. Un suono malizioso. Penetrante. Borioso.
Il tempio era lontano e il grido non lo raggiunse. Restò il silenzio. E la vaga memoria di uomini e donne si perse. Come i loro nomi.
Uomini e donne.
Ovunque fossero ora.
Diversi.

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Epilogo III

Epilogo III
Jabash aprì gli occhi e di fronte a sé vide un’immensa distesa di nulla. Un foglio liscio. Infinito oltre ogni orizzonte. Una superficie immensa che rifletteva i bagliori di un pallido sole nel cielo. Si rese conto di essere accasciato a terra. Faticosamente si levò in piedi e, schermandosi gli occhi con un gesto, si guardò intorno. Nulla. Solo la splendente piana disadorna che pareva non terminare mai. Una sottile lamina argentata, liscia, levigata. Come un liquido denso. Viscoso. Senza increspature.
Gli ricordava il metallo. Fuso. Un placido deserto argentato senza nessun granello di sabbia.
Fissò a terra lì dove i suoi piedi poggiavano e contemplò per un attimo la perfetta levigatura del terreno. Non si era sbagliato. Era metallo. Puro, perfetto, silente metallo. Si vide riflesso nella superficie specchiata e riconobbe il proprio viso. Stanco e affaticato. Si ricordò di sé. Lui era Jabash. Lo sciacallo dell’Imperatore. Si chinò e toccò il suolo. Era freddo. Innaturalmente perfetto.
Si chiese dove fosse. Ricordava vagamente gli attimi prima. L’inseguimento del monaco. La rada pianura erbosa. Il tempio. E la voce che lo chiamava. E poi… poi aveva la vaga sensazione che qualcosa di più fosse accaduto. Qualcosa di importante. Qualcosa che stava dimenticando. Il tempio. Lo aveva toccato. Ne aveva visto la luce densa brillare dalla minuscola entrata. Luce e musica ad avvolgerlo. A portarlo via. Verso altri luoghi. Erano reali? Erano frutto della sua mente sovraeccitata? Respirò a fondo. Cercò di controllare il battito del cuore sfruttando al massimo le conoscenze apprese nei pianeti periferici dell’Impero. Lui che era il condannato alla carne e alla biologia aveva lentamente imparato a controllare il proprio corpo. Aveva appreso come imporgli disciplina. Controllarsi, dominarsi. Lui era Jabash. Lo Sterminatore. Si chiese ancora in quale luogo fosse capitato. Fece un passo. Non c’era una direzione da seguire. Intorno a lui solo metallo. Splendente, spietato, liscio metallo. Un mare di argento guizzante di bagliori.
Era solo. Ne era certo. Non sentiva nell’aria nessun odore, nessuna silenzioso respiro. Solo il proprio battito. Accelerato. Spaventato.
Fece un passo ancora e improvvisamente la superficie di metallo parve inclinarsi. Flettersi. Docilmente. Era come se il suo peso stesse deformando il suolo, scavando un solco, un largo pozzo in cui il suo corpo cominciava a sprofondare. Lentamente ma sempre più a fondo.
Tentò di risalire le pareti oblique, si mise a correre, tentò di arrampicarsi ma ogni volta che si spostava il pozzo pareva seguirlo. Quasi precederlo. La superficie argentata era sottile e si deformava ad ogni passo di Jabash. Si fletteva verso il basso.
Jabash tentò di farsi leggero. Respirò a fondo, lungamente, lasciò che la tensione dei muscoli defluisse nelle profonde espirazioni. Ma nulla pareva accadere e Jabash continuava ad affondare.
Guardò le pareti intorno a sé e vide che il canalone in cui era immerso si stava facendo profondo, ben oltre le sue possibilità di risalita. Sentì un’ondata di panico schizzargli nelle vene accompagnata dall’adrenalina. Urlò. Era debole. Biologia flaccida. Lentamente si stava rendendo conto di non potersi appendere a nulla, la superficie metallica dell’incavo era liscia, priva di appigli.
Guardò in alto, l’imbuto in cui affondava si faceva sempre più profondo. Osservò il cielo. Il sole in alto era lontanissimo. E pallido. La luce sfocata si moltiplicava sulle pareti ripide del pozzo. Luce esplosa nella luce.
Jabash sentì la follia. Tentò disperatamente di aggrapparsi. Inutilmente. Si agitò. Prese a dimenarsi senza controllo. Urlava rabbioso. Ruotò su sé stesso violentemente e le migliaia di suoi riflessi sulla parete liscia di metallo lo imitarono. Una danza sincronizzata ma completamente caotica. Infinite immagini di Jabash a dimenarsi guardandosi intorno. Echi di una comune follia.
Jabash si fermò. Un rivo di bava gli solcava il mento.
Le pareti del vallone in cui era affondato erano alte. Uno scolo perfettamente smussato. Non vi era alcuna speranza di risalire. Di sopravvivere. Jabash pensò alla morte. Era la prima volta che vi pensava come ad una possibilità concreta. Prima la morte era solo l’esecuzione del dominio e del volere dell’Imperatore. Null’altro. La morte era distante. Uno degli strumenti di dominio sapientemente mossi dalle sue mani. Il veicolo della completa sottomissione. Ora la morte era lì, di fronte a lui. Nascosta nel metallo splendente che lo stava stritolando.
Jabash pensò al proprio corpo, inutile, vecchio e come sempre lo maledì e pregò di poter trasformarsi in metallo. Lo stesso, lucente, freddo, metallo che ora lo stava uccidendo. Jabash desiderò di evolvere e, nel gelido argento, abbandonare la sua flaccida umanità, diventare un oltre. Svestirsi di sé e della propria carnale imperfezione per farsi entità di metallo. Finale postumanità del suo essere creatura vivente. Imprecò la carne e con essa il caso che l’aveva condannato alla più violenta menomazione. Il gene deforme causa dell’incompatibilità con il metallo. L’impossibilità di evolvere. Di andare oltre se stesso.
Jabash sapeva di essere incarcerato alle sue origini di uomo. Di animale. Di essere di carne. Prigione di ossa e pelle. Digrignò i denti con rabbia sino a che non sentì dolore e assaporò il sapore ferroso del sangue sulla lingua. Ne inghiottì qualche goccia dal sapore metallico. Era la sua unica consolazione. La sua eucaristica di metallo.
Si pulì poi con il palmo della mano il rivo di sangue che ancora gli scendeva sul mento e guardò fra le dita la macchia rossastra. Pensò a sé come ad una sacca di liquidi, molle e debole. In attesa della putrescenza e della morte.
A stento trattenne lacrime di rabbia e frustrazione.
Tornò a guardarsi intorno e si rese conto le immagini del proprio riflesso sulla parete metallica del canalone si erano avvicinate. Erano a pochi passi da lui. Un esercito immenso di sé stessi. Una folla lo accerchiava, comprimendolo sempre più in sé stesso. Infiniti se stesso che lo schiacciavano dentro di sé. In fondo al pozzo che si era aperto e che l’aveva inghiottito.
Distese le braccia e toccò la patina di metallo che lentamente continuava a sprofondare sotto il suo peso di essere umano. Giù, sempre più a fondo, in uno spazio che si faceva via via più stretto, più angusto.
Jabash provò una crescente sensazione di claustrofobia. Le pareti argentate erano ormai così vicine che poteva vedere l’alone del proprio respiro appannarne la superficie lisca e pulita del metallo. Le migliaia di altri sé stessi riflessi incombevano e lo fissavano con i suoi stessi occhi terrorizzati e spaventati. Jabash tentò di urlare. Di nuovo. Ma non ci riuscì. Gli mancava l’aria. Era fatto di carne. Aveva bisogno di ossigeno. Di respirare. Di aria. Ma cosa stava accadendo? Dov’era? Perché il suolo gli sprofondava sotto i piedi come un molle tessuto elastico? Cosa sarebbe accaduto?
Chiuse gli occhi ma li riaprì subito. Non sarebbe morto con gli occhi sbarrati dalla paura. Lui era Jabash, il Cane dell’Imperatore. Sarebbe morto guardando la morte. E la morte stava per arrivare. E aveva i suoi occhi. Chiari. Azzurri. Spaventati. Agonizzanti di paura.
Ormai non vi era più spazio. Jabash era schiacciato dentro uno stretto corridoio allungato, inabissato dentro la patina sottile che copriva ogni cosa. Giù, a fondo dentro il metallo.
Cuore segreto di carne in un mondo di metallo.
Poi, all’improvviso, sentì il fragore. Un rumore sordo. Denso. Ripetuto. Uno scroscio violento che cresceva. Si ingrossava e diventava un frastuono. Assordante. Jabash a fatica riuscì a muovere la testa fra le pareti che ormai lo stritolavano e a guardare in alto. Il sole era poco più che un punto giallo nel cielo ocra. Il rombo aumentava. Sempre più. Jabash tentò di liberare le mani dalla prigione in cui era sprofondato per coprirsi le orecchie e attutire il suono ma non ci riuscì. Era immobilizzato. Come una preda. Un corpo menomato destinato all’estinzione.
Metallo fuso. La cascata di metallo arrivò e lo seppellì. Completamente. Immerso dentro un mare di metallo incandescente e liquido. Metallo liquido che scivolava sulla levigata superficie argentata di un metallo diverso. Questo solido, freddo. Quello incandescente, liquefatto.
Da qualunque luogo fosse arrivato l’argento disciolto era scivolato sul pianoro lucente e spinto dall’impietosa forza di gravità era precipitato nell’increspatura che il peso di Jabash aveva creato. Giù dentro il pozzo. Sino in fondo. Sino a Jabash.
Non fece in tempo a gridare. Vide l’apertura della cavità in alto oscurarsi e il cielo svanire inghiottito da un fiume denso di colore argento. Non riuscì neppure a chiedersi che cosa fosse.
Il liquido incandescente gli piombò addosso. Violentemente.
Fu un attimo.
Un lento attimo di dolore.
Jabash morì.
La carne, le ossa, la pelle, il sangue, i denti, le unghie, i capelli, i bulbi e ogni altra sua parte biologica morirono. E di Jabash non restò nulla.
Jabash si fuse nel metallo. Con il metallo.
Dentro il metallo.
Jabash svanì.
E finalmente evolse.
Evolse nel metallo.
La coscienza di Jabash prese di nuovo vita. Una vita rinnovata dopo la morte della carne. Jabash aprì i suoi non occhi metallici e nuotò nell’argento liquido e incandescente in cui era sprofondato. Nuotò verso l’alto. Risalì le pareti dello stretto utero metallico. Risalì sino ad un nuovo parto. Sino a nascere una seconda volta. Sporco del viscoso liquame metallico di una fredda placenta Jabash partorì se stesso. Metallo dal metallo. Metallo nel metallo.
Jabash si guardò le mani. Le vide fredde. Non le riconobbe. Lamine di spettrale luminosità.
In piedi sulla distesa infinita e levigata Jabash rimase immobile. Come se nulla fosse accaduto. Come se nessuna resurrezione metallica fosse stata celebrata in quel luogo.
Si mosse. E per la prima volta percepì la sua spietata postumanità. Il suono pesante, il tonfo squillante dei suoi passi sulla superficie del deserto. Il rumore del metallo che cozzava col metallo.
Avanzò cullato da quel suono e sotto di lui il suolo non affondò.
Jabash continuò a camminare. Oltre.

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Epilogo II

Epilogo II
Un lago di sangue. La donna si rese conto all’improvviso di nuotare in un abisso di sangue. Denso. Rosso. Colloso e profumato di un metallo ferroso. Ne era immersa completamente. Le sue ampie bracciate la cullavano, spingendola docilmente in avanti sospesa sul liquido compatto, caramelloso. Non aveva direzione. Il lago di sangue e il suo nuotare esaurivano tutte le possibilità dell’universo. Persino la sua stessa esistenza e la sua sofferta biografia si facevano evanescenti in quel diorama perfetto. Il rosso e il nuotare.
La donna che un tempo fu conosciuta con il nome di cacciatrice e di eretica si immerse nel liquido che la sorreggeva e sprofondò in esso. Non ricordava di essere in grado di nuotare. Sul mondo da cui proveniva non vi era altro che una fitta foresta, ben pochi erano i fiumi e gli ammassi d’acqua, chiazze azzurre su una topografia verde e marrone. Lasciò che i suoi muscoli allenati e tesi la portassero sempre più in profondità, la tinta amaranto del lago si faceva via via più scura e gli occhi della donna non erano in grado di cogliere nessun particolare ma lei continuava a nuotare verso il basso, giù, sempre più in fondo.
Non respirava ma sembrava che questo non fosse importante, non sentiva lo stimolo vitale dell’aria, dell’ossigeno. Il sangue era il suo elemento e per una qualche strana ragione pareva che ciò le bastasse. Era come una perfetta osmosi fra il suo essere creatura vivente e il tutto che l’avvolgeva, caritatevole, accogliente, protettivo. Una grande madre rossa.
Nuotò. Nuotò a lungo sino che perse la coscienze del tempo e del suo stesso nuotare. Non vi era quasi più neppure separazione fra il suo essere individuo, creatura cosciente e vivente, e il liquido che la circondava. Smise di pensare, smise di essere se stessa e per un lungo momento fu solo il lago di sangue. Fu solo il rosso in cui stava sprofondando.
Estatica perfezione della non coscienza.
L’eretica tornò alla propria coscienza solo quando giunse al fondo del lago e con i piedi toccò il suolo molle e umido, sprofondando un po’ nella superficie umida del terriccio.
La donna era scivolata dall’alto, come un grande uccello in lenta planata. Docilmente, silenziosamente, rapace pronto a ghermire con gli artigli le carni della preda, atterrita ed immobile.
Era nell’alveo del lago. In piedi, immersa nel sangue rosso e ferroso. Fece un passo. Poi un altro. Un altro ancora. La sensazione di camminare era innaturale, ovattata. La resistenza del liquido denso le rendeva difficile avanzare. Il rosso si opponeva alla sua volontà di andare oltre. Di proseguire il suo viaggio. Il suo viaggio privo di destinazione.
La donna della Foresta si concentrò e a fatica riuscì ad avanzare. Poggiava prima un piede poi, facendo leva con tutto il resto del corpo, muoveva l’altro in avanti. Lentamente, faticosamente. Camminava.
Con la fatica e lo sforzo tornarono alla donna anche i ricordi, le sensazioni della sua biografia, le storie della sua gente, i canti che aveva mormorato sporca di fango e di terra. Nel liquido rosso sentì sul suo corpo le migliaia di cicatrici, di ognuna ne percepì il dolore, lo strappo, la sofferenza che aveva marcato la sue morbida pelle di donna. Donna che non era più da molto tempo. Rammentò il suo pianeta invaso dalla Foresta. Deturpato dall’Impero. Saccheggiato dalla brama di dominio di uomini che non erano neppure uomini. Creature modificate e soggiogate al dominio del metallo. Alla bramosia della loro postumanità. Ricordò la sua gente. Sterminata. Le tradizioni dimenticate. I canti perduti come echi in una valle troppo grande. E rivisse l’odio. L’odio che l’aveva tenuta in vita nella vendetta, nella blasfemia del rispondere alla morte con la morte. L’eretica presa di coscienza che la morte poteva essere data. La morte si poteva infliggere, devastando il tabù che aveva guidato la sua gente da sempre.
Lei che era l’ultimo baluardo del popolo della Foresta, lei che si era votata alla memoria e alla vendetta, proprio lei che forse era l’ultima ancora in vita aveva tradito, rinnegato le tradizioni, sfregiato le regole e divelto la morale.
Lei che era il baluardo si era rivelata la peggior traditrice della sua gente.
Nel compiere la sua vendetta la donna della foresta aveva ucciso di nuovo il suo popolo. Ne aveva violato la storia. Ne aveva reso inutili cicli e cicli di osservanza delle tradizioni, di orgogliosa fede nel rispetto del tabù che invocava che nessuna morte si può infliggere. Così sarebbe dovuto essere ricordato il suo popolo. Fiero anche nello sterminio. Fiero di essere più forte di ogni sopruso. Fiero di proclamare la propria verità. L’impossibilità dell’uccisione. Ma lei aveva reso tutto vano. Ora il suo popolo sarebbe stato ricordato dalle genti di tutto l’universo come il popolo che sul punto di sparire e di morire aveva rinnegato tutto, i credi, i dogmi, la propria storia. Ogni cosa, sino al significato nascosto che giace dentro ogni esistenza. L’eretica si rese conto di aver deturpato la sua gente. Aveva reso ogni cosa insensata. Assurdamente inutile, priva di valore.
Respirò. Con il naso e con la bocca e fu invasa dal sangue che la circondava. Riconosceva quel sangue. Rosso. Come il suo. Era il sangue di tutto il suo popolo. Goccia dopo goccia raccolto in un pozzo senza fine in cui lei stessa era immersa. Avvolta.
Sentì il profumo di ognuna delle persone che aveva conosciuto nella sua vita. E della miriade di altre che mai aveva incontrato e che erano vissute prima della sua nascita. Sentì il sapore di tutta la sua gente. Gustò sulle papille l’aroma del sangue di coloro i quali erano nati nell’abbraccio della foresta. Ripensò a sua madre. Alla madre di lei. E ancora alla madre della madre della madre in una catena che pareva eterna. Verso le origini stesse, ancestrali e segrete, del suo popolo. Il sangue della sue gente la penetrava, le si appiccicava sulla pelle incuneandosi nei pori, risalendo le vene e le arterie verso il cuore. E una volta raggiuntolo inondandolo di emozioni, di storie e di così tante biografie che la donna pensò di impazzire. Il suo popolo era dentro di lei. Ogni singola storia, ogni singola esistenza, ogni vita.
La donna era la memoria e lo era carnalmente.
Continuò a camminare sino a che non emerse dal lago di sangue. Il greto aveva preso la forma di una leggera salita e lei l’aveva percorsa sempre più faticosamente. Debolmente. Sino a che non era affiorata oltre la superficie del sangue e si era guardata intorno. Non c’era cielo in alto. Nessun azzurro. Solo un opaco e ombroso verde. Verde e marrone.
Sentì gracchiare. Un lento e pigro suono fastidioso. Pingue. Guardò nella direzione del verso e vide un uccello nero. Grasso. Altezzoso e sfrontato. Il becco sporco delle viscere di una preda esile. Era appollaiato su uno spesso ramo, quasi nascosto dalle foglie sottili. Verdi. Come tante piccole lame.
La donna risalì completamente grondando sangue.
Continuò a camminare. Una lunga scia odorosa la seguiva al suo passaggio. Era il sangue che le colava dalle vesti, dai capelli arruffati, dal viso, dal corpo e dalle mani. Gocce che cadevano a terra penetrando il muschio e scivolando verso il terreno, fecondandolo.
La donna non si fermò e il sangue che l’avvolgeva cadde sul terreno sino che il pianeta della Foresta non ne fu intriso. Ogni stilla si addentrava nelle profondità del mondo e con essa le vite e le storie della gente che sul pianeta della Foresta erano passate, vi avevano vissuto, amando e odiando, sperando e morendo. Quelle stesse vite che ora non erano più solo un ricordo sfumato e destinato a perdersi. Non più solo un soffio di vita capitato per caso a vivere in quei luoghi. Gli uomini e le donne del popolo della Foresta esistevano ora nel cuore stesso del pianeta in un’unione eterna celebrata con un concepimento di sangue.
Quelle vite non sarebbero state mai dimenticate.
Il pianeta della Foresta fu per la prima volta fecondo del popolo che l’aveva abitato da sempre e in esso si riconobbe e si fece cosciente di sé.
E la donna che un tempo era conosciuta come la cacciatrice e l’eretica continuò a camminare e non smise di farlo sino a che ogni singola lacrima del sangue del suo popolo non fu scesa a germogliare nel pianeta.
Prima o poi, ne era convinta. Un nuovo popolo della Foresta sarebbe nato da quella terra.
Un popolo che avrebbe ricordato.
Un popolo che non avrebbe dimenticato.

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07 aprile 2009

Epilogo I

Epilogo I
Il monaco aprì gli occhi e si accorse di essere a casa. Riconobbe i colori. I contorni dei monti, le cime che si stagliavano all’orizzonte. E soprattutto l’odore. L’inconfondibile odore di spezie pepate tipico del suo pianeta. Era a casa.
Intorno a lui una folla silenziosa lo osservava. Mise a fuoco la vista ancora un po’ intontita e riconobbe le persone che lo attorniavano. Lo stavano aspettando. Riconobbe sua madre, poco più in là suo padre e, strette a lui, le due sorelle. Piccole come le ricordava. Sorrise loro. Erano molti cicli che non le vedeva. Da quanto era stato scelto per servire l’Ordine. Gli era stato fatto il dono supremo della Fede ed era partito. Verso il pianeta centrale dell’Ordine. Là, lontano. Al cospetto di Tiresia. Il Cieco. Il Veggente. Il Priore dell’Ordine. Pensò al pianeta della foresta. Al Tempio. Era vero. Non erano folle farneticazioni di un vecchio xenologo. Aveva visto e toccato la prova. Un Tempio vecchio come l’universo, forse persino più vecchio. Un Tempio identico ai tempi dell’Ordine. Nell’architettura vi era dunque la verità. La verità di cui lui, umile monaco, non aveva mai dubitato. Rise dell’Impero e del suo Imperatore tracotante e blasfemo. Si figurò il suo potere sbriciolarsi, come terra essiccata. Sbriciolata fra le dita.
L’Ordine avrebbe trionfato su ogni pianeta. La fede si sarebbe diffusa. Come una lenta marea. E lui avrebbe servito Tiresia per altre mille e più missioni. Si accorse di essere felice. Forse per la prima volta in tutta la sua vita. Aveva obbedito. Servito. E aveva trionfato nel nome e nel volere del Cieco. Tiresia. Il Priore.
Fece scorrere lo sguardo sulla folla cercando altri vecchi visi conosciuti. Poco oltre suo padre lo vide. Era lì. Immobile fra la folla ad aspettarlo. Vestito di una lunga casacca dorata contornata di pietre preziose che splendevano riflettendo la luce del sole giallo nel cielo. Severo. Impassibile. Il viso metallico altezzoso e autorevole. Non era possibile. Era lì. Accanto a suo padre. Non poteva sbagliarsi. Era davvero il blasfemo. Il crudele. Era lì. L’Imperatore. Tra la folla. Ad aspettarlo. E accanto all’Imperatore vide Tiresia. Il Priore. Erano a pochi passi da lui. Fermi. Lo stavano guardando. Entrambi pareva sorridessero. L’Imperatore con il suo viso argentato dal metallo e Tiresia fra le mille rughe di vecchio con avvizzite mammelle di donna. Cosa stava succedendo?
Il monaco tese un braccio verso la folla e cercò di dire qualcosa. Ma la sua voce era spenta. Moribonda.
Dove si trovava? Stava forse sognando? Era in viaggio sepolto dentro una qualche cabina di ibernazione indotta? Si. Non poteva che essere così. Aveva sentito che durante i viaggi transistemici in sospensione criostatica si sognava ripetutamente. Sogni folli di una veridicità inimmaginabile. Sogni assurdi come quello che stava vivendo ora.
La folla fece un passo verso di lui. Vi scorse altri volti. Volti che conosceva. Vide Phleba. Il monaco disperso su quel mondo lontano. Il pianeta desolato. Lo aveva conosciuto brevemente durante l’apprendistato. Era stato per alcune frazioni di ciclo suo maestro di riti. Aveva pianto quando aveva saputo della sua morte. Ma ora era lì. Con Tiresia. Con l’Imperatore. Vivo. Di fronte a lui. Giovane e bello come lo ricordava.
Vide ancora i suoi compagni del noviziato. Molti di loro erano stati mandati suoi mondi periferici a professare la voce di Tiresia. La voce dell’Ordine. Molti erano morti.
La folla si avvicinò. Lenta. Incombente. Silenziosa. Volti spenti che lo fissavano senza espressione. Esseri privi di ogni coscienza. Il monaco urlò e cadde a terra. Restò in ginocchio. Il viso solcato dalle lacrime. La folla si fece prossima. Avrebbe potuto toccarla solo muovendo il braccio. Sentiva gli aliti caldi su di sé. I respiri lenti e profondi. Il calore di corpi. L’odore di esseri viventi. Il fetido odore del metallo. Il sapore della carne flaccida. Il monaco non si mosse.
Chiuse gli occhi e si mise a pregare.
Pregò a lungo. Mormorando i canti che aveva imparato e che ormai erano parte di lui. Invocazioni e odi. A volte solo parole prive di significato in lingue così antiche da essere ormai intraducibili. Mantra. Ricordò che Phleba spesso gli diceva che non era importante ciò che si cantava nella preghiera. Era l’atto del pregare che importava, sentire fra le labbra, sulla lingua, la preghiera, il canto. Lasciarla venire al mondo. Voce che diventava viva. Vera.
Il monaco pregò. E attese che la folla lo toccasse. Lo ghermisse. Attese che qualunque cosa dovesse succedere accadesse. Ma nulla avvenne. Il tempo scorse e il monaco ebbe la sensazione di essere avvolto nella preghiera. Protetto. Al sicuro dentro il suono, dentro i canti e le parole senza significato.
Recitò a lungo ripetendo infinite volte tutte i riti che Phleba gli aveva insegnato. Cantò poi i canti popolari della sua terra. Quelli che gli erano stati insegnati dai suoi genitori e dai genitori dei genitori in una catena eterna di tradizione.
La sua voce fu ovunque. Si disperse. La immaginò percorrere i luoghi di quel mondo onirico fatto ad immagine e somiglianza del suo mondo natale. Un’illusione fecondata dalla melodia sacra delle sue parole.
Il monaco aprì gli occhi. E intorno a lui vi fu solo bianco. Un bianco denso. Luminoso. Vivo. Il monaco non si spaventò. Il mondo su cui si era risvegliato era scomparso. L’universo stesso era scomparso ed ora esisteva solo il bianco che lo avvolgeva. Ogni cosa era il bianco e il bianco era ogni cosa.
Il monaco pensò di essere al cospetto di Dio. Di essere dentro Dio. Distese le braccia intorno a sé. Cerco di toccare il bianco per percepirne la sensazione. Per renderlo vero. Non sentì nulla. Guardò sopra di sé. Bianco. Sotto di sé. Bianco. Intono a sé. Bianco. Era bianco ovunque.
Osservò le proprie mani. Non fu sorpreso di vederle trasformarsi. Prima le dita. Poi il palmo. Stavano scomparendo. Nel bianco. Si stavano fondendo nel bianco.
Il monaco aprì le braccia. Distese le gambe. Spalancò la bocca. E lasciò che il proprio corpo svanisse nel bianco. Senza opporre resistenza. Senza paura. Sapeva che quello era il suo destino. Scomparire. Perdersi. Perdere sé stesso per divenire parte non consapevole dell’universo. Diventare in questo mondo l’universo stesso. Essere Dio. Essere nulla.
Pensò al Tempio. Pensò che forse era una via. Un canale verso uno stato ulteriore. Era un pezzo di Dio lasciato nell’universo fisico per permettere la riconciliazione e la fusione del singolo spirito nel tutto. Per poter essere il tutto. Scomparendo in esso.
Pensò poi alla donna della foresta. Il corpo del monaco era svanito. Svanite le sue ossa, le sue carni, persino il suo cuore era ormai confuso nel bianco. Restava solo un ultimo pensiero cosciente.
Il monaco pensò che si era innamorato di quella donna. L’eretica del pianeta della foresta.
Poi più nulla. Il monaco smise di esistere. Il monaco fu l’universo. Il monaco fu Dio. Nulla.

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03 aprile 2009

Intermezzo IV

Intermezzo IV
Il sicario si sfregò le mani nell’acqua gelida del fiume e osservò la corrente tingersi di rosso. Il sangue del vecchio.
Lo aveva seguito per giorni e giorni. Silenzioso. Come gli era stato insegnato. Aveva ripercorso il cammino dello xenologo attraverso la foresta. Passo dopo passo. Invisibile. Sino a che il giorno era venuto. E la sua missione si era conclusa. Nel rosso. Nel sangue.
Il rito della morte che si ripeteva.
La casta a cui apparteneva era rispettata e temuta. Una delle poche elite dell’universo non ancora soggiogate al potere dell’Impero o a quello dell’Ordine. Ma i sicari non erano liberi. Macchine costruite ed educate ad un unico scopo. Inseguire ed uccidere. Erano i necrofori. I portatori di morte.
Non conosceva lo scopo della morte che avrebbe portato. Mai. Era cieco. Un semplice strumento. Lama affilata che si incuneava nelle carni. Arco armato di frecce silenziose e intrise di veleno. Mani collose dei mille colli spezzati. Era ogni arma aveva usato e ogni arma avrebbe usato. Il sicario in sé non era nulla. Solo la sanguinaria esecuzione di un volere segreto e nascosto.
Chiunque fosse l’artefice voleva che il vecchio xenologo morisse. E con lui le sue ricerche. Il suo cammino. La strada percorsa.
Il sicario continuò a sfregarsi le mani. Il sangue del vecchio era denso. Incrostato. Non riusciva a toglierselo dalle dita e dalle unghie affilate. L’acqua del torrente scorreva gelida e le ombre delle foglie affilate sulle cime degli alberi disegnavano strane danze intorno a lui. Gli parve di sentire un rumore. Si voltò di scatto. Non vide nulla.
Odiava quel pianeta. Odiava l’ombra perenne causata dalla fitta rete di rami e foglie sugli alberi. Ovunque alberi. Ovunque foresta.
Sarebbe ripartito presto. Pensò alla sacca che portava con sé. La piccola trasmittente a batteria solare che inviava l’impulso di riconoscimento alla nave in orbita sul pianeta. Sarebbero venuti a riprenderlo. Sospeso in animazione criostatica per chissà quanti cicli per poi essere inviato in qualche nuova missione. Su altri pianeti. Continuamente. La sua identica vita.
Senza pensarci si voltò e osservò la borsa poggiata lì vicino. Ripensò al libro che vi aveva nascosto. Nel dispaccio che aveva ricevuto non si faceva riferimento a nessun libro. Inseguire lo xenologo. Farlo disperdere nel cuore della foresta e lì ucciderlo. Senza lasciare tracce. Non si diceva nulla del libro che il vecchio vergava ogni sera e che teneva stretto a sé. Come una reliquia.
Il sicario aveva fallito. Lo sapeva. Aveva portato la morte. Ogni volta portava la morte. La morte era la sua ragione di vita. Ma il vecchio non era morto subito. Era fuggito. Una lenta fuga a ritroso nella foresta verso la costa, lasciando dietro di sé una scia di sangue rosso scuro che si allargava ad ogni passo. La lama conficcata nella schiena. La lama del sicario.
L’aveva raggiunto troppo tardi. Il vecchio era morto nella città del porto. In mezzo alla folla riunita al mercato. Non aveva neppure urlato. Era crollato a terra.
Gli esseri che popolavano quell’odioso paese l’avevano trovato in una strada laterale della piazza che dava sul porto. Il sicario aveva imprecato. Aveva fallito. Testimoni. Centinaia di testimoni di una morte che doveva restare segreta.
Il sicario si osservò le mani. Erano ancora sporche.
Era rimasto ai margini della città, nascosto nei bassi e stretti vicoli cercando di capire cosa sarebbe successo. Osservò il brulicare della gente. I bisbigli e il brusio. Vide i vecchi saggi del popolo della foresta accorrere intorno al cadavere e riunirsi in un cerchio. Li sentì confabulare nella loro lingua fatta di sussurri e mormorii. Li guardò parlottare fra di loro. E poi osservò innalzare la pira. Una catasta di legni secchi e scuri. E sentì l’odore del corpo del vecchio che ardeva. Il silenzio era sceso. Il mantello del fuoco aveva avvolto ogni cosa rendendo muta ogni voce.
Aveva fallito ma il suo fallimento non sarebbe mai stato svelato. Era polvere ormai. Polvere nera a fecondare quel mondo verde di foglie sottili.
Il sicario si asciugò le mani in un rozzo panno. Il sangue non si era lavato. Ogni volta faceva sempre più fatica a togliersi il sangue dalla mani.
Il sicario non conosceva le tradizioni di quel rozzo popolo. A lui non importava sapere per quali ragioni avessero deciso di ardere il corpo dello xenologo. Quasi di fretta. Come se quel cadavere fosse oltraggioso. Sporco. Al sicario importava solo la morte.
E la morte era venuta. Ancora una volta. Implacabile. Affilata. Perfetta.
Nascosto nell’ombra fra le case il sicario aveva visto il più vecchio fra i saggi del popolo della foresta alzarsi e prendere il libro dello xenologo. La pira ancora ardeva e intorno le fiamme tingevano tutto di una luce densa. Calda. Aveva osservato il saggio avvolgere il libro in un soffice tessuto e portarselo via. Il sicario l’aveva seguito. Silenzioso. Invisibile.
Il vecchio saggio si era inoltrato verso un piccolo villaggio e lì aveva deposto il libro in una piccola costruzione di legno. Un edificio stretto a forma cilindrica. Vi aveva nascosto il libro. Sepolto sotto un tappeto quadrato colorato di mille colori diversi, ormai consumati dal tempo e dall’usura. Il sicario aveva pensato di uccidere anche il vecchio saggio. Ma non ve ne era ragione. Aveva atteso.
Paziente. Immobile.
Il tempo si era fermato.
Il sicario era veloce.
Aveva aspettato fino a che non vi fu neppure una voce, nemmeno in lontananza. Si era mosso. Violato il piccolo edificio. Spostato il tappeto e preso il libro. Era nelle sue mani. Era fuggito. Come un vile ladro. Colpevole.
La nave era vicina, stava arrivando.
Sentiva la vibrazione sorda dei motori in lontananza. Pensò di aprire di nuovo il libro. Di leggerne ancora. Di ascoltare la voce dello xenologo emergere dalle parole vergate. Scrittura fitta e continua. Ma non lo fece. Non lo avrebbe mai più aperto. Non avrebbe mai letto una sola riga in più di quel maledetto libro.
Aveva ancora le mani sporche del sangue del vecchio.
Aveva letto solo una pagina del diario dello xenologo. Poco dopo averlo rubato. Una pagina sola. L’ultima pagina. Le righe scritte dal vecchio studioso prima di morire. Prima di ucciderlo. Là. A pochi passi dalla radura.
Aveva letto e per la prima volta in tutta la sua vita il sicario aveva desiderato di non aver ucciso. Di non aver mai ammazzato.
La nave comparve nel cielo fitto di rami. Una fune fu calata. Il sicario si aggrappò ad essa e la strinse. Come mai aveva fatto prima. La nave si alzò trascinando il sicario con sé. Via dal pianeta della foresta. E il sicario pianse. Pianse lacrime calde che continuarono a cadere mentre veniva issato a bordo.
Lacrime che caddero sulle foglie sottili e affilate. Sul piumaggio scuro degli uccelli lascivi. Sul muschio che ovunque cresceva. E sulla polvere nera che era stata lo xenologo.
Ma nessuna consolazione venne da quelle lacrime.

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Le lacrime di Jabash caddero a terra

Rami di Verdi Lame (30)
Jabash li vide. Erano di fronte al tempio. Immobili. Il monaco e la donna.
Dietro di sé sentiva la forza del suo esercito. Migliaia e migliaia di soldati evoluti nel metallo. Creature perfette. Vago ricordo di una biologia abiurata.
Una parola. Il suo esercito attendeva la sua parola. E in quella sarebbe stato salvato. Distruzione e sangue. Nell’ultimo ordine di Jabash l’esercito avrebbe trovato ancora una volta il senso della propria esistenza. Della propria evoluzione. Soldati che esistevano per la guerra. E in ogni battaglia affermavano urlanti la propria esistenza. Ogni nemico ucciso, ogni popolo sconfitto, ogni pianeta sottomesso, tutto questo non era altro che una violenta invocazione, un sbraitata affermazione di sé, della propria postumanità indotta. La guerra, e solo la guerra, era la condizione stessa della vita di ogni singolo, postumano, soldato. Senza di essa gli uomini di Jabash non sarebbero stati che inutili anacronismi e bizzarri esperimenti genetico-metallurgici. Creature inutili forgiate senza scopo. Assurde.
Il Comandante Jabash, il condannato alla biologia, lo sterminatore e lo sciacallo fissò il tempio.
Non vi erano più dubbi. La stazione centrale della Torre 1 aveva confermato i primi risultati delle analisi. Quelle rovine erano vecchie quanto l’universo. Forse persino più vecchie.
Rovine di un tempio identico ad ogni altro tempio costruito dall’Ordine.
Era la prova? Jabash non riusciva a non domandarselo. Quel tempio era davvero la prova che le parole folli del vecchio Tiresia, il Priore dell’Ordine, il Veggente e il Cieco, erano vere? E l’Imperatore solo un vile usurpatore? No! Non poteva essere vero! Non aveva vissuto tutta la sua vita a lottare per la gloria di un impostore. Doveva esserci una spiegazione. L’Impero possedeva la verità. E Tiresia era solo un manipolatore. L’immondo ingannatore.
Jabash scrollò la testa e lasciò che il fragore rombante del suo esercito gli calmasse i nervi tesi. Maledetta biologia!
Fece un passo.
Il monaco e la donna non si muovevano. Immobili fissavano il tempio. Erano poggiati con una mano al muro esterno, a ridosso dell’entrata oltre i pochi gradini. Non si erano nemmeno accorti del suo arrivo nello spiazzo. Impossibile. Lo ignoravano? Erano in una specie di trance? Cosa stava accadendo? Maledetto tempio. Maledetto pianeta.
Jabash imprecò sottovoce e si avvicinò ancora al tempio.

- Comandante?
- Si, Sergente?
- Gli ordini? Attacchiamo?
- No. Restate fermi.
- Fermi?
- Si. Vi voglio fermi. E spegnete i motori delle vostro servo-strutture. Voglio un po’ di silenzio in questo luogo.
- Ma… le procedure d’ingaggio?
- Sergente. Spenga le servo-strutture e chiuda questo maledetto canale di comunicazione. Ora!
- Ricevuto. Eseguo.

Con uno scatto nervoso spense il ricevitore auricolare e attese. Lentamente il fragore dei motori delle servo-strutture biomeccaniche del suo esercito si spense. Era come un’onda. Un’onda di silenzio che travolgeva ogni cosa sommergendo il mondo sotto una cappa cupa e spessa di niente. Nessun suono. Ovattata nullità.
Jabash respirò il silenzio e fece un altro passo verso il tempio.
Poi l’udì. Sembrava un canto. Soffuso. Dolce. Socchiuse gli occhi cercando di concentrarsi. Non riusciva a capire da dove venisse. Si voltò ma vide solo sul limitare dello spiazzo il suo esercito immobile. Silenzioso. E spento.
Tornò a fissare il tempio. E capì.
Era la foresta. Stava cantando. Era come un mormorio. Una nenia infantile. Gli sembrò quasi di riconoscere la ninna nanna che gli era stata cantata dell’inserviente metallica dell’istituto infantile imperiale. Lo stesso canto di quando era un bambino. Cosa stava accadendo?
Fece un passo ulteriore. Il tempio ormai era vicino.
La struttura circolare, gli intarsi, il pertugio a cui si accedeva da pochi gradini. Non prestò attenzione al monaco e alla donna.
Altro passò. E vide la luce.
Dall’entrata del tempio si sprigionava una debole luce. Vaporosa. Vaga.
Jabash se ne sentì attratto. Quella luce era lì per lui. Ne era certo. Lo stava chiamando. Invocava il suo nome.
Jabash. Jabash. Lo sentiva distintamente nel chiarore. Jabash. Jabash.
Riconobbe finalmente la musica nell’aria. Si. Non era sbagliato. Era la ninna nanna che gli cantava la sua inserviente semi-cosciente durante gli anni di crescita controllata nell’istituto imperiale su Kanert-2. Era un bambino. Un piccolo inutile bambino biologico a cui era stata diagnosticata la peggiore delle malformazioni immaginabili. I medici dell’istituto continuavano a ripetere che era pressoché impossibile. Ma era accaduto. Lui, Jabash, era incompatibile al metallo. Ad ogni forma di metallo. Era condannato alla biologia. Era il prescelto dalla biologia.
Alzò il braccio. La luce era ancora lontana ma voleva toccarla. Possederla. Farla sua. Era sua. Lo chiamava. Jabash. Jabash.
Accese il ricettore auricolare.

- Sergente.
- Comandante, agli ordini. Attacchiamo?
- Ritiro immediato.
- Cosa?!
- Sergente. Non ripeterò questo ordine una terza volta. Ritiro immediato. Raggiunga la Torre di controllo 23-H e resti in attesa di un nuovo ordine. Lei e tutto l’esercito.
- Lascio un contingente a supporto nello spiazzo.
- No. Se ne vada Sergente. Ora. Si sbrighi.
- Ricevuto. Come ordina. Trasmetto l’ordine.
- Addio.

Jabash. Si fermò. Non si voltò ad osservare il suo esercito che riattiva le servo-strutture per tornare indietro. Ripercorrere la strada creata nella foresta. Devastando la foresta. Solo per giungere al limitare dello spiazzo. E poi tornare indietro. Inutilmente. Non c’era stata battaglia. Non c’era stata guerra.
Per quel giorno l’esercito di Jabash fu come se non fosse neppure esistito. Inutilità priva di ogni esistenza reale.
Jabash attese. Il canto nell’aria si fece via via più intenso. Più definito. Riconobbe le parole pronunciate nella lingua antica del suo pianeta d’origine. Parole che pensava di aver dimenticato. Parole che gli ricordarono luoghi sepolti nella sua memoria. Luoghi che non esistevano più. Terre sacrificate all’insana ambizione dell’Imperatore. Terre che Jabash aveva devastate. Senza rimorsi.
Jabash ascoltavano ammaliato. Il tempo scorreva sulle note parche del canto.
Jabash si voltò. Il suo esercito era scomparso. Ritirato come aveva ordinato. Ora era solo. Solo nello spiazzo.
Lui. Il Tempio. La luce. Il monaco e la donna.
Fece un altro passo.
Poi uno ancora. E finalmente arrivò di fronte al tempio.
La luce era ovunque. Avvolgeva ogni cosa. Anche il monaco e la donna ne erano avvolti. Jabash li osservò. Erano immobili. La donna mugugnava qualcosa di incomprensibile. Forse pregava. Jabash non le prestò attenzione più di un momento. Tese il braccio. Toccò il tempio. E la luce lo riconobbe. Lo avvolse. Lo abbracciò. Lo possedette.
Jabash sentì solo una sensazione di caldo. Un profumo materno.
Chiuse gli occhi. Non vi era altro. Null’altro importava. Solo il canto, la luce e il caldo.
Le lacrime di Jabash caddero a terra.
Il tempo finì.
Lo spazio si contorse.
Restò solo pianeta avvolto da una fitta foresta di verdi lame, uno spiazzo erboso, le rovine di un antico tempio circolare, un monaco, una donna sporca di fango e un uomo conosciuto nell’universo con il nome di Jabash.

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In silenziosa reverenza di quel luogo

Rami di Verdi Lame (29)
Non credette ai suoi occhi. Pensava di conoscere ogni anfratto del suo pianeta. Ogni pertugio che si nascondeva fra le fronde degli alberi. Ogni ombra disegnata dalla foglie sottili e vagamente bellicose che sormontavano le cime dei tronchi alti e fitti. Ma lì non era mai stata. Si chiese come fosse possibile. Cosa era quel luogo in cui l’uomo vestito di nero l’aveva condotta. Si guardò intorno. Un piccolo spiazzo malamente illuminato, troppe foglie lassù in cima. Qualche scolorito e secco arbusto qua e là a rubarsi i pochi raggi di luce che riuscivano a filtrare sino a terra. Guardò in alto e vide un paio di uccelli. Grassi e flaccidi. La saliva le invase la bocca. Aveva fame e pensò alla loro carne grassa e filacciosa. Trattenne l’istinto di estrasse la sua cerbottana e ucciderne uno. Non era il momento. Aveva altro di cui pensare ora. Qualcosa di più importante persino della fame.
Tornò a fissare in mezzo allo spiazzo. Che cosa erano quelle rovine. Sembravano un tempio. Non ne era certa, non ne aveva mai visti di simili ma l’insieme aveva un che di spirituale. Di magico. Di sacro. Anche il silenzio che aleggiava nell’aria era strano. Non lo riconosceva. Era come se la stessa foresta fosse ammutolita. In silenziosa reverenza di quel luogo.
La donna del popolo della foresta guardò l’uomo dalla tunica nera. Era in ginocchio e piangeva. Pensò di avvicinarsi e di scuoterlo. Non era il momento per piangere. Jabash, lo sciacallo, il vile, l’orrendo, li stava inseguendo con tutto l’esercito. Li sentiva ormai, erano vicini. Poteva intuirne l’avanzata dai quattro fronti. Erano ad un passo da raggiungerli. La donna ebbe paura. Non c’era più via di fuga. Jabash non aveva sbagliato e lei e l’uomo in nero erano accerchiati. Quello strano luogo sarebbe stata la fine di tutto. La resa di un conto insanabile.
La donna superò l’uomo nella tunica che era ancora in ginocchio piangente e si avvicinò alla costruzione che dominava il centro dello spiazzo.
L’osservò con attenzione mentre il rumore ritmato dei passi militari dell’esercito di Jabash echeggiava sempre più forte. La costruzione era poco più che un rudere. Circolare. Lo spazio esterno fitto di colonne piccole e sottili. Tre gradini a condurre ad un’entrata. La donna osservò l’interno. Era buio. Nero. Totalmente privo di luce. Le sembrò quasi solido.
La costruzione non era molto alta. Il tetto era completamente distrutto e l’insieme ormai non superava di molto la statura della donna. Lei si avvicinò sino ad esserne ad un passo. Il fragore dell’esercito di Jabash era ora possente. Metallo urlante nella quiete della foresta. Allungò la mano e quasi toccò la superficie della costruzione. Le pareti esterne erano dipinte con colori sbiaditi e consumati. Sembravano intagli geometrici, forme floreali. Strani ghirigori che si inseguivano in ampie e complicate volute. La donna cercò di decifrarne un senso ma le parvero solo abili giochi di prestigio. Decorazioni senza significato.
Pensò che era davvero bizzarro. Circondata dall’esercito dell’Impero, a pochi metri da vedere in volto Jabash, il sanguinario, probabilmente ad un passo da una morte orrenda, dalla fine di tutto, della sua lotta, della sua inutile vendetta. Ogni cosa sul punto di finire. Miseramente. Ma lei era lì. Immobile a fissare una costruzione aliena nel cuore del suo pianeta. Non provava più nemmeno paura. Le sembrava che tutto ora avesse senso. Non riusciva a capire perché ma non desiderava altro che essere lì. Di fronte alle rovine. Come se la sua stessa vita fosse stata un intricato proseguire in un labirinto insensato per poter giungere finalmente a quel luogo e in quel momento. Percepì nell’aria il sacro. Chiuse gli occhi e ben al di sopra del frastuono metallico delle truppe di Jabash udì la voce della foresta. Si concentrò e ne ascoltò il canto. La foresta stava pregando. Pregava per quel luogo, per quelle rovine. La foresta stava venerando quella costruzione.
Ma che cosa era? Chi l’aveva costruita? Perché si trovava lì? Le domande le affollavano la mente e nessuna risposta veniva a lenirla.
Riaprì gli occhi. Guardò le rovine e, tremando, le toccò. La mano aperta, il palmo sporco del proprio sangue e del terriccio che ovunque dominava. Vi appoggiò la mano. Dietro di lei l’uomo dalla tunica nera la osservava. Sentiva su di sé gli occhi penetranti del giovane.
La superficie era liscia. Fredda.
L’uomo le si fece vicino. Aveva il viso rigato dalle lacrime. Solchi nello sporco del volto. Si mise al suo fianco e alzò il braccio. Rimase un momento immobile sfiorando la costruzione. Poi si decise e poggiò la mano a pochi centimetri dalla sua. Lei si voltò e vide che l’uomo aveva il capo chino e stava mormorando qualcosa. Era una preghiera. Un canto leggero e soffuso. Anche lei si mise a pregare. Un antico canto tradizionale del suo popolo. La sua voce era aspra, dura. Le note le uscivano sgraziate ma forti. Socchiuse gli occhi e smise di pensare. Si lasciò invadere dalla preghiera.
I due canti parvero fondersi in un’unica melodia. Un’invocazione comune.
Non si accorse di quando iniziò, forse fu una cosa graduale o forse fu all’improvviso. Di colpo. La luce si fece strada fra le sue palpebre abbassate. Aprì gli occhi senza smettere di cantare e di toccare la costruzione. L’uomo al suo fianco non si era ancora avveduto di nulla. Troppo intento a recitare la sua complessa preghiera.
La donna volse gli occhi verso la soglia del tempio. L’apertura che si affacciava sopra i tre gradini consumati. La ricordava buia. Densamente nera. Ma ora era diversa. Vi era una luce. Una luce calda, viva. Guizzante. Un bagliore che sembrava sprigionarsi da dentro la costruzione. La donna non si sorprese.
La luce si rivolse a lei. La guardò. E poi l’avvolse. Completamente. Fu inglobata dal calore luminoso che veniva dall’interno delle rovine. Passo del tempo. Un tempo lento e immobile. La donna mormorava il suo canto.
Non smise di cantare neppure quando Jabash fece il suo devastante ingresso nello spiazzo.

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