17 febbraio 2008

Vedo il mio corpo appeso

Vedo il mio corpo appeso
Vedo il mio corpo appeso,
lo vedo dondolare,
e da ultimo sobbalzare.
Vedo il movimento allentarsi
ad ogni squasso più lento,
fino a restare
docilmente fermo.

Vedo il corpo immobile,
perpendicolare,
come ricordasse
un antico desiderio.
Vedo il collo disteso,
allungato ed inumano
deforme in retaggi animali
di non euclidea perfezione.

Ed il naso odorare
L’odore dolciastro e molle
Della corda di canapa
Che stringe, che taglia.
E il suo sapore di cannella.

Cedono gli sfinteri pudichi
E il fetore e i liquami
D’intestinale corso
Scivolano a terra,
Allargandosi in una macchia
Bellicosa e ribelle.

Vedo il ghigno deforme
Del mio volto morente
Sorridere al nero
Delle sole pupille
Dilatate e urlanti
Muta invocazione.

Vedo la memoria sparire
Nello sterile deserto
Di neuroni essiccati
Nell’emoglobinica siccità.
Oscuro sipario cadente
Sull’illusione e le scrostate speranze.

Ora non vedo più nulla
Niente intuisco,
Nero.
E neppure odo il silenzio
Invadente
Della morte.
Della mia morte.

02 febbraio 2008

Contar le stelle

Contar le stelle
(dalle cronache del signor Jacopus B.)


Stava alzando il calice di vino, osservando ammirato i riflessi rubino che il liquido ondeggiante sembrava emanare, quando qualcosa gli attraversò la mente e lo costrinse a stravolgere i seppur pochi progetti della serata e affrettarsi verso un’altra, imprevedilbile, avventura.
Ma non affrettiamo. Lasciamo il tempo al lettore di comprendere il dove, il quando e il come, necessari ad ogni buon incipit narrativo. Anzi, a voler bene guardare ciò che manca a questo precipitoso inizio è proprio la risposta alla domanda principale che l’uomo solitamente si pone, ovvero “chi”?
Chi è dunque questo tale che, in estasiata ammirazione, se ne sta immobile a fissare un bicchiere mezzo pieno (o mezzo vuoto?) di vino rosso? La risposta non sorprenderà il nostro consueto lettore, ben abituato alle nostre lunghe narrazioni su quel personaggio eccentrico e straordinario che è del signor Jacopus B. Ed ecco che appunto, ancora una volta, protagonista delle pagine che seguono il nostro affezionato signor Jacopus B.
Possiamo ora riprendere con maggiore tranquillità, evitando di cadere nella veemenza di chi ha molte cose da dire e da scrivere e teme che il tempo a sua disposizione possa non bastare, come se temesse una fine che pare prossima.
Il signor Jacopus B. se ne stava seduto al tavolo della sua piccola cucina (di cui in altre occasioni abbiamo avuto modo di dire) nell’ora stabilita per la cena a sorseggiare un buon vino. Va detto che ovviamente non esiste un’ora precisa, solare, per desinare il pasto serale, si trattava semplicemente del momento in cui il signor Jacopus B., a fronte della sua ben nota meticolosità e ripetitività, era solito prepararsi qualcosa, sedersi comodo su una sgangherata sedia e, mentre una sinfonia volteggiava dal suo vecchio grammofono, compiere il lento rito della cena.
Pasto spesso frugale quello del signor Jacopus B., semplice, si potrebbe dire persino scarno, fatto questo però non sorprendente vista l’estrema magrezza del nostro protagonista; difficile invero immaginare un uomo le cui ossa sporgono quasi a perforare la pallida pelle lasciarsi andare a pasti pantagruelici e animalescamente abbuffanti.
Non che il signor Jacopus B. non fosse un amante della buona tavola, tutt’altro, andrebbe infatti riportato, in ossequio alle precise indicazioni biografiche delle “Cronache”, che molti anni addietro il signor Jacopus B., quando era poco più che un ragazzo, aveva maturato una vera e propria passione per l’arte culinaria, mostrando abilità straordinarie e davvero inaspettate. Non ne rimane traccia alcuna ormai ma pare che il risotto ai funghi porcini che usciva dalla casseruola del nostro, allora giovane, protagonista fosse davvero un’assoluta prelibatezza, un connubio di sapori e colori, gioie del palato e della vista. Alla domanda sul segreto del suo risotto il signor Jacopus B., che allora era solo il giovane Jacopus, rispondeva con quella sincerità sfacciata che a volte ancora gli viene rimproverata, un buon risotto deve essere amato non solo cucinato, soleva dire.
Erano ormai anni che non esercitava più le sue doti culinarie, ritenendo l’affaticarsi della preparazione di un pasto ricercato come assolutamente inutile per un uomo che senza alcuna compagnia siede alla mensa, come se l’unico ingrediente davvero necessario per poter cucinare un pasto fosse proprio quell’amore di cui diceva il giovane Jacopus e, mancando quello, non valesse poi neppure la pena di arrabattarsi tra pentolame e stoviglie.
Il signor Jacopus B. non si era, tuttavia, ancora convertito alle varie scatolette e preparati semi liofilizzati che invadevano i supermercati della città, si procurava i pochi generi di prima necessità utili alla sua modesta sopravvivenza in un piccolo emporio non lontano da casa, gestito da un simpatico vecchietto che, oltre ad intrattenelo con buone chiacchiere, gli permetteva di avere sulla tavola cibi freschi e genuini, salutari senz’altro vista l’età non più leggiadra del nostro protagonista.
Stavamo dunque dicendo, il signor Jacopus B. se ne stava comodamente seduto alla sua tavola gustandosi il parco pasto e sorseggiando un bicchiere di vino rosso (qui le “Cronache del Signor Jacopus B.” da cui riportiamo questa narrazione non specificano che vino fosse, restando sul vago, anche se a noi piace immaginare che fosse uno di quei vini particolarmente corposi, dal gusto intenso e sapido che sembra restare a lungo in fondo al palato e rivelare in ogni momento un’armonia differente di aromi) quando qualcosa accadde.
Quali strani percorsi abbia seguito la sua mente, i suoi neuroni e le connessioni chimico-elettriche delle sue multiformi sinapsi non ci è certo dato sapere. Esiste un angolo del signor Jacopus B. che resta, nonostante tutte queste nostre dettagliate narrazioni, inconoscibile, misterioso e segreto. Non possiamo neppure essere certi che tale parte profonda del signor Jacopus B. sia dal nostro stesso protagonista realmente conosciuta, o piuttosto che sia una semplice scatola nera senza alcuna serratura da poter scardinare.
Potremmo, tuttavia, per puro amore di cronaca e di narrazione, contravvenendo alle consuete regole del buon affabulatore, cercare di immaginare, in un volo di pura fantasia, cosa sia davvero successo nella mente del signor Jacopus B. E se così facessimo lo ipotizzeremmo in tal guisa: in fondo alla scatola nera, dove albergano pensieri ancora indefiniti, magmatiche sensazioni che sembrano confondersi e fondersi con antichi retaggi di specie e ricordi prenatali, proprio da lì, dalla parte più fonda, più nera, più antica, emerse un pensiero. Chiamarlo pensiero è forse pericoloso perché già lo si categorizza, già lo si definisce nel descriverlo, già lo si ingabbia nell’attribuirgli un nome. Ciò che scalò le ripide pareti della coscienza del signor Jacopus B. fu un qualcosa di pre-definito, una sorta di fumosa nebbia che non era ancora parola e neppure pensiero, ma solo un ammasso, quasi gassoso, di emozioni, di pulsioni, di ricordi e soprattutto di antichi desideri di fanciullo onnipotente.
Nella lunga strada che dalle oscure regioni dell’abisso dell’uomo, ed in questo caso di quell’uomo che è il signor Jacopus B., sino ai piani alti della coscienza che fa di sé stessa coscienza, in un meccanismo ricorsivo di autocoscienzialità, il pensiero, che ancora non era pensiero, divenne via via desiderio. Una spinta, un atto volitivo che si spandeva e si precisava, acquisiva contorni, spigoli e pian pano prendeva una solidità invadente, prepotente, fastidiosa, tanto da costringere ogni altra riflessione cosciente del signor Jacopus B. a prestarvi attenzione, a farne i conti e alla fine a soggiacere al dictat condizionante e impellente del suo essere assoluta bramosia.
Quella cosa che da chissà dove era giunta, risalendo le pericolose pareti della mente del signor Jacopus B. giunse, finalmente, così a occupare tutta la coscienza del nostro protagonista, costringendolo ad interrompere immediatamente ciò che stava facendo (ovvero ammirare estasiato i riflessi rossi del vino) e obbligandolo ad obbedire all’imperativo che la cosa oscura portava con sé. Alzarsi ed andare. Alzarsi ed andare.
Il signor Jacopus B. così allora fece: si alzò e, messo di fretta il cappotto, se ne andò.

Immaginiamo il lettore stupito e forse anche un po’ infastidito da questa nostra iniziale pagina. Lo vediamo borbottare fra sé e sé e chiedersi, ma allora è il signor Jacopus B. che ha deciso di alzarsi e andarsene o è stato costretto, succube, da quella cosa (che neppure si è capito che cosa sia davvero) che lo ha spinto, forzato e, di fatto, deresponsablizzato dell’azione compiuta?
Non potremmo che sorridere a questo dubbio e a questa lamentela del lettore: come non esserne pienamente d’accordo, come non provare l’identica fastidiosa sensazione di essere stati ingannati da qualcosa, di aver chiamato nostro ciò che nostro non è, di aver pensato di essere re in un regno sul cui vero trono è assiso un altro sovrano, oscuro e misterioso che governa le scelte dei nostri sudditi e, malignamente, anche le nostre.
La digressione che dovrebbe seguire questo, prezioso, appunto del lettore sarebbe però così lunga, così complessa, e soprattutto così infruttuosa da non poterci permettere di inserirla in queste pagine che hanno, invece, lo scopo manifesto (ed è giunto il momento di rivelarlo) di narrare dove il signor Jacopus B. se ne andò e soprattutto (che crediamo ben più importante) cosa fece.
Ci sia permesso però, e sappiamo che il lettore ormai perdona le nostre estenuanti riflessioni a margine, lasciarci perdere per pochi momenti in alcune considerazioni sprigionate proprio da questo singolare evento accorso al nostro, estroverso, protagonista.

Se ne stava seduto, comodo e rilassato, nel momento più sereno e piacevole della giornata a gustarsi un meritato calice di vino dopo ore e ore a provare le tre battute di un personaggio di un dramma orientale tanto in voga nei teatri della città e in cui avrebbe recitato la settimana successiva, quando, eccolo abbandonare il piacevole momento e fuggir via. Per andare altrove. Chi è dunque il signor Jacopus B.? L’uomo che siede rilassato a tavola o quello che senza attendere un momento s’alza e se ne va? Che siano forse la stessa persona? Difficile crederlo, così diverso il loro comportamento da farli sembrare più estranei che identiche emanazioni di un’unica persona. Che allora il signor Jacopus B. abbia dentro di sé un altro signor Jacopus B.? E chi è quello vero? Quello seduto o quello che se ne va? E’ l’uomo che pacatamente riflette con la sua mente sul miracolo di un riflesso rubino nel calice trasparente di un bicchiere, oppure quello che ha in sé, in fondo e nascosto, una scatola nera ribollente e gorgogliante di ammassi gassosi di pulsioni e desideri a cui non può far altro che sottostare? E se di questi è vero il secondo, potrà dirsi il signor Jacopus B. davvero responsabile delle sue azioni? Gli si potrà dar colpa se, costretto a seguire una delle tante nuvole di emozioni, retaggi e ricordi ancestrali, commetterà delitto, o causerà il male del prossimo? Dove inizia il signor Jacopus B. cosciente e responsabile del suo agire e dove termina la parte oscura sepolta in ogni uomo a cui dobbiamo in ogni momento sottostare? Ne esiste una divisione, un limite confinante?
Noi, umili narratori, non lo sappiamo. Ma se, sotto tortura, ci venisse chiesto di decidere, di scegliere, chi tra i due è il vero signor Jacopus B., noi risponderemmo, forse un po’ titubanti, che il vero signor Jacopus B. altri non è che colui che, a volte vanamente, sa dir di no a ciò che dal profondo giunge e tenta d’imporsi. Il signor Jacopus B. esiste, si definisce e trova senso come essere umano nella sua capacità, nel suo potere, nel suo doloroso saper negare. Solo il gesto di ribellione, di riottoso rifiuto dei dettami che nel nero là in fondo soggiacciono fa nascere il signor Jacopus B. e lo battezza come uomo.
Ma a volte, neppure questo potere di dir non può nulla contro la forza di ciò che sale dal profondo oscuro dell’animo e poco resta da fare se non accettare, sottostare e passivamente sottomettersi agli imperativi che nella mente si sono formati, e vedere ciò che accade poi, sperando non vi siano tragedie all’orizzonte.
Nel caso specifico di cui stiamo tratteggiando la narrazione non vi fortunatamente alcuna tragedia, solo l’ennesima conferma della disillusione, del dolore e dell’insensato trionfo della casualità che circonda il signor Jacopus B. e tutti noi con lui.

Ora riprendiamo la narrazione dal punto in cui le nostre digressioni l’avevano, così crudelmente, interrotta. A voler guardar bene dei fatti del signor Jacopus B. in queste prime pagine si è detto ben poco, l’abbiamo visto seduto a cena osservare un bicchiere, poi, alzatosi e messosi il cappotto, uscire e andarsene. E’ davvero singolare come molte delle narrazioni che abbiamo tratto dalle pagine polverose delle “Cronache del signor Jacopus B.” vedano il nostro protagonista iniziare un’avventura con l’atto di uscir di casa, di lasciarsi le familiari mura dietro le spalle e perdersi nell’indefinito che se ne sta oltre. Un fatto di certo curioso ma che forse ci rivela un tratto della personalità del nostro protagonista che pare doveroso sottolineare, sebbene nulla sia certo e comprovato. Le “Cronache” tacciono di queste riflessioni che potremmo dire di secondo grado, è allora compito nostro osare un’indagine più accurata, più profonda del signor Jacopus B. e soprattutto del suo tribolato animo.
Cosa c’è fuori dalla porta del suo appartamento che così in modo irrefrenabile attrae il signor Jacopus B.? Cosa c’è nell’indefinito oltre che giace segreto oltre l’ambiente caldo e familiare della sua casa ad attirarlo, come una potente calamita? Abbiamo molto riflettuto su questo tratto del nostro protagonista, su questa sua caratteristica peculiare ed unicissima, fino ad arroventarci le meningi stanche e affaticate. Tra le molte ipotesi vagliate e le molte scartate, quella che ci appare come la più plausibile e che rispecchia i fatti che lentamente andiamo narrando della vita del signor Jacopus B. è una sola. Ed è il nulla. Non vi è nulla nell’indefinito che il signor Jacopus B. anela a chiamarlo, a calamitarlo, nessuna forma, nessun senso che pare intuirsi nel vago. Tutto resta al di fuori delle stanze della sua casa semplicemente possibile. Ma è proprio questo essere imprecisato, questo essere nulla di concreto, di tangibile, niente di vero e reale ad attrarre il signor Jacopus B. E’ la sensazione che trasforma quel niente in un tutto, le infinite possibilità che si nascondono nel mare nero e mefitico dell’indefinito.
Se non fosse presuntuoso potremmo affermare con una certa sicurezza che il signor Jacopus B. anela il niente dell’incerto che sta oltre la soglia della sua calda dimora perché lì non vi sono pareti, non vi sono confini e lì trionfa una libertà particolare, cruenta, insidiosa e cattiva, la libertà di poter essere tutto senza essere nulla. La libertà di non poter scegliere chi e che cosa essere e nel non decidere far trionfare il proprio poter essere ogni cosa. Ma tutto questo non è possibile in una casa che lo confina, gli ricorda chi è, quali scelte ha compiuto e quali vergognosi errori ha commesso, fino alla colpa che ancora lo perseguita senza tregua. No, nel luogo che è casa per il signor Jacopus B. ormai vivono anche le emanazioni del suo essere uomo, del suo essere creatura definita negli atti passati, solo nel fuggir via, nell’incessante cammino verso un orizzonte che non esiste, che non deve esistere, il signor Jacopus B. gode della fasulla sensazione di poter continuamente scegliere nell’atto volontario di non scegliere. Si pasce nel suo essere vago tutto, potenziale nulla.
Ed allora non deve stupire che anche questa narrazione veda il nostro protagonista fuori dalle mura del suo appartamento, vagare per le strade della città, questa volta però, vedremo, con una meta ben precisa. E di questa meta racconteremo.

Prima però di giungere nel luogo dove questa rendicontazione vuole arrivare e trovare l’immediato senso, è necessario riportare di un ulteriore evento capitato al nostro protagonista. Un fatto slegato, sciolto potremmo dire, da ciò che desideriamo riportare in questa narrazione, che nulla ha a che vedere con i fatti che vanno sotto il titolo che in alto il lettore ha scorto, ma un evento che cronologicamente in queste ore narrative s’inserisce e pare, quindi, d’uopo qui riportarlo. Se il lettore fosse in grado di vederci un nesso logico oltre che cronologico con i fatti narrati successivamente, non potremmo che esserne lieti e rallegrarci.
Ci consenta allora il lettore di riportare questa sorta di bolla d’eventi che s’innesta su una diversa narrazione ma che, per via della coincidenza cronologica, non trascureremo. Se poi ritenesse opportuno non perder tempo a seguirci in questo lungo excursus narrativo invitiamo il lettore a saltare le poche pagine successive e a ritrovarci dopo, nel momento in cui riprenderà la narrazione riguardante la vicenda che sopra abbiamo cominciato a disegnare, se, invece, vorrà accompagnarci, lo preghiamo di reggersi bene alla seggiola perché il fatto narrato apparirà misterioso e molto curioso.

Le “Cronache del signor Jacopus B.” riportano i fedelmente tutti i numerosi fatti e le molte vicende che videro protagonista e, a volte semplice spettatore, il nostro ormai conosciuto vecchio signor Jacopus B. Forte sarebbe il desiderio di soffermarci un momento a chiederci le ragioni che spinsero il misterioso antico rendicontatore a vergare con così estenuante dettaglio tutti gli episodi della vita del signor Jacopus B., tuttavia, ormai, sappiamo che a questo interrogativo non v’è alcuna risposta sensata: segrete resteranno le vere ragioni e le improbabili motivazioni che portarono alle luce quel testo straordinario che sono le “Cronache”. Questi lunghi tomi impolverati e rosicchiati dalle termiti sono un documento di grande valore e una preziosa traccia nel tempo a testimoniare (a sfregio dell’oblio che ogni cosa cancella) la vita, i pensieri, le azioni e il dolore di un uomo, forse eccentrico, ma senza dubbio di grande spessore che molto si interrogò sul senso della vita, dell’universo, dell’amore e di tutto quel poco che resta.
Le “Cronache” dettagliano sino alla boria ogni piccolo avvenimento accorso al nostro protagonista, senza che però avere un intento teleologico e epistemologico manifesto, una finalità espressa. Non vi è, come nelle rendicontazioni di secondo livello che molto umilmente noi invece tentiamo di portare avanti, uno scopo dichiarato, una morale da far emergere. Il lettore lo sa, noi cerchiamo di scegliere episodi specifici della vita del signor Jacopus B., narrarli in un modo più o meno ordinato, censurando tutto gli accadimenti accessori che ne fanno da contorno e che sono non utili per i nostri scopi. Ciò che preme è il riportare gli eventi che paiono proficui per far sorgere un significato, per tentare di spiegare il senso delle azioni del signor Jacopus B. E’ come se non ci si potesse più accontentare della semplice descrizione asettica del suo essere esser vivente, ma fosse per noi impellente, necessario, doveroso, fare un passo oltre e dire (o tentare di dire) quale significato e quale senso velato ha il suo agire quotidiano. Per poterlo fare serve guardare gli accidenti della vita del signor Jacopus B. con un occhio selettivo e soffermarsi principalmente sui fatti davvero importanti al disvelamento di ciò che sta oltre il manifesto agire.
E’, dunque, saper passare al setaccio la farina granulosa della vita del signor Jacopus B. cercando di trattenere nelle maglie della griglia solo gli episodi che ci consentono di trarre le oscure ragioni delle azioni del nostro bizzarro protagonista.
Le “Cronache” che, al contrario, non hanno questo intento esegetico si accontentano di riportare tutte le vicissitudini del signor Jacopus B. in perfetto, puro, semplice ordine cronologico, infischiandosene se i fatti fra loro stridono, se cozzano e se si crea un guazzabuglio indistricabile di accadimenti casuali.
Questo è un po’ il caso che stiamo per narrare, nel nostro intento di scopritori ed archeologici del senso la parentesi che tra poche righe riporteremo appare irrilevante e persino fuorviante nella ricerca del significato nascosto della vicenda di cui abbiamo cominciato a tracciare i dettagli, tuttavia, come ricordato sopra, questo particolare episodio appare così straordinario da meritare di essere qui narrato, sperando che il lettore ci doni la sua consueta benevolenza.

Il signor Jacopus B. se ne era appena uscito dal suo appartamento e si stava incamminando con passo spedito verso il luogo che il magma proveniente delle profondità della sua mente gli ordinava di raggiungere, quando, in modo alquanto inaspettato, scorse davanti a sé la strana coppia che pareva lì ferma per una ragione precisa, come in attesa di vedere sbucare proprio il nostro protagonista dal portone del condominio in cui abitava.
Erano fermi in fondo alla via che dal palazzo del signor Jacopus B. si ricongiunge con una delle arterie principali della città, viale che appariva in quel momento stranamente deserto, come se le centinaia di persone che solitamente l’affollavano smaniosi di concedersi il fascino delle molte vetrine avessero deciso di andare altrove a sfogare l’impellenza fisiologica dell’acquisto, lasciando soli il nostro protagonista e la singolare coppia dal nulla sbucata, quasi che l’intera città si fosse ritratta permettendo loro una rara intimità.
Il signor Jacopus B. alzò gli occhi per prepararsi ad affrettare il passo e quasi correre verso la meta e così li vide. Inizialmente non comprese perfettamente di cosa si trattasse, un po’ il buio della sera di una primavera non ancora pienamente cominciata, un po’ la stranezza di cui che i suoi occhi gli stavano suggerendo, rimase per un lungo minuto imbambolato poi, stupido quasi della sua stessa voce, sussurrò, un uomo e un cammello.
Già, non si deve sorprendere il lettore, in fondo alla via, quasi ad angolo con la via principale e deserta sostavano silenziosi un uomo ed un cammello. Se il cammello aveva tutte le caratteristiche consuete dell’ideale di cammello (lasciamo perdere la complessa diatriba sul numero delle gobbe che deve avere un cammello per essere tale, come se fosse possibile rifiutare l’appartenenza alla famiglia dei cammelli ad un povero animale solo perché su un qualche astruso manuale di zoologia si declina l’appartenenza a quella specie decidendolo in base al numero di gibbosità che si posseggono sulla schiena), ovvero pelo fulvo di colore ocra, sabbioso e desertico, collo lungo e sguardo placido e sornione; l’uomo, di cui non esiste di certo una versione ideale, era più o meno un uomo di mezz’età, non molto alto ma non molto basso, i capelli coperti e nascosti da un cappello a larghe tese e il resto del corpo quasi mascherato da un lungo e ampio cappotto scuro, insomma, l’avrà capito il lettore, un uomo che poteva essere qualunque uomo.
Dapprima la coppia inconsueta, soprattutto considerando che sembrava sbucata dal nulla in mezzo ad una grande città (habitat poco adatto ad un cammello), se ne restò in silenzio, sguardo fisso davanti a sé, verso il punto esatto in cui sorgeva il legnoso portone dal quale era spuntato frettoloso il nostro signor Jacopus B.
Dedichiamo due righe a descriverli con più attenzione, soffermandoci su alcuni particolari degni di nota. L’aspetto principale che avrebbe colpito qualunque loro spettatore era il loro essere come sincronizzati, il modo in cui se ne stavano fermi, leggermente piegati rispetto alla direttrice della strada, lo sguardo un poco traverso, spostato a destra a contemplare, statico e immobile, un punto preciso perso là in fondo; l’uomo aveva una mano nella tasca dei pantaloni che dall’abbottonatura del lungo cappotto sembravano a righe bianche e nere e l’altra a penzoloni lungo la gamba; il cammello se ne stava quieto, senza neppure scuotere la lunga coda, sembrava non un semplice addomesticato accompagnatore dell’uomo dal cappello a larghe tese quanto piuttosto una specie di pari grado, di amico, come se non esistesse fra i due nessun livello di subordinazione, erano in quel luogo perché entrambi avevano spontaneamente deciso di esserlo, consapevoli delle conseguenze della scelta.
Dicevamo poche righe sopra che l’uomo e il cammello se ne stavano così in silenzio, senza proferir alcuna parola tra di loro né all’indirizzo del nostro sorpreso signor Jacopus B., e così, in religioso mutismo, si mossero, all’unisono, come spinti da un comune impulso o come attenti e scrupolosi ballerini di una condivisa danza, risalendo la strada in direzione del nostro, sempre più sorpreso, signor Jacopus B., che altro non faceva che starsene basito con la bocca spalancata e la mandibola abbassata in un’espressione di universale sorpresa.
Non che si fosse dimenticato del suo intento, il desiderio che gli era spuntato all’improvviso nella mente proveniente da chissà dove ancora gli premeva contro la volta della scatola cranica ordinandogli, con una vocina insistente e fastidiosa, di andare, di affrettarsi e non fermarsi ma era così tanta la meraviglia di vedere in fondo alla stradina un uomo ed un cammello che quasi non vi prestava attenzione.
Immaginiamo ora lo stupore del signor Jacopus B. quando, senza nessuna forma di preavviso o di anticipazione, l’uomo ed il cammello si misero a cantare. Un canto leggero, armonioso, delicato che pareva ristagnare nell’aria della stretta via e aleggiare per un po’ prima di volteggiare via, verso altro luoghi, forse il deserto da cui la coppia pareva provenire?
La voce dell’uomo, bassa e possente, si mischiava alla perfezione con il tono più roco, gracchiante del cammello che con una perfetta padronanza delle regole del canto duettava sapientemente con il suo umano accompagnatore. Vinto l’iniziale e ormai dilagante stupore il signor Jacopus B. tentò di comprendere ciò che quel canto diceva ma, sebbene sembrasse una sorta di nenia che si ripeteva incessante ed identica, le parole ed il loro senso restavano oscure ed incomprensibili. Tese l’orecchio il signor Jacopus B. ma nulla riuscì ad afferrare di intelligibile nel canto che si faceva momento dopo momento più forte per via dell’avvicinarsi della strana coppia. Per un attimo il nostro protagonista si chiese se dovesse aver paura dell’uomo e del cammello che gli si stavano facendo incontro intonando una salmodiante melodia oscura, si guardò in giro e non vide nessuno a cui eventualmente chiedere soccorso nel caso le intenzioni dei due singolari personaggi non fossero state delle migliori, poi si rese conto dell’assurdità di questo suo pensiero (dalla paura immaginata dell’altro nascevano le più grandi tragedie dell’umanità e le più dolorose solitudini dell’uomo) e restò perciò immobile osservarli farsi prossimi ed ascoltare il loro canto che pareva troppo ornato per poter essere ricordato.
L’uomo ed il cammello avanzavano lentamente, come chi è abituato a camminare sulla sabbia che scroscia e scricchiola sotto i piedi di chi va perdendosi per deserti rossi e infuocati, il passo di chi non ha fretta di raggiungere un luogo, di chi sa che in fondo una destinazione comunque esiste e che aspetterà tutto il tempo necessario per raggiungerla. Un passo antico, che non è più degli uomini.
La scena sembrava statica, immobile, da un lato un sorpreso Jacopus B. con il desiderio che gli premeva contro il cranio, dall’altro la stana coppia di uomo e cammello che, quasi scivolando, risalivano la via verso il punto in cui il nostro li osservava sorpreso.
Momento dopo momento, lungo un binario delineato dal canto ripetuto e oscuro che sembrava guidare e indurre, l’uomo ed il cammello giunsero di fronte al signor Jacopus B., e lo fissarono, come se finalmente avessero trovato ciò che andavano cercando da lungo tempo e lì avessero trovato la fine di un viaggio che pareva dover restare infinito ed eterno. Ma nei loro occhi non vi era gioia, non vi era la felicità della meta raggiunta, l’entusiasmo dell’obiettivo portato a termine, come se, in realtà, la loro missione, lo scopo del loro viaggio fosse penoso, e la notizia che viaggiava con loro mesta, a rattristare la persona a cui era destinata. Il loro canto si interruppe, così come era cominciato si fermò, e il significato di quella melodia restò sconosciuto e misterioso.
Il signor Jacopus B. li osservò di fronte a sé, e attese, come consapevole che la parola era loro e a lui solo il silenzio.
Lo osservarono l’uomo e il cammello, guardarono a lungo il signor Jacopus B. che immobile stava in attesa della loro parola, momento finale di una taciturna cerimonia, i loro occhi erano piccoli e lucenti, un velo di mestizia li avvolgeva e così parlarono e nell’aria s’udì il suono delle parole che respirano la loro fine.
Apri i vocabolario dell’Oltre e scopri ciò che sospettavi da sempre, che l’unica parola è nulla.
E detto questo l’uomo e il cammello si voltarono e da dove erano venuti se ne andarono, senza mai voltarsi indietro, lasciando il signor Jacopus B. ad osservarne le schiene e a riflettere su ciò che forse aveva sempre saputo ma che avrebbe scoperto in un’altra avventura futura che non mancheremo di narrare.

Così, in maniera forse un po’ banale si conclude lo strano episodio che abbiamo voluto riportare sebbene fosse slegato dal resto dei fatti che rendiconteremo nelle righe successive e che nulla aveva a che fare con il significato nascosto che vorremmo disvelare in queste nostre pagine. Avrà, tuttavia, compreso il nostro affezionato lettore che l’evento era piuttosto singolare e che colpevole sarebbe stato tralasciarlo, si sarebbe condannato all’oblio una faccenda che, oltre ai risvolti misteriosi, sembra nascondere un qualche ermetico ed enigmatico messaggio che noi, umili autori, non siamo stati in grado di cogliere a pieno. Che cosa avranno voluto dire l’uomo ed il cammello con la frase pronunciata in sincronizzata voce? Speriamo che almeno il lettore sia riuscito a figurarsene il vero messaggio segreto e che vi sia una qualche sensata ragione all’aver riportato il nulla su questo foglio pieno di altre parole.
Ma non andiamo oltre e mettiamo la parola fine all’episodio fuori da comune appena raccontato, smettiamo pure di cercare di rifletterne i significati celati, d’altronde non v’è precisa ragione che ogni cosa che accade, che viene detta o, come in questo caso, scritta debba avere necessariamente un perchè di alcun tipo. Si accontenti allora il nostro lettore dell’evidenza del fatto narrato e smetta, gentilmente, di interrogarsene.
Che il racconto ora prosegua, molto ci resta da dire ancora di quest’ennesima avventura del signor Jacopus B., lasciamo allora la penna scivolare sul foglio e le dita imbrattarsi d’inchiostro nero.

Nel corso delle ormai numerose nostre rendicontazioni immaginiamo che il lettore abbia cominciato a conoscere e a prendere una certa confidenza con la città che ospita il nostro protagonista. Facilmente si sarà riconosciuta una città che alterna piccole piazze a strade strette, intervallate da viali più imponenti e spesso alberati. Passeggiare per le sue vie, come abbiamo avuto modo di fare seguendo le peregrinazioni del nostro signor Jacopus B. significa spesso perdersi un dedalo di vie fra loro identiche e solo la speranza di giungere in una piazza abbellita e decorata in un qualche modo originale ci darebbe la possibilità di orizzontarci nuovamente. Certo il signor Jacopus B. la conosce molto bene questa sua città, è ormai una sorta di amante indulgente, che se ne sta come annoiata e languida stesa su morbidi cuscini. Il signor Jacopus B. la ama, anche se sa che non è più quella giovane donna appassionata che aveva conosciuto anni addietro, come appassita ormai giace solitaria aspettando solo il ritorno di un amante che più non esiste. Lungo queste strade il signor Jacopus B. ha vissuto le sue storie, le sue avventure, i fatti eccentrici che lo vedono protagonista nelle nostre pagine, ma come un recita teatrale questi fatti non sarebbero potuti accadere ed esser veri senza lo sfondo scenografico della città, condizione di possibilità suprema del viver stesso.
Meriterebbero questi luoghi una lunga e dettagliata mappatura, sarebbe doveroso svelarne agli occhi curiosi del lettore ogni angolo, ogni piccolo pertugio, persino i luoghi in cui nessun piede si è mai posato, le mattonelle che mai hanno patito l’umiliazione d’essere calpestate e che ancora beate osservano ogni giorno il cielo spuntare e la notte scivolar via. Rispetteremmo la loro felice illusione di essere pure, ingannevole certezza di credere il mondo e le sue brutture lontano, non è nostro compito annunciare il dolore e svelare l’illusione nascosta nelle certezze.
Forse un giorno dedicheremo una lunga disamina, dettagliata e geograficamente fondata, della città del signor Jacopus B., per il momento si accontenti il nostro paziente lettore di immagini frammentarie, quasi cartoline di un antico paese che in lunatico baule sono ammassate e che ogni tanto saltellano fuori, improvvise e ribelli. Immagini che neppure più ricordano di quale mare descrivono la bellezza, di quale monte le cime innevate. Ricordi senza memoria.
Seguiamo il signor Jacopus B. in questa sua veloce camminata per le vie della città, non v’è nel suo passo alcun intento turistico, nessuna proposta di scoperta delle meraviglie cittadine, nessuno stupore alle bellezze sfiorate dal passo celere, solo una rigida, cieca potremmo dire, determinazione al raggiungimento del luogo che si è, improvvisamente e subdolamente, disegnato nella sua mente.

Proseguendo la narrazione di questo ennesimo episodio della vita del nostro protagonista crediamo che sia opportuno finalmente dedicare qualche parola ai pensieri del signor Jacopus B., sarà pure il protagonista delle pagine qui vergate ma finora di lui, di cosa stesse pensando, di cosa stesse inseguendo con così forte determinazione ancora non si è detto neppure un rigo.
Ebbene, urge che si ponga subito rimedio a questa incresciosa lacuna.
Dicevamo che il signor Jacopus B. se ne stava comodo in panciolle gustandosi il sapore sapido di un buon vino quando un desiderio gli esplose nella testa. Abbiamo persino indagato l’origine, a dire il vero alquanto inconsueta, di tale desiderio ma nulla si è detto ancora del suo contenuto. Facilmente immaginiamo il lettore borbottare chiedendosi, ma insomma si può sapere cosa vuole il buon signor Jacopus B.? Cosa può averlo spinto ad alzarsi e ad andarsene e dove, accidenti, se ne sta correndo?
Non è certo opportuno che il narratore, sebbene onnisciente e con una vaga presunzione di onnipotenza, deluda il suo lettore (almeno, non troppo) e quindi ecco giunto il momento di dare seguito alla risposta e di giustificare il titolo che è riportato in alto a questo racconto. Il signor Jacopus B. si era, inaspettatamente e repentinamente, alzato dalla comoda sedia della sua cucina abbandonando, solitario e depresso, il suo calice di vino, per il nascergli nella mente di un subitaneo desiderio di andare al fiume e lì, seduto su una di una scalcinata panchina traballante, alzare gli occhi al cielo e mettersi a contar le stelle.
Si, proprio così, contar le stelle ad una ad una, sino a giungere ad un numero così lungo che per scriverlo servirebbe un foglio talmente grande da poter avvolgere l’intera Terra come una morbida sciarpa.
Se volessimo ancora venir incontro alle aspettative del lettore esigente e poco paziente dovremmo ora soffermarci sulla domanda che va a braccetto con il cosa, ovvero il perché. Perché mai il signor Jacopus B. decise di abbandonare tutto ed affrettarsi, nel freddo della sera, sino al fiume placido con l’intento di contar le stelle? La risposta a questa domanda esiste, ne siamo certi, come d’altronde siamo convinti che esista una risposta ad ogni domanda formulata, il vero mistero e ciò su cui spesso ci interroghiamo è piuttosto il senso delle risposte alle domande che ci vengono poste, come se vi fosse una sorta di assurdità ed insensatezza che soggiace a tutti i molti responsi che ogni giorno l’uomo si dà. Ma non divaghiamo e restiamo ancorati al sottile (almeno per il nostro modo di intenderlo) filo della narrazione.
Dicevamo del perché di questa inusitata e repentina decisione del signor Jacopus B.: abbiamo già avuto modo di vedere con un certo borioso grado di dettaglio come tale desiderio trovasse origine nelle profondità segrete dell’animo del nostro protagonista, quegli abissi in cui non si è soliti avventurarsi se non in momenti particolari e solitamente molto tristi della propria vita, luoghi che si preferisce restino sempre un passo oltre l’orizzonte della coscienza, tuttavia delle ragioni che potremmo definire manifeste e palesi non si è ancora detto nulla al lettore curioso e impaziente.
Perché il signor Jacopus B. desiderava contar le stelle? Perché un uomo conterebbe le stelle? Follia, delirio insensato di onnipotenza? Perché tu lettore conteresti le stelle?
Noi ci siamo posti questa domanda e abbiamo dato una risposta che ci sembrava plausibile, ma poi ci siamo accorti che era plausibile per noi, e per nessun altro, non valeva per il signor Jacopus B., non valeva per quell’uomo sconosciuto che passeggia lungo il marciapiede che vediamo fuori dalla finestra, non valeva per la donna che dal balcone sopra il nostro stende i panni appena lavati. La risposta che abbiamo deciso di dare a quel perché è una risposta che ha senso solo per chi la esprime, e nel farlo l’accetta. Allora, mio caro lettore, permettici questo momento di sincera intimità nel dirti che la sola risposta assolutamente vera al perché il signor Jacopus B. decise di contar le stelle è quella che tu stabilirai di dare e di creder vera, tutte le altre saranno solo fandonie e sproloqui.
Fermati un momento, smetti di leggere queste righe, chiudi gli occhi e osservati seduto sulle sponde di un piccolo e pacato fiume in una sera di tardo inverno, la primavera sembra sul limitare delle giornate che si fanno più lunghe, alza gli occhi al cielo e osserva il manto di stelle che decora il cielo nero, e ora, paziente, immagina di contare e di non fermarti, per nessuna ragione, finché non avrai terminato, sino al momento in cui nel tuo fantasioso abaco non saranno state inserite tutte le stelle, ebbene, solo allora sogna di concederti la risposta che cerchi. Sarà lì, quasi viva, di fronte a te e tu non dovrai far altro che afferrarla e farla tua. Sarà la tua risposta. Usa l’immaginazione ed essa, magicamente, ti farà omaggio della risposta.
Se poi qualcuno dovesse, nell’avvicinarsi, chiederti che stai facendo così imbambolato a fissare la volta stellata, tu potrai rispondere come abbiamo fatto noi a chi ci ha rivolto questo banale quesito, sto rubando le stelle, ad una ad una. E non avertene male se poi l’importuno figuro se ne andrà quasi offeso e parlottando tra sé, un giorno capirà anche lui il senso della tue parole che ora paiono alle sue orecchie solo offensive.
Non perdiamo però altro tempo e continuiamo il cammino di questa rendicontazione, dicevamo, dunque, che le “Cronache” non si soffermano sulle motivazioni che spinsero il signor Jacopus B. alla conta che presto descriveremo, ma in fondo questo non ci sorprende, abbiamo imparato a comprendere la natura puramente descrittiva di quei tomi ingialliti, l’intento storiografico asettico privo di qualunque considerazione interpretativa e di riflessioni ulteriori. Non abbiamo elementi, dunque, per poter lasciare al curioso lettore una risposta chiara e sincera sulle motivazioni del signor Jacopus B. ad intraprendere questa bizzarra avventura, ma a voler ben guardare questo dato poco importa, volentieri lo lasceremo inespresso e sconosciuto, se poi il lettore se ne avrà a male potrà sempre chiedere il rimborso delle poche monete spese per poter leggere questi fogli sgualciti e imbrattati d’inchiostro e nessuno se ne lagnerà.
Ma non sprechiamo più altre parole per tentar di dire ciò che resta velato e ignoto, proseguiamo con la narrazione e seguiamo il nostro protagonista giungere al pacifico fiume.

In altre rendicontazioni abbiamo avuto modo di presentare al lettore il tranquillo fiume che costeggia l’abitato urbano della città del signor Jacopus B., un rivo d’acqua che scende pigro dalle montagne che là in fondo si intravedono e che sembra giungere svogliato a mostrarsi agli uomini serpeggiando per un lungo tratto fra case e strade, sotto ponti antichi e protetto da margini sabbiosi. Quasi timido, il fiume, spesso si rifugia in percorsi sotterranei dove la sua acqua scorre libera, senza occhi curiosi ad indagarla, senza null’altro che il buio della terra che caldo lo abbraccia e lo avvolge, proteggendolo. Potesse se ne resterebbe così, confinato e al sicuro nascosto dal mondo e da ogni altra creatura. Uno sconosciuto enigmatico rivo sotterraneo che percorre la sua strada dalla minuta fonte sino all’ampio mare senza mai svelarsi, restando celato e in compagnia solo di se stesso. Desiderio folle ma che appare, a chi scrive, così comprensibile, così sincero.
La formazione naturale del gretto, le case e i palazzi che nel tempo si sono eretti, come brulicanti creature onnivore, lungo il lento cammino delle acque del fiume l’hanno però costretto a mostrarsi, rivelarsi agli occhi del mondo e da questi farsi possedere. Il rivo se ne resta lì, alla luce del sole, in succube attesa che la gente che alle sue sponde si avvicina gli getti addosso tutti i pensieri, le delusioni, la rabbia, la frustrazione delle vita. Pare che alle sue acque si riconosca una antica e primigenia colpa o forse, in modo opposto, si doni ad essa una forza magica, quasi salvifica, taumaturgica. Ma il fiume non possiede segreti poteri cauterizzanti, né porta con sé colpe che solo al caso possono essere attribuite, e null’altro può fare che continuare a scorrere, lentamente e placido, sporcandosi delle delusioni degli uomini e delle donne, inquinandosi del sale delle lacrime di chi alle sue sponde piange e trascinando con sé sino al mare vasto e nero che sembra sempre dover comparire oltre quell’ansa le grida disperate di chi ogni giorno si scontra con l’assurdo che ogni cosa per permea e penetra. Appesantito dal male del mondo e della sua gente il rivo scorre ogni giorno più lento sino che sfocia, immobile, nel mare che ogni cosa cancella.
Abbiamo in altre pagine lontane ricordato come questo fiume ispiri nella gente della città un senso imprecisato e caldo di serenità, di pace, come se alle sue sponde ci si potesse liberare di antichi dolori dello spirito che giacciono nelle pieghe dell’animo, apparirà ora chiaro come questa sensazione di purificazione, di profonda catarsi venga indotta nel cuore dei passanti dall’aver riversato nelle limpide acque del rivo le parti dolorose di sé, gettandole via, come la più sporca e inutile spazzatura. A nessuno importa del rivo, che il male trattiene e trascina faticosamente, portandosi sulle spalle dolori che suoi non sono e che neppure può comprendere. Il suo scorrere, come il nostro, s’ammanta della consueta assurdità che spesso da queste pagine emerge a sbeffeggiarci.
Lasciamo però ora che la storia prosegua.

Il signor Jacopus B. giunse alle rive del fiume quando il sole era ormai calato oltre l’orizzonte e le stelle, che si apprestava a contare, stavano spuntando nel cielo, come lampadine accese di migliaia di camere celesti. La luna quella sera non aveva alcuna intenzione di mostrarsi, preferendo restarsene ad osservare altri paesaggi, più caldi e colorati dall’altra parte del pianeta. L’assenza del satellite e della sua abbagliante luce riflessa e rubata che appare agli occhi di molti quasi azzurrognola, consentiva alle stelle di lasciar esplodere la loro sbarazzina giocosità, illuminandosi l’una dopo l’altra, senza timori o paure, come in un gioco senza regole fatto di corse, di affannati inseguimenti e di giostre mirabili, bambini spensierati in una classe senza insegnante.
Il signor Jacopus B. proseguiva con determinazione e con passo deciso, solo ogni tanto alzava gli occhi in alto a controllare che nessuna nube oscurasse i suoi intenti serali e pregustando il momento in cui, seduto, avrebbe cominciato a contare: uno, due, tre… e così via sino all’ultima stella.
Non abbiamo voluto seguirlo passo per passo lungo questo suo percorso cittadino che dal suo appartamento sino alla panchina su cui tra poco si siederà preferendo dedicare le pagine a nostra disposizione ad approfondire alcuni aspetti di questa vicenda che altrimenti sarebbero rimasti eccessivamente oscuri ed inspiegabili, fatto di per sé non inconsueto nella vita del nostro protagonista. Quanto poi le nostre disamine abbiamo davvero contribuito a veder meglio ed in modo meno opalescente, questo resta ancora da dimostrare. Comprenderà il lettore questa nostra scelta, considerando che già altrove spendemmo righe e righe nel tratteggiare cammini di altre peregrinazioni urbane del signor Jacopus B. con tanto di dovizia di dettagli.
Ed ecco allora, senza perdere altro tempo, venirci incontro la panchina su cui il nostro protagonista siederà e conterà le stelle, che poi non sia essa davvero a venirci incontro ma piuttosto noi che, seguendo il passo del signor Jacopus B., ci facciamo ad essa incontro, appare questione di lana caprina da non meritare altre perdite di tempo.
Il signor Jacopus B. si sedette, si avvolse per bene la sciarpa intorno al collo rannicchiandosi un po’ nelle spalle e controllò che il lungo cappotto fosse ben chiuso, quasi che fosse una calda coperta ad avvolgerlo e proteggerlo dal freddo del tardo inverno.
Soffiò un lungo alito caldo nelle mani chiuse a coppa e le strofinò l’una con l’altra tentando di scaldarle in un gesto di preparazione ad un compito importante ed impegnativo che andava affrontato con la massima concentrazione.
Il signor Jacopus B. chiuse gli occhi per un momento, respirò profondamente e quindi alzò lo sguardo al cielo e gli infiniti astri che brillavano spendenti gli esplosero davanti. Sorrise, stava per contare le stelle, una ad una, senza lasciarne sfuggire nessuna, sino a che le avrebbe numerate tutte e sarebbe rientrato a casa conoscendo la cifra esatta delle stelle nel cielo. Un numero che, di certo, sarebbe stato meraviglioso.
Nelle precedenti rendicontazioni abbiamo avuto modo di osservare come il signor Jacopus B., a dispetto della sua professione teatrale ed artistica tipica di animi creativi e un po’ disordinati, era invece persona molto pacata ed sistematica. Meticoloso sino alla noia, il signor Jacopus B. cercava di opporsi in tutti i modi possibili al caos che si intrufola in ogni aspetto della vita e pian piano leviga le asperità sino a lasciare un’identica, liscia, superficie di esteso dolore. La sua lotta era combattuta con le armi dell’ordine, della pura uniformità e ripetizione delle azioni, nel vano tentativo di non lasciare il minino spazio all’insinuante e strisciante casualità. Così, anche questa volta, il signor Jacopus B. aveva studiato un piano, una strategia ben dettagliata con cui proseguire nella conta delle stelle. I momenti esatti in cui congegnò questa tattica d’azione restano però una specie di mistero, le “Cronache” non ci aiutano, a noi sembra plausibile che vi abbia rimuginato lungo il cammino dal suo appartamento al fiume, anche se altri studiosi della vita del nostro protagonista sostengono che ciò sia impossibile, durante quel tratto il signor Jacopus B. deve aver pensato necessariamente all’incredibile episodio dell’uomo e del cammello occorsogli davanti casa. Senza soffermarci troppo sulle complessità dell’esegesi delle vicende del signor Jacopus B. possiamo accontentarci di dire che aveva un piano, e così riferirlo.
Il lettore avrà imparato a conoscere la limpida razionalità del signor Jacopus B. e di certo non si sarà lasciato trarre in inganno dall’avventatezza di un progetto così ambizioso e apparentemente impossibile da realizzarsi. Il nostro protagonista era ben conscio di tutte le criticità insite nel disegno di voler contar tutte gli astri del cielo, ma senza scomporsi molto si era semplicemente programmato una sorta di “strategia d’intervento” con cui risolvere tutti gli impicci e gli ostacoli, e giungere così al suo agognato risultato: la numerazione delle stelle .
Il piano gli era ben chiaro nella mente e, una volta definiti gli aspetti più tecnici ed operativi, gli sembrò persino piuttosto facile giungere al compimento dell’obiettivo, che ci voleva infatti a contar tutte i corpi luminosi nel cielo?
Ma quale era il progetto del nostro protagonista? Beh, la logica rivela delle soluzioni che a posteriori risultano di una banalità sfacciata ma che nell’essere pensate e formulate mostrano intelletti geniali e acuti.
Dividere il cielo. Ecco il piano del signor Jacopus B. Spezzettare la volta celeste in precise sezioni non più grandi di un paio di centimetri quadrati e limitarsi a contare le stelle di quel piccolo quadratino. Quanto potranno mai essere? Un centinaio? Al massimo! Un compito non certo impegnativo, senza timore di sbagliare o anche fosse senza che il dover ricominciare da capo rappresentasse una tragedia funesta. In questo modo il signor Jacopus B. sapeva di aver a che fare con numeri piccoli che la sua mente avrebbe saputo gestire senza difficoltà, tassello dopo tassello, centinaia di stelle dopo centinaia d’altre avrebbe pian piano frazionato tutto il cielo e, infine, scoperto il numero complessivo di tutte le stelle.
Abbiamo forse dimenticato di riportare nelle precedenti pagine che il signor Jacopus B. teneva nel taschino del cappotto un piccolo block di carta e una matita con cui solitamente riportava le impressioni su un colore visto di sfuggita, un volto che ricordava altri volti, un luogo che sentiva esser casa e così via. Brevi annotazioni di una vita che scorreva osservando gli altri e i luoghi del mondo. Quel quadernino sarebbe stato utilissimo al piano geniale architettato dal nostro protagonista, lì infatti avrebbe annotato sezione per sezione la cifra scovata, e alla fine non avrebbe dovuto far altro che fare una bella somma per ottenere il numero complessivo che cercava. Si sarebbe potuto persino aiutare con l’operazione in colonna che gli avrebbe ricordato la sua antica infanzia di scolaro delle scuole elementari.
Semplice ed immediato, scomporre l’infinito in sezioni finite di spazio e di ognuna di esse dire il numero. Ecco il piano del signor Jacopus B.
La semplicità che si nasconde dietro ogni pensiero geniale ancora una volta emerge e ci rivela, sorpresi, come il proposito più folle, più inumano che un uomo avesse mai osato progettare si riveli in realtà così vicino alle potenzialità profonde sepolte in ognuno di noi, lettore e scrittore compresi, come se, a volte, bastasse il desiderare per poter ottenere (persino con una certa facilità) l’impossibile.
Si aprirebbe qui una discussione di grande interesse che però, per non tediare il lettore inutilmente, riportiamo solo di sfuggita; ci sia almeno concesso di notare una discrepanza, ricordando come diceva un altro famoso signore che il diavolo nei particolari s’annida.
Se è vera la teoria che basta il desiderare per poter ottenere, raggiungere e avere le cose che si bramano, teoria che è stata sapientemente sintetizzata nel solenne “volere è potere”, noi, rendicontatori delle vicende del signor Jacopus B. non possiamo che porci un quesito ulteriore che ci infastidisce come un dubbio che ronza nell’incavo delle orecchie quasi una zanzara persecutoria. Una domanda che non trova risposta e che le vicende appena narrate contribuiscono ad acuire come mille echi che si riversano sul mondo fintamente pacificato: chi desidera? Di chi è quel “volere” che tutto può? E’ davvero l’uomo che cosciente, consapevole, nella pienezza del suo essere autocoscienza desidera, vuole una qualunque cosa, oppure, come narrato nelle un po’ noiose precedenti pagine, il desiderio stesso non si origina altrove ed è in realtà espressione di qualcosa di nero e misterioso che è altro da sé rispetto all’uomo che lo brama? Terribile dubbio che ci assale e ci tormenta, il nostro volere, tutto l’impianto di desiderata su cui costruiamo buona parte della nostra visione di noi stessi, del mondo stesso, palizzate su cui si erge la percezione coerente del sé forse non sono altro che desideri innestati da un altrove che resta nascosto e sconosciuto? Un qualunque altrove, che sia un nero abisso pulsionale a cui siamo ancorati e condannati, o che sia piuttosto la società stessa che pare esistere come creatura reale e viva, malefica e crudele che instilla nelle menti dei singoli soggetti umani determinanti indotti; da dove l’altrove derivi non importa, ciò che conta, e che, lettor mio, fa tremare è che nulla esiste di vero in noi, ciò che reputiamo come saldi principi su cui continuiamo imperterriti a costruire la nostra vita non è che un ammasso di secrezioni purulente indotte nella nostra mente da qualcosa d’altro, probabilmente da quella casualità stessa che ci fa essere qui e ora solo per una fortuita combinazione di eventi che non ha nessuno scopo e nessun senso, figurarsi la nostra felicità o il nostro dolore.
Ma abbiamo divagato e ci siamo dilungati oltre il consentito, il nostro lettore speriamo si sia però solo annoiato e non, come le parole sopra dette forse meriterebbero, terrorizzato.

Durante le pause fra un paragrafo e l’altro, che per il lettore sono solo una riga bianca fra due righe scritte ma che per noi sono giorni e giorni di estenuante riflessione, ci siamo accorti che questo racconto che stiamo intessendo in queste pagine ha, oltre al signor Jacopus B., un secondo, altrettanto importante, protagonista, di cui poco si è detto e che si è trattato con una superficialità che non merita.
I due protagonisti di questa strana (come lo sono tutte quelle del signor Jacopus B.) storia si osservano l’uno di fronte all’altro, si fronteggiano come a sfidarsi, un si contro un no, un potere contro un’impossibilità, l’uno contro il tutto, un Davide contro un Golia, il piccolo ed il grande a battagliarsi, lotta apparentemente impari. Da un lato il nostro affezionato ed eccentrico signor Jacopus B., dall’altro il cielo, nero, costellato di diademi di luce che illuminano la notte e mostrano la sua regale ascendenza, il suo incommensurabile potere.
Un uomo piccolo e mortale, assillato da dubbi e da antiche colpe che ancora lo perseguitano e a volte lo uccidono, e dall’altra l’infinita apoteosi, l’epifanica meraviglia del cielo notturno, incastonato di gemme luminose che si mostra, spavaldo ed esibizionista agli occhi di tutte le mortali creature che pullulano con le loro vite finite la Terra. Il cielo che si appresta a fronteggiare l’attacco, strategicamente pianificato, dell’uomo seduto alla scalcinata panchina del placido fiume che col suo quadernino, potentissima arma, ha dichiarato guerra all’onnipotente supremazia sfacciata del cielo.
E intanto le stelle continuano a splendere, così fitte nella volta oscurata dalla notte che paiono un manto continuo di luce, tanto che si rischia di sognare un’alba che è ancora molto lontana.
Difficile nelle sere delle città dei giorni nostri vedere ancora un cielo stellato, altre luci e la cappa di smog a cui siamo sottomessi ha cancellato la meraviglia di vedere la notte illuminarsi di miliardi di piccole lampadine, luci che dalle profondità dello spazio (e del tempo a dar credito alle teorie di un simpatico vecchietto tedesco) giungono a noi, come richiamate dal palcoscenico che sopra i nostri occhi s’apre.
La sera in cui il signor Jacopus B. se ne stava seduto sulla panchina, pronto a lanciar la singolar tenzone al cielo, forse perché erano altri tempi, o forse solo altre città, o perché il caso così aveva fatto capitare, il nero sopra i tetti e sopra la sua testa era un po’ meno scuro, rischiarato, come mai sembrava essere accaduto, da tutte le stelle dell’universo che lì, proprio di fronte agli occhi del signor Jacopus B. sembravano essersi date convegno.
Il signor Jacopus B. si sentì piccolo di fronte a tanta meraviglia e per un lungo momento sembrò dimenticare il suo bellicoso intento e si lasciò incantare, ricordando altri suoi passati.

Ora tutti i protagonisti sono schierati sul campo di battaglia, il signor Jacopus B. armato del suo quaderno e del suo misterioso desiderio di contar le stelle, il cielo nero e freddo di un inverno che non vuole lasciare il campo alla primavera ed, infine, le stelle stesse, che inconsapevoli se ne restano incastonate nella volta a lasciarsi ammirare da tutti gli occhi del mondo. Non ci resta che proseguire senza indugi e continuare a raccontare questa storia, ovunque essa ci porterà.

E così cominciò, con una semplice e singola parola, composta da poche lettere, una trinità di suoni che, come causa scatenante di un’incontrollata cascata, dà vita alla numerazione che porterà un uomo a possedere il cielo. La parola va riportata, celebrata e fors’anche un po’ venerata; così, parafrasando, potremmo dire che in principio fu l’uno e da questo tutti gli altri numeri.
Due, tre, quattro… così il signor Jacopus B. contava additando le stelle su cui passava la sua implacabile ed impietosa conta, una dopo l’altra come una crudele esecuzione barbarica. Non importava che le stelle fossero l’una presso l’altra, quasi ravvicinate e strette a sé per consolarsi dalla reciproca paura, il dito del signor Jacopus B., infallibile, su ognuna calava la scure della numerazione. Ogni stella perdeva la sua identità, sostituita da un numero che ne spegneva ogni vivacità, ogni giocosa ribellione libertaria relegandole in schemi ordinati e ripetuti di cifre. Era l’alienazione che si faceva manifesta, non più subdolo agire millantatore della realtà insensata che circonda ogni creatura vivente, no!, questa volta era il vero, concreto, fattuale dito del signor Jacopus B. che trasformava l’irriducibilità del singolo nel momento identico di una ripetuta catena, in cui ogni anello è uguale ad ogni altro.
Il nostro protagonista era partito dalla sezione di cielo grande non più di pochi centimetri quadrati posta in alto a sinistra nella celeste volta e, come un libro, si ne leggeva tutti i caratteri, ne additava tutti gli astri, sino a renderli oggetti della propria mente razionale e, dunque, a dominarli, possederli.
Sulle gambe poggiato il quadernino colorato e il piccolo lapis giacevano pronti a far il loro sistematico dovere, riportare gli esiti della battaglia, la conta delle stelle conquistate, come un tragico bollettino di guerra con l’elenco impietoso di vittime e feriti.
Ottantuno, ottantadue, ottantatre e la conta continuava, incessante come un solerte carrarmato che ogni cosa divelle al suo passaggio e che dietro di sé lascia solo irriconoscibili macerie di nulla.
Lo sguardo del signor Jacopus B. era concentrato sino alla spasmo, nulla avrebbe potuto distogliere la sua attenzione dal suo indice che una ad una catalogava i corpi luminosi del cielo, piccolo movimento che piano si spostava sulla volta celeste all’interno della sezione immaginificamente ritagliata, attento a non invaderne gli invisibili confini e pronto con la mente a non perdere il ritmo del dito che veloce si spostava, distruggendo ogni speranza di libertà al suo passaggio. La mannaia quantificante si abbatteva sulla singolarità esistenziale e qualitativa delle individualità.
Centoventitre, centoventiquattro, centoventicinque… e, infine, la prima sezione fu posseduta e le sue stelle contate, e il numero vergato sul piccolo quaderno: centoventicinque.
Il signor Jacopus B. sorrise tra sé, si, si stava rivelando un compito piuttosto semplice, ordinato e meticoloso sarebbe riuscito nel suo onnipotente intento di dominare il cielo, contando le stelle. La guerra era iniziata e la prima battaglia era vinta, altre, molte altre ne sarebbero seguite ma ora lì di fronte a lui vi era un fatto nuovo, vero come ogni evento vissuto e rinchiuso nello scrigno del passato: le stelle potevano essere numerate. Le stelle potevano essere conquistate. E così, ancora più galvanizzato, continuò, passando alla seconda sezione, in alto ma un po’ più a destra della prima. E ancora l’uno fu la parola da cui prese vita tutto il resto.
Uno, due, tre…

Il Signor Jacopus B. era stato meticoloso e preciso, prima di gettarsi nella conta delle stelle aveva osservato la volta celeste in tutta la sua terrificante vastità e mentalmente le aveva sovrapposto una griglia composta da identiche sezioni di forma quadrata. Merita che siano dedicate alcune parole in più a questa astrusa operazione compiuta dal nostro protagonista; riserviamole allora le successive righe.
Il signor Jacopus B., non appena sedutosi sulla panchina diroccata ai margini del fiume, aveva chiuso gli occhi e pian piano s’era disegnato nella mente una linea orizzontale, senza inizio né fine che fendeva in due lo spazio stesso della sua immaginazione. A metà di questa infinita linea ne aveva disegnata una seconda ad essa esattamente perpendicolare. Con un qualche retaggio storico potremmo dire una specie di cardo e decumano astratti. Una volta stabilizzate queste due linee con una passata di cemento mentale, ecco che il signor Jacopus B. aveva cominciato a segnare con la matita dell’immaginazione le linee parallele alle prime due, una dopo l’altra, creando di fatto una sequenza ininterrotta di rette perpendicoli tra loro intrecciate in una griglia ordinata, un vero e proprio tessuto filato filo dopo filo.
L’abito logico-geometrico era così pronto, serviva ora semplicemente adeguarlo al corpo che l’avrebbe indossato e poco importa che il corpo in questione fosse tutto il cielo nero della sera, si trattava comunque sempre di una semplice operazione di “vestizione”: un delicato ma ordinario lavoro di sartoria.
Il signor Jacopus B. prese così la trama immaginaria che si era creato e la depose sul cielo, livellando le pieghe indesiderate, accorciando dove troppo lungo, allungando dove troppo corto, tagliando dove necessario. Fu così che il cielo fu finalmente perfettamente agghindato da un ordito rigoroso e razionale, un manto che avrebbe permesso al nostro protagonista di numerare le stelle senza alcuno sforzo, né alcuna fatica. La volta era ora sezionata e spezzettata in un numero finito (seppur piuttosto alto) di frammenti ed ogni frammento conteneva un numero altrettanto grande di astri celesti.
Astutamente il signor Jacopus B. aveva dato il là alla sottomissione dell’immensità celeste alle leggi ferree e severe del raziocinio e dell’intelletto umano e, come un moderno cavallo di Troia, aveva compiuto il primo passo per la distruzione del mistero, dell’irriducibilità del cielo stellato.
Sino a quel momento ogni uomo fermo ad osservare il cielo in una notte serena non avrebbe potuto che percepire una più o meno distinta sensazione di annichilimento, di infinita inadeguatezza e assoluta finitudine di fronte al maestoso spettacolo della volta illuminata da miriadi di piccoli luci, echi luminosi di mondi lontanissimi. Ogni uomo si sarebbe sentito piccolo, insignificante e la stessa esistenza avrebbe svelato di non avere alcuno scopo e nessuna influenza sullo scorrere eterno delle stelle del cielo, sull’incommensurabile vastità del tutto. Ognuno si sarebbe sentito un minuscolo granello di sabbia in un deserto vasto quanto un intero pianeta. Lo spettacolo che più di ogni altro sino a quel momento era stato metafora dell’essere infinitesimale dell’uomo, quasi che ciò fosse una caratteristica ontologica del suo stesso esistere, ebbene tale spettacolo veniva dall’abito tessuto dal signor Jacopus B. depauperato di ogni significato ulteriore e reso, prosaicamente, semplicemente una fredda lastra finita, punteggiata da astri luminosi, facilmente numerabili. Il cielo perdeva il suo valore di monito che ogni giorno ricorda all’uomo di essere creatura finita, mortale e trascurabile di fronte all’infinitamente grande di ciò che gli sta sopra la testa.
Il signor Jacopus B. vestendo la volta celeste della razional griglia aveva spogliato il cielo di ogni potere evocativo, simbolico e, si potrebbe dire usando una parola delicata, morale. Si, morale, perché forse non v’è altra morale che il sapersi creature inutili e insensate in un universo che assurdamente ignora il nostro dolore, la nostra gioia, il nostro vivere stesso. In fondo non fu proprio un altro meticolosissimo personaggio di qualche tempo addietro a lasciar scritto sulla propria lapide un epitaffio per cui cielo stellato e morale sono legati insieme in un connubio inestricabile e rivelatore?
Il cielo e le molte stelle, abbigliati dell’ordito logico razionale del signor Jacopus B., si trasformarono semplicemente in oggetti qualunque, quasi di uso quotidiano senza alcun mistero, senza alcun altro valore che la propria fattuale presenza oggettiva nel cielo. Non restava nulla da comprendere, ma solo oggetti da spiegare e da contare, numerare, sommare, sottrarre, insomma, cose celesti da usare a proprio piacimento come enormi giocattoli dati in balia delle mani curiose ma maldestre del bambino-uomo. Il signor Jacopus B. aveva sostituito l’abito simbolico e ammonitore del cielo con uno nuovo, privo di ogni significato, freddo, matematico e logico. Un abito senza alcuna estetica, puramente funzionale, una sorta di saio grigio con tanto di ruvido e fastidioso cappuccio che nascondeva, più che vestire, la bellezza irriducibile del cielo.
Imbruttito dal tessuto razionale ed urticante cucitogli addosso dal signor Jacopus B. il cielo si lasciava dominare e possedere dalla forza impietosa della numerazione che lenta proseguiva, incessante e senza sosta, nel suo intento brutale di assoggettamento. Le stelle diventavano così, l’una dopo l’altra, di esclusiva proprietà del nostro, terribilmente crudele, protagonista che avido e bramoso le infilava nel sacco del suo intelletto.

Il tempo scorreva lentamente, il signor Jacopus B. non prestava la minima attenzione al proseguire circolare delle lancette sul suo vecchio orologio, il nostro protagonista era completamente assorto e conquistato dal suo mirabolante progetto che, frazione dopo frazione, proseguiva senza intoppi.
Se volessimo cercare, per un puro spirito rendicontativo, di segnare sulla linea delle ore le varie fasi del procedere della conta delle stelle potremmo dire che erano ormai circa tre ore che, seduto e attento, sgranava porzioni di cielo dopo porzioni di cielo, in una sorta di infinito rosario, anche se in questo caso ciò che si stava venerando non era la sottomissione ad un dio lontano e nascosto quanto piuttosto l’onnipotenza stessa della finitudine umana.
Il signor Jacopus B. era giunto a circa la metà della volta del cielo, il quadernino fitto di cifre, pagine e pagine intere in cui vi era riportata con un dettaglio impossibile da immaginare il numero delle stelle di ogni singolo frammento di cielo: frammento 1: 125 stelle, frammento 2: 234 stelle, frammento 3: 168 stelle e così via. La conta era arrivata a circa 1897 frammenti di cielo e, come dicevamo, aveva colmato circa la metà della volta. Il signor Jacopus B. non aveva ancora un’idea precisa di quante stelle fossero state effettivamente possedute dalla conta bellica, non aveva ancora fatto la somma delle varie sezioni di cielo, tuttavia cominciava a sospettare che il numero che avrebbe trovato sarebbe stato davvero impressionante, un numero quasi impossibile da pensare per l’uomo. Non si lasciava però scoraggiare, proseguiva piano, forte del suo meticoloso, implacabile piano di conquista, razionale e metodico.
Ci si potrebbe ora chiedere se il signor Jacopus B. fosse almeno un po’ stanco, d’altronde era seduto su una panchina scomoda, al freddo di una sera di un tardo inverno con il naso all’insù da diverse ore a contare attentissimamente le stelle del cielo. Sappiamo che il signor Jacopus B. non era certo più un ragazzino e che ormai la sua età aveva raggiunto la soglia per cui sui mezzi pubblici giovani educati si alzavano per lasciargli il posto pensando che le vecchie gambe non lo avrebbero sorrtetto un attimo in più; un’età in cui tutto appare un po’ velato, sia per gli immancabili problemi degli occhi sia perché non si fa più caso all’effimero valore delle cose che circondano l’uomo. Se pensiamo a quanto riportano le “Cronache” facilmente potremmo sostenere che il signor Jacopus B. non era certo affaticato, era, infatti, una di quelle persone che trovano delle energie sepolte e nascoste pur di realizzare i progetti che, testardamente, si sono impuntati di completare, e queste energie sono più forti ed inesauribili soprattutto se l’intento è assurdo, folle e dalle conseguenze dolorose. Se queste persone sapessero indirizzare queste loro segrete forze in intenti lodevoli potrebbero persino conquistare il mondo e ottenere successi di immense proporzioni, ma preferiscono, invece, dedicarle a obiettivi insani e spesso autolesionistici (e chi scrive ne è esempio palese), condannandosi così a miseria e solitudine. Ma non è questa l’occasione per riflettere sulle tipologie umane, a noi preme solo prestar la giusta attenzione e considerazione al nostro protagonista, che intanto, quatto quatto, prosegue il suo proposito e conta, conta tutte le stelle del cielo.

Ricorderà il lettore che il signor Jacopus B. era partito a contare come se avesse di fronte una pagina da leggere, dalla parte in alto e a sinistra della volta, dal primo frammento di cielo che spuntava al limitare dell’orizzonte. Da lì aveva proseguito verso destra, seguendo un’immaginaria riga fitta di lettere come le nostre che vergano queste pagine bianche, e, giunto in fondo, al confine con l’orizzonte, era ripartito dal lato opposto ma, ovviamente, una riga più in basso. Un procedere che raccontato in tal guisa sembra identico a quello di una vecchia macchina da scrivere, che, con il solito ritmico rumore, ha accompagnato la creazione di libri illustri e di infinite inutili pagine di commiserazione.
Il signor Jacopus B. potremmo immaginare allora stava creando sul foglio del cielo la sua particolare storia, il suo personale racconto, opera che avrebbe potuto avere per titolo: il romanzo dell’uomo. Una vicenda in cui il protagonista si rende consapevole del suo poter essere ogni cosa, del suo poter fare qualunque cosa, del suo dominio sulla natura, sulla realtà stessa, del suo innalzarsi a suprema creatura in grado di sottomettere a sé l‘esistente. L’uomo che scopre di essere in grado di possedere, far proprio, impadronirsi e onnipotente, bramoso, avido ed egoista conquistare il tutto. La storia che il signor Jacopus B. stava scrivendo contando le stelle era la storia di un essere mortale che sfida e sconfigge ogni possibile dio, che uccide ogni immaginata divinità con la lancia, affilata e crudele, della razionalità, della logica. L’uomo che spiega il reale davanti a sé e, così facendo, lo fa proprio. Questa la trama che si stava intessendo sulla volta celeste ad opera del nostro protagonista, improvvisato autore dell’opera più ardita mai pensata.
Senza mai smettere e pensare ad altro, il signor Jacopus B. proseguiva, riga dopo riga, da sinistra a destra, lentamente e, ormai, metà della volta celeste stata avvolta dalla coperta della logica razionale che il signor Jacopus B. stava intessendo sul cielo. Ben presto tutto l’orizzonte ne sarebbe stato completamente avvolto.

Seguiamo il nostro protagonista più da vicino in questa ultima fase del suo progetto, abbiamo voluto lasciarlo un po’ solo nei primi momenti della conta perché temevamo che il fallimento fosse lì dietro l’angolo, improvviso ed umiliante. Volgendo solo fugacemente lo sguardo al nostro protagonista gli abbiamo lasciato l’opportunità di defilarsi, di uscire di scena senza dover affrontare l’onta della sconfitta, o quantomeno di non dover sentire le risa di scherno dei soliti uomini malvagi. Questa precauzione si è però rivelata inutile, non solo il signor Jacopus B. non ha miseramente fallito nel suo progetto ma anzi questo prosegue spedito e si appresta ad entrare nella fase finale, la parte che condurrà al trionfo dell’uomo sul reale. Restano solo poche righe ormai e la vittoria sembra farsi prossima.
Un po’ più ingobbito nel cappotto per via del freddo che ora si fa pungente e sempre concentrato sul dito che scorre una dopo l’altra sulle stelle, il signor Jacopus B. ha negli occhi una determinazione che poche altre volte vi abbiamo scorso, ed ogni momento che passa, ogni frazione conteggiata la risoluzione si fa più forte e un sorriso carico di significati spunta sulla bocca del nostro protagonista.
Ottantadue, ottantatre, ottantaquattro e il conteggio continua e un nuovo segmento di cielo è posseduto, senza soluzione di continuità dal precedente e dal successivo. Una catena di montaggio perfettamente oliata.
Strano che fra le molte immagini che ci balenavano nelle mente abbiamo scelto proprio questa per descrivere il lavoro del signor Jacopus B. nella realizzazione del suo incredibile progetto, una catena di montaggio. Sarà forse un caso che la catena di montaggio è stata il più forte e invasivo strumento dell’alienazione dell’uomo dal suo stesso lavoro? Usando quest’immagine abbiamo forse voluto intendere che il signor Jacopus B. si stava alienando dalla sua natura di essere umano? Che stava perdendo se stesso autosottomettendosi a qualcosa di differente che resta indefinito? Una metafora, la nostra, forse con un significato manifesto ed uno nascosto e latente? A queste domande non sappiamo rispondere, ma forse in questo dubbio vi è davvero qualcosa di veritiero e verisimile. Una recondita paura che ci attraversa le membra nel vedere il signor Jacopus B. realizzare il dominio dell’uomo razionale sul cielo e con esso su tutto il reale? Lettore non lo percepisci questo brivido?
Stiamo correndo, stiamo giungendo velocemente alla fine della conta, mancano davvero poche righe ed il ritmo del signor Jacopus B. non solo non cala, anzi sembra consolidarsi ed accelerare ad ogni frazione contata.
Che vi riesca davvero? Non lo avevamo mai creduto possibile, siamo stati sotto sotto certi che il progetto sarebbe ben presto fallito, troppo ambizioso, troppo inumano, troppo lontano dal vivere di ogni giorno dell’uomo, dal mondo della vita in cui l’uomo è immerso. Ma il signor Jacopus B. non demorde, non si lascia vincere dal freddo, dalla stanchezza, dall’enormità di ciò che stava compiendo. No! Prosegue, implacabile e la fine, il raggiungimento dell’obiettivo si fa sempre più prossimo.
Osserviamo lo sguardo basso del signor Jacopus B., sta contando le ultime frazioni, quelle poste in basso alla pagine della volta celeste, ad occhio e croce mancheranno venticinque, al massimo trenta porzioni di cielo, una manciata confrontati a quanti ne aveva sinora contati: centinaia, forse migliaia. Stillavano le ultime gocce di una cascata che chiunque aveva pensato eterna, la sua fonte andava esaurendosi sotto i colpi della scure razionale del signor Jacopus B. e ciò che sarebbe rimasto sarebbe stato solo deserto, siccità e sterile aridità.
L’inumano progetto di dominio dell’uomo sul tutto si stava completando, la natura, la realtà stessa stavano per diventare delle semplici cifre da possedere, da ripetere incessantemente per non dimenticare mai che neppure le stelle del cielo avevano potuto restare mistero, lontane ed altre, la mente dell’uomo le aveva braccate, inseguite ed infine catturate e rese vili, schiave. Vinte.
Spaventati osserviamo il signor Jacopus B. procedere, i momenti che verranno saranno decisivi per la sorte di questa narrazione, del signor Jacopus B., del genere umano e della realtà stessa.
Ed ecco cosa successe.

Ricordiamo perfettamente la prima volta che leggemmo questa particolare vicenda dalle pagine consunte delle “Cronache” e, come se fossero passati pochi momenti, sentiamo ancora i lunghi brividi ghiacciati salire lungo la schiena ed arrampicarsi sulla colonna vertebrale sino ad arrivare, quasi un lampo, uno shock, sino al cervello e lì implodere la paura, il terrore per quanto stavamo leggendo, per l’azione sconsiderata, inumanamente folle del signor Jacopus B.
Avevamo imparato a conoscerlo, molte erano le pagine già scorse, molteplici le avventure fedelmente riportate che avevamo affrontato in sua compagnia, ne ricordavamo alcune infinitamente tristi od altre magicamente impossibili ma mai, mai, avremmo potuto immaginare, pensare che avrebbe osato spingersi sino a quel, funesto, punto. Il nostro protagonista, e le “Cronache” ne sono fulgida testimonianza, era un uomo coraggioso, non timoroso di affrontare ciò che gli stava davanti e soprattutto ciò che veniva da dentro il suo animo, quante volte si era confrontato con se stesso e quante volte non aveva avuto paura di dichiararsi sconfitto. Il signor Jacopus B. faceva dell’indagine del mondo, di se medesimo il senso stesso della realtà che lo circondava, in una sorta di paradossale circolarità, per cui il senso stava nell’assenza di un senso conosciuto che costringeva all’incessante ricerca quotidiana. L’assenza e la conseguente ricerca erano i principi su cui si sorreggeva il mondo del signor Jacopus B. Ogni risposta dava adito ad altre domande in una catena infinita, volutamente infinita.
Non avrebbe dovuto allora sorprenderci più di tanto questo incaponirsi del nostro protagonista nell’indagare sul mondo, nel conoscerlo sino al numero finale, risolutivo, tuttavia sin dalla prima, forse persino frettolosa, lettura una strana sensazione di sbagliato, di pericolo, ci avvolse e non dovemmo faticare più di tanto per comprenderne a pieno la natura. Solitamente le avventure del nostro protagonista, ed il lettore delle nostre rendicontazioni lo sa bene, ci costringono a lunghe, faticose e complesse riflessioni per giungere a quel significato ulteriore che vi soggiace e che ci siamo prefissi di far emergere, questa volta, invece, il senso del lungo brivido dorsale fu palese sin dai primi momenti. Il signor Jacopus B. stava per dominare la realtà, ne sarebbe diventato il possessore, l’indiscusso proprietario, il guardiano della chiave che apre i portoni dell’essere che avrebbe usato a suo, capriccioso, piacere. La trepidazione ci squassava le viscere, sentivamo il terrore arrovellarsi con gli intestini in un amalgama indistinta di biologico ed ancestrale timore. Possibile che ci fosse davvero riuscito? Possibile che il mondo che stavamo vivendo fosse stato posseduto, deturpato dall’insano potere del raziocinio del signor Jacopus B.? Possibile che non ce ne fossimo mai resi conto e solo ora, leggendo quella pagina gialla in un testo giunto a noi per caso lo venissimo a sapere? No! Non poteva essere vero; qualcosa doveva interporsi fra il volere recondito e inconscio del signor Jacopus B. e la realtà stessa, un intervento euripedeo doveva giungere a preservare l’irriducibilità dell’essere all’intelletto avido e bramoso dell’uomo.
Nella nostra memoria è vivo il ricordo di come facemmo passare repentinamente gli occhi sulle righe, sulle parole della pagina che stava di fronte, fino quasi a saltarne le inutili per correre, precipitosamente, al finale e sperare di trovare ciò che ardentemente desideravamo fosse scritto. Riga dopo riga, il primo rendicontatore delle “Cronache del signor Jacopus B.” nel raccontare quell’episodio fu insolitamente prolisso, stranamente verboso, persino barocco nella costruzione della frase, dilungandosi, disperdendosi, torturandoci.
Il tempo, come sempre capita in queste situazioni di straziante attesa, si fermò, sadico come solo lui sa esserlo. I momenti si fecero lenti, viscosi, appiccicaticci l’un con l’atro ma noi corremmo più veloci di ogni soggettiva distorsione, spediti alla ricerca della parola che ci avrebbe salvati dalla disperazione, dalla sottomissione nostra, e della realtà tutta.
E la parola giunse. Finalmente e ormai insperatamente la parola che salvava arrivò e fu vergata sulla pagina, nascosta in un angolo a fine foglio ma presente, viva, possente. Indistruttibile. E alla fine fu la parola.
Alba.
E alla fine fu l’alba a salvarci.
Ma proseguiamo con ordine, lasciamo che la storia segua il suo naturale corso, che come quello degli astri nel cielo è eterno e immutabile.

Erano ormai ore che il signor Jacopus B. contava le stelle, il frazionamento del cielo si stava completando e se volessimo parlar di percentuali, in accordo all’imminente sottomissione del reale al potere matematico della mente razionale, potremmo dire che il novantasette virgola dodici del totale del cielo era stato contato e ciò che restava, suddiviso in non più di una decina di segmenti sarebbe stato passato dalla conta nel giro di una ora scarsa. Baldanzoso il nostro protagonista prosegue, conta, annota sul quadernino, conta ancora, annota e via così, senza la seppur minima soluzione di continuità e senza prestar attenzione a null’altro che non al suo dito che tocca, uccidendole, tutte le stelle, persino dimentico di ciò che lo circonda e, bontà sua, della sua stessa quotidiana esperienza. Si fosse, infatti, ricordato di almeno uno dei molti giorni sin lì vissuti, senza dubbio, gli sarebbe sovvenuto alla mente un piccolo, ma insidioso, dubbio. Ebbene, tra le molte stelle che stava contando ve ne era una che durante la notte si era nascosta ma che, birichina, al mattino sarebbe sorta verso est. Una stella così grande, così luminosa e soprattutto così egoista che avrebbe oscurato ogni altra stella lasciando il cielo limpido e privo di ogni altro astro, come a voler dichiarare ogni giorno (ogni dì potremmo dire) la sua eterna onnipresenza, la sua strafottente supremazia. Comprenderà facilmente il lettore che ci stiamo riferendo al sole, alla stella che illumina le giornate, spesso grigie, degli esseri umani.
Il signor Jacopus B., preso com’era dal suo intento sovraumano, si era completamente dimenticato di una delle cose più normali, solite, del vivere dell’uomo: il sorgere del sole al mattino, l’illuminarsi lento del cielo e la conseguente sparizione delle stelle dal cielo, nascoste dal manto di luce dell’enorme palla infuocata che sosta pigra a pochi chilometri dal nostro affaccendato pianeta.
Si accorse distrattamente che qualcosa di diverso era nell’aria, all’inizio non vi fece gran caso, troppo concentrato sulla conta, erano, infatti, davvero pochi i segmenti di cielo rimasti immuni al suo potere razionale, la vittoria era così vicina da sentirne l’odore inebriante, stupefacente che rende gli uomini euforici.
Imperterrito stava proseguendo nel suo ambizioso progetto fedele, ossequioso quasi, al metodo che aveva inventato per sottomettere a sé il reale che poco notò che qualcosa stava mutando intorno a lui. Non fu al primo sguardo, forse a secondo ma ad un certo punto il signor Jacopus B. colse le vaghe avvisaglie che intorno a lui sembravano insistere. Vi era un particolare differente che sulle prime non riuscì a catalogare. Pareva un alone, un’aura. Vi era una strana luce che nuova spuntava da destra (ovvero da est), così vaga e indistinta da essere ancora confusa con una specie di foschia, di impalpabile nebbia che si alzava dalla superficie placida del fiume.
Per un lungo momento smise di contare, il quadernino in mano e la matita nell’altra mano, fissò inebetito l’orizzonte a levante, gli occhi stanchi a domandarsi che stesse succedendo. Poi comprese e la matita gli scivolò dalle dita e cadde sul selciato ghiaioso che faceva da argine alle rive del fiume. L’alba. Quella luce che intravedeva a destra era il sole che dietro le montagne stava correndo verso l’alto a reclamare il suo regno, il suo trono e a dominare il cielo, illuminandolo di una maledetta luce gialla. Con l’alba che precipitosamente accorreva ad iniziare un nuovo giorno giunse anche la consapevolezza di ciò che la luce avrebbe causato al suo progetto e il signor Jacopus B. se ne stette attonito, incredulo a fissare la foschia luminosa farsi sempre più densa. Non è vero, non è vero, mormorava fra sé il nostro allibito protagonista.
Un’intera notte a contar le stelle, migliaia di stelle, tante da sembrar persino infinite ed ora che ne mancavano solo una manciata, in tutto non più di cinque o sei frammenti spuntava l’alba e tutto andava perduto, il suo piano, il suo desiderio; non avrebbe mai conosciuto il numero reale, finale degli astri del cielo. Mancava così poco, così poco.
Non poteva lasciarsi sconfiggere, doveva farcela, avrebbe corso, contato più velocemente possibile, ignorato la fatica degli occhi, la stanchezza delle membra, il freddo e l’umidità che gli penetravano le ossa sino a renderle porose, molli. Avrebbe trionfato contro il cielo, contro il sole e soprattutto contro il tempo. Non si sarebbe lasciato sopraffare, non si sarebbe disperato e avrebbe contato. Contato. Contato. Sino alla fine.
Il signor Jacopus B. raccolse la matita da terra, la strinse violentemente fra le dita e riprese a contare, freneticamente.

Fu una battaglia, una guerra contro l’alba, contro il sole stesso che indifferente spuntava all’orizzonte e che, nella sua maestosità, non si accorse neppure di essere sotto attacco e di stare affrontando un conflitto, uno dei tanti che gli uomini avevano dichiarato contro, smaniosi che notti non finissero mai o giorni non arrivassero ma il sole procedeva pigro e irremovibile, avanti, centimetro dopo centimetro, senza curarsi affatto degli intenti e del volere disperato del nostro signor Jacopus B.
Non ce ne voglia il lettore ma pare davvero a questo punto inutile continuare a costruire con artifici retorici e narrativi un velo che, come in un’antica danza, nasconda lievemente una conclusione che appare al contrario così evidente e manifesta; ci si lasci allora semplicemente affermare che la battaglia fu dal signor Jacopus B. persa e che il sole continuò il suo cammino e sorse imponente in mezzo al cielo.
Il signor Jacopus B. fallì, il sole sorse e le stelle, le ultime, pochissime stelle che ancora restavano da contare sparirono, e lui non seppe quante erano, fallendo il suo intento di scoprire il numero finale degli astri nel cielo. L’intelletto fallì ed ogni stella restò nel suo essere reale misteriosa, ignota, irriducibile.
Nulla però ci vieta di descrivere questi ultimi momenti della lotta del signor Jacopus B. contro l’essere intero e contro il suo campione, il sole. Epica fu la battaglia e, sebbene non potessimo patteggiare per il nostro protagonista e per il suo insensato progetto, non possiamo nascondere che, come spesso accade nei confronti degli sconfitti, provammo per lui un lungo sentimento di pietà e di tristezza condivisa.
Come accennavamo poche righe sopra, il nostro protagonista accortosi che l’alba si faceva prossima affrettò freneticamente la conta, preso da una smania folle di concludere, di arrivare al traguardo prima del sole ed urlarsi vincitore. Avesse potuto avrebbe gridato come un antico e illustre altro personaggio, fermati o sole, ma la palla infuocata che stava dietro le montagne e che, quatta quatta, si avvicinava non lo avrebbe mai ascoltato, né avrebbe obbedito.
Il dito scorreva veloce sulle stelle degli ultimi frammenti, la mano veloce a prendere nota sul quadernino ormai quasi completamente riempito delle cifre delle singole porzioni di cielo, e ancora a contare, ignorando la stanchezza che serpeggiava intorno.
Lo saprà bene il lettore, la fretta è la peggior accompagnatrice ad un progetto in cui l’attenzione, la concentrazione la fanno da padrone, contar le stelle, piccole, ormai un po’ fioche per via della luce del sole che schiarisce il cielo, ravvicinate l’un con l’altra è davvero un compito che richiede tutta la tensione mentale possibile. Fu così che il signor Jacopus B. al penultimo frammento, a poche stelle dal concluderne la conta e così affrettarsi all’ultimo e, probabilmente, battere sullo scatto il sole che ancora poltriva oltre le montagne ad est, sbagliò, si ingarbugliò, confuse una stella con l’altra o si dimenticò del numero, invertì la decina con le centinaia, o viceversa, si smarrì nel labirinto dei piccoli astri, insomma, si accorse di aver perso il conto della conta. Spalancò gli occhi in preda al più vivo terrore, doveva ricominciare daccapo a contare gli astri di quel penultimo segmento, di nuovo, un’altra volta. Maledizione! Il tempo correva e lui si perdeva in questi stupidi errori, era stanco, spossato, inseguito da un globo di fuoco che pareva inarrestabile, tutto sembrava complottare contro la sua forza, contro il suo progetto, l’esistente stesso sembrava ordire intrighi ed imbrogli.
Per la prima volta da quando questa storia era cominciata il signor Jacopus B. si scoprì stanco, percepì sino in fondo il suo essere mortale, piccola, insignificante cosa, nel disegno di un esistente, di un reale così immenso da essere fondamentalmente inconoscibile e, di fatto, inumano. In quel momento percepì la sua natura propria (ontologica direbbero i saccenti filosofi) di essere finito e, così, smise di contare, lasciandosi semplicemente conquistare dalla bellezza del sole che sorgeva oltre il picco più alto dei monti all’orizzonte e mentre le stelle si spegnevano, abbagliate dalla sua luce.
Senza preavviso, quasi senza rammarico fermò il dito contatore e posò il lapis con cui aveva vergato di innumerevoli numeri il quadernino arancione. Non aveva più la volontà di proseguire, come se l’inumana fiammella che lo aveva sin lì spinto e ne aveva alimentato l’incedere si fosse esaurita e, quasi come un automa senza energia, il signor Jacopus B. si era fermato, bloccato, immobile nella sua postura un po’ ingobbita. Fu improvviso, inaspettato, fu come se si accorse di essersi interrotto osservandosi immoto. Non vi aveva pensato, non si era fermato a soppesare le possibili conseguenze, le differenti opzioni, non aveva volontariamente deciso di smetterla. Semplicemente aveva smesso, rendendosene conto nel prenderne atto, nell’osservarsi fermo. Fu così che il signor Jacopus B. desistette dal suo intento di contar le stelle e se ne restò tranquillo seduto sulle sponde del fiume ad osservare il mondo che lo circondava.
Quante stelle mancavano al signor Jacopus B.? Non possiamo saperlo, né tanto meno lo vogliamo, ma se seguiamo i presupposti della proporzione potremmo ipotizzare non più di un centinaio, un numero davvero irrisorio se pensiamo che fino al momento in cui il nostro protagonista smise di contare ne aveva segnate sul quadernino arancione oltre il milione.
Ma ciò non importa, ne sarebbe potuta mancare una sola sarebbe stato comunque sufficiente a far fallire il progetto di sottomissione del reale e far fuggire, con la coda fra le gambe, l’intelletto e la razionalità umane.
Ormai poco manca alla fine di questa nostra lunga rendicontazione, prima però di concludere e di riflettere sui significati nascosti che si celano nella pagine appena vergate pare opportuno dedicarci al nostro buon signor Jacopus B. ed osservare come terminò la sua particolarissima serata.
Infreddolito, come se sentisse per la prima volta il freddo e l’umidità del mattino, il signor Jacopus B. si raccolse ancora di più nel lungo cappotto e strofinandosi le braccia con le mani gelate e immobile se ne stette un po’ a veder il sole spuntare. Il sole che faceva capolino da est pareva un misterioso pittore che all’improvviso avesse deciso di gettar colori a caso su una tavolozza, ed ecco così che davanti agli occhi del nostro protagonista ogni cosa si ammantava di un colore diverso, che repentinamente cambiava, facendosi più caldo, più luminoso man mano che il sole s’alzava all’orizzonte.
Per la prima volta da quando si era seduto su quella panchina la sera prima il signor Jacopus B. guardò ciò che lo circondava, il paesaggio non era più solo una matrice, una piantina da possedere e razionalizzare, un foglio punteggiato da sottomettere a sé. No, ora il signor Jacopus B. guardava il mondo e cui vedeva qualcosa d’altro, qualcosa che non riusciva a spiegare, forse neppure a comprendere, un elemento impalpabile, qualitativo e, in quanto tale, irridibile ad ogni forma di analisi quantitativa. Vide gli alberi che si riflettevano nelle acque fredde del fiume, osservò i pesci guizzare svegliati dal sole e gli uccelli canticchiare come adolescenti innamorati e si sorprese, si stupì di come tutte questo fosse ogni giorno intorno a lui e lui non vi avesse mai dedicato attenzione, quasi senza neppure vederlo.
Il mondo della sua vita in cui lui era quotidianamente immerso gli era stato oscuro per tanto tempo. Si, forse l’aveva visto, rivisto, ammirato, amato ma non come in quel momento, in quel preciso attimo in cui il suo folle ed ancestrale desiderio di possedere le stelle era svanito e ciò che era rimasto era un mondo nuovo, mai osservato, né da lui, né da nessun altro, una realtà vera, libera da ogni costruzione dell’intelletto, priva di ogni struttura razionale atta a possederla, limitarla, descriverla, un mondo che era semplicemente lì e nulla si doveva far altro che guardarlo. E la lasciarsi sorprendere e conquistare, abbandonandosi alla propria meravigliosa finitudine.
Il signor Jacopus B. in quel preciso momento stava osservando il mondo stesso della vita che libero da ogni sustruzione razionale e intellettiva si svelava a lui, si donava come un’amante sincera e passionale ma che nulla chiede se non di essere a sua volta amata.
Per la prima volta nella sua vita il signor Jacopus B. era veramente nel reale, e lo era perché si era accettato nella sua natura finita e fallibile, nella sua impossibilità di dominare e di possedere l’esistente tutto. Insieme a questa venne un’ulteriore consapevolezza, terribile e spaventosa ma che doveva venir semplicemente accolta, senza nessuna spiegazione o consolazione: egli (come ogni altro essere vivente) era in completa balia del mondo, nulla poteva per conoscerlo, per modificarlo, per sottometterlo ai propri desideri. Niente per evitare il dolore, la frustrazione, il pianto, la rabbia, l’umiliazione, tutte cose che erano parte fondamentale ed irrinunciabile di quel mondo della vita che il signor Jacopus B. quella mattina per la prima volta vide.
Era l’accettarsi come essere mortale, limitato, succube del capriccio della realtà indifferente, menefreghista al volere, al quotidiano lottare dell’uomo e sfacciatamente immune ad ogni attacco razionale o folle che fosse; ecco, questa era scandalosa verità che quella mattina il signor Jacopus B. vide e tramite essa, come in una lente, per la prima volta osservò il mondo che ogni giorno lo circondava, nascosto sinora dietro paraventi di inutile costruzioni intellettuali e dietro veli di presuntuosa onnipotenza.
Il nostro protagonista rimase seduto ancora un po’ sulla panchina sino a che stanco e infreddolito s’alzo e si diresse a passo sostenuto verso casa.
Dedichiamoci ancora qualche momento a portare a termine gli ormai pochi punti rimasti in sospeso di questa arzigogolata rendicontazione. Ritroveremo il signor Jacopus B. nel suo appartamento e là prenderemo commiato da lui sino alla prossima avventura tratta dalle pagine delle “cronache”.
Prima che questa lunga e peculiare rendicontazione giunga alla sua ultima parola ci consenta il lettore di dedicare ancora qualche breve cenno ad un fatto che merita di non esser abbandonato in un angolo polveroso della narrazione, dimenticato e un po’ ignorato. Il narratore, ed in questo particolar caso colui il quale verga queste stesse parole, deve trovar il coraggio di affrontare un’annosa questione che è rimasta inconclusa e forse anche confusa, lo deve al lettore e alla pazienza che ha dimostrato nel seguirci lungo le sinuose vie della vita del signor Jacopus B. che qui, in questo momento, ci hanno condotto.
Ed ecco allora le righe che mancano.

Il signor Jacopus B. si alzò dalla panchina, stanco e freddoloso per la lunga notte passata a fissare il cielo nero pieno di stelle, ripercorrendo nella mente le ore passate, la conta quasi conclusa e la follia di un piano che avrebbe dovuto portarlo a dominare la realtà stessa, la natura ed ogni altra cosa. Stupito di se stesso, quasi incredulo, tanto da non riconoscersi nell’uomo che con così tanta determinazione aveva affrontato, sfidato il cielo e tutte le stelle, si chiese da dove venisse quel suo folle desiderio, cosa l’avesse spinto a snaturarsi così violentemente da abbandonare tutte le sue credenze, le sue convinzioni, le sue certe illusioni e a rinnegare tutto ciò che aveva sempre considerato come proprio di sé stesso, del signor Jacopus B.?
In un gesto nervoso si sgranocchiò un’unghia e s’incamminò verso il suo appartamento pensieroso, cercando dentro di sé la risposta che qui, con il nostro protagonista, vorremmo tracciare.
Non abbiamo mai nascosto al lettore, e non lo faremo certo ora, che l’intento che soggiace (non troppo segreto) a queste lunghe e, a volte noiose, disamine degli episodi della vita del signor Jacopus B. abbia una certa pretesa di universalità, o, se nel caso questa parola spaventi, semplicemente la si dica “intersoggettività”. Vorremmo cercare, nell’entrare nei dettagli del senso che si annida nei fatti biografici del signor Jacopus B., di trarre degli insegnamenti, dei paradigmi con cui orizzontarci in quel mare confuso e tempestoso della nostra vita. Oh, non tema il lettore, non v’è alcun intento moralizzatore o pedagogico, troppo scarsa la considerazione che il narratore ha di se stesso per poter assurgere al ruolo di maestro o di vate, molto più umilmente e banalmente qui si vorrebbe offrire al lettore degli esempi di episodi realmente accaduti che possano, volendo, venir utilizzati come mappe per comprender meglio i fatti che ogni giorno ci accadono e che, il più delle volte, ci paiono discretamente assurdi.
Una mappa del regno del signor Jacopus B., che, naturalmente, è ben diversa da ogni carta dei territori delle altre persone ma, grazie ad un processo strano, quasi magico, si potrebbe ipotizzare che questa mappa possa essere traslata, trascesa, trovandovi così affinità e similitudini, percorsi identici, confini simili, fiumi che scorrono nella medesima direzione e strade che portano allo stesso traguardo e, in questo modo, fornirci qualche suggerimento utile, che saremo poi liberi di accettare o di rifiutare infastiditi.
Il signor Jacopus B. se ne andava per la città col passo spedito ripercorrendo le vie che poche ore prima aveva frettolosamente camminato con l’impellente desiderio che gli esplodeva nella mente di contare e possedere il cielo. Si interrogava ora, ritornando sui suoi passi, di quel desiderio e se ne chiedeva l’origine, il significato, e soprattutto si crucciava di non riconoscerlo come proprio. Era una sensazione particolarmente fastidiosa, il signor Jacopus B. sapeva di aver desiderato con tutto se stesso una cosa ma non riusciva a capire come fosse stato possibile che fosse accaduto. Aveva bramato intensamente qualcosa per cui mai aveva espresso il minimo interesse, la minima curiosità, era sempre stato un uomo conscio dei suoi limiti di specie e personali ed, anzi, se ne pasceva perché in quei confini riusciva a definirsi come essere vivente, umano, limitato nel senso di fallibile, di imperfetto, e in tal modo sapeva di poter trovarvi rifugio per le colpe, per gli errori che nella sua vita aveva commesso. Proprio nel suo non essere creatura onnipotente e perfetta, potevano venirgli perdonati gli sbagli che aveva commesso e quelli che ancora avrebbe commesso (altra sarà l’occasione di narrare di colpe del signor Jacopus B. che non furono perdonate).
E allora perché volersi rinnegare come creatura imperfetta e assurgere, evolvere, ad essere dominatore del reale, della natura, per quale ragione voler sottomettere l’intero creato al poter mortale e freddo del proprio intelletto? Lui, il signor Jacopus B., che poi si era sempre considerato un razionalista sui generis, amante dei voli pindarici e dei ragionamenti così strampalati propri di alcuni pensatori eccentrici che parevano essere frutto più del cuore che non del cervello.
Da dove era giunto e che senso allora aveva quel desiderio che dal fondo delle viscere del nostro amato protagonista era risalito impellente e assoluto tanto da cancellare ogni altro pensiero (si ricordi il bicchiere di vino, lasciato colpevolmente a metà sul tavolo)?
Il signor Jacopus B. se lo chiedeva, continuamente, passo dopo passo come un ritmico accompagnamento al suo tornare verso casa. Quel desiderio che apparentemente gli era così estraneo ma che veniva da un fondo nascoste e nero dentro di lui che senso aveva? Quale il suo significato e la sua ragione?
Questa narrazione sta giungendo al termine, e già molto abbiamo approfittato del tempo del nostro solito, paziente, lettore che ci sembra corretto questa volta non ingannarlo con astrusi giochi narrativi, suspence costruite per ammaliare ed intrattenere; pare che in questa occasione la sincerità immediata, libera da costruzioni abbellenti e fiorite, sia la scelta più corretta e rispettosa del nostro lettore. Allora, senza altri indugi, riportiamo la risposta alle domande su cui il signor Jacopus B. si scervellava lungo il lento tragitto dal fiume verso casa, mordicchiandosi le unghie.
Ebbene, non vi è nessuna risposta.
Il signor Jacopus B. giunse nei pressi del palazzo in cui v’era il suo appartamento senza essere riuscito a trovare un perché sufficientemente valido alle sue domande, ai suoi quesiti, e neppure la vista della strada deserta su cui poche ore prima aveva incontrato bizzarramente un uomo con un cammello, gli fu di qualche aiuto. Solo quando entrò nel portone del palazzo e si mise a salire le scale verso il piano del suo appartamento, smise di interrogarsi e accettò, una fra le tantissime, che quella domanda restasse orfana di una risposta, e che continuasse a vagare inascoltata per sempre, senza alcuna aspettativa di un responso futuro.

Ma se per il signor Jacopus B. tale domanda resterà inesplorata ed inindagata noi potremmo suggerire al lettore una strada differente. Si potrebbe inviare il lettore a cercare, se davvero curioso, il senso di quel desiderio quasi blasfemo in un modo nuovo, non razionale, smettendo di porsi domande e di interrogarsi ma semplicemente ascoltando con attenzione.
Ascolti, lettore, ascolti.
Non ode forse uno strano rumore di sottofondo? Un brusio, no… forse meglio un brontolio, un borbottare, o forse è altro? Un ghigno malefico, un digrignar di denti, non sembra quasi di sentire nell’aria il rumore viscido della saliva che sbava sul volto deformato di una creatura famelica e bramosa?
Lo sente, il lettore? Ascolti.
Il signor Jacopus B. sembra non sentirlo, ed è per lui una fortuna sfacciata ma se il lettore presta la giusta attenzione, ogni tanto, potrà udire dentro di sé le urla folli e insaziabili di una mostruosa entità che gli vive dentro, rannicchiata nelle profondità più nere della sua natura umana. Una cosa vivente identica per ogni essere umano che abbia mai vissuto o che mai vivrà, un essere bramoso antico, un bambino viziato.
Lo ode il lettore?
Sono le urla del cucciolo ingordo dell’umanità che ha solo un folle desiderio di possessione, grida per avere ogni cosa, sbava per distruggere nel far sua ogni cosa. Una creatura orrenda, sadica ed egoista, i cui desideri, che giacciono nel fondo di ciascuno, a volte sono così forti da risalire le spire della coscienza ed imporsi. E nulla l’uomo cosciente può fare, non v’è altra soluzione che l’obbedienza, la sottomissione. All’orizzonte di queste fameliche invocazioni c’è l’annullamento delle false illusioni di una società che si inganna reputandosi immune da ogni forma di repressa animalità.

Il signor Jacopus B. entrò nel suo appartamento quando ormai sole era alto nel cielo e un calore primaverile si diffondeva nell’aria profumata dai fiori che sarebbero presto sbocciati. Non era impegnato a teatro quel giorno, e allora, assonnato, decise si sarebbe steso sul letto e avrebbe riposato qualche ora, e forse persino dimenticato la stramba avventura della notte che già pareva dissolversi nelle nebbie di un salvifico oblio. Prima di coricarsi però andò in cucina dove vide sul tavolo il bicchiere di vino che la sera prima aveva abbandonato sul tavolo. Il liquido rosso ancora ristagnava nella coppa trasparente di cristallo e identici erano i riflessi rubino che sembrava emanare. Si avvicinò al bicchiere, lo prese in mano e lo osservò con attenzione il . Ne annusò con passione il profumo, e per un attimo si smarrì ad ammirarlo, ma tutt’ad un tratto gli sembrò di udire un ghigno, un malevolo grugnire, lontane e folli urla cattive. Scosse il capo e si avvicinò al lavandino e vi versò il contenuto del bicchiere, osservandolo perdersi, come un rivo porpora denso come il sangue, nello scarico. Tornò in camera un poco pensieroso, si coricò e dopo pochi momenti in ascolto di qualcosa che pareva venire da lontano si addormentò profondamente.


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08\12\2007

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