Conclusione
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Siamo giunti alle battute finali di questa nostra quinta Ermetica Ermeneutica, abbiamo percorso un lungo ragionamento ipotetico lasciandoci aiutare dalla riflessione, o per meglio dire dalla sensibilità poetica, di un autore completamente avulso dai temi cari al Connettivismo e dobbiamo ora trarre le conseguenze di questo nostro cammino.
Siamo partiti da un’ipotesi indimostrata, ovvero che l’uomo, evolvendo dalla sua omità verso una post-umità tecnologica, avesse creato uno strumento di comunicazione pressoché perfetto in grado di veicolare fluidamente i vissuti di ogni soggetto prima che questi si categorizzassero in parola ed espressioni linguistiche. Una forma originaria di comunicazione pre-lingusitica e in grado di trasportare il contenuto “molle” di ogni Erlebnis.
Avevamo dunque osservato come tale forma di comunicazione garantita dallo strumento tecnologico avanzato permettesse la totale apertura del sé a tutti gli altri sé interconnessi tramite esso. Un venir meno delle barriere della stessa soggettività e della stessa percettività dove diventava difficile (impossibile?) comprendere a quale pronome si potesse riferire un qualunque vissuto esperito (mio, tuo, suo, ecc.). Tale coesione immediata e completa dei post-soggetti-agenti dava spontaneamente vita ad una comunità indistinta di esseri viventi, una post-comunità caratterizzata da una fusione (e confusione) del singolo soggetto-agente con tutti gli altri soggetti-agenti.
Proprio a questo punto della catena deduttiva si spalancava davanti ai nostri occhi il tema verso cui questa Ermetica Ermeneutica voleva tendere sin dall’inizio. Un punto di approdo che è in realtà un dubbio, una incertezza e, diremmo, un timore.
Quale ruolo manterrebbe la singola, indistinta soggettività individuale all’interno di questa comunità collettiva di pronomi confusi? Vi sarebbe salvaguardia della specificità individuale di un soggetto-agente tale per cui egli possa ancora riconoscere come proprio un vissuto e come altro un vissuto terzo? Sarà ancora in grado il post-soggetto-agente interconnesso a questo strumento di comunicazione perfetto di rendersi conto che quel sapore che sta esperendo è frutto del cibo che sta ora, effettivamente, mangiando e non che sia la sensazione di un altro individuo che lontano migliaia di chilometri si ciba di un piatto esotico?
Procedendo nella nostra riflessione ipotetica ci siamo già sbilanciati sul fatto che a nostra personale opinione tale individualità venisse preservata. Siamo stati sin dall’inizio convinti che nonostante il potere comunicativo enorme dello strumento l’individualità del pronome di prima persona singolare mantenesse una riconoscibilità e una superiorità manifesta su tutti gli altri pronomi. Il post-soggetto-agente interconnesso nello strumento, a nostro parere, sarebbe ancora in grado di percepirsi come un “io”.
Questa era però solo la nostra impressione, dettata da fattori a-logici, a-razionali e assolutamente privi di ogni plausibilità filosofica e deduttiva. Era un “belief”, una credenza che, in quanto tale, non poteva trovar spazio in una riflessione che voleva essere logica e rigorosa.
Quali strumenti avevamo per dimostrare (se non scientificamente almeno filosoficamente) che questa nostra impressione era corretta?
La risposta è semplice: nessuno. Non potevamo avere nessuna possibilità perché il ragionamento che stavamo compiendo era puramente ipotetico, stavamo discutendo con rigore logico di uno stato di fatto costruito su un presupposto completamente sustruito e assolutamente non verificabile.
L’origine ipotetica del nostro ragionamento (ovvero la possibilità stessa dell’esistenza di un post-soggetto-agente e di uno strumento di comunicazione tecnologico perfetto) rende impossibile ora, giunti al termine del percorso deduttivo, possedere dati sufficienti per un’analisi che sia razionale e plausibile filosoficamente. Se lo strumento di comunicazione è solo un’”ipotesi” logica creata per gioco come possiamo studiarne il funzionamento meccanico esatto per arrivare a dire che la sua attivazione comporta nel soggetto utilizzante queste o quelle conseguenze? Neppure esiste questo strumento di comunicazione perfetto!
Come risolvere questo inghippo? Come dare maggior peso a quel nostro “belief” che sentivamo di dover confermare?
La soluzione ci è giunta dal meccanismo paradossale e scandaloso che costituisce il cuore di questa rubrica: leggere un autore che nulla ha a che vedere con i temi, gli argomenti, il contesto trattato e considerarlo “come se” ne fosse, al contrario, pienamente inserito.
Nelle nostre letture serali ci siamo resi conto che John Ashbery, un poeta contemporaneo americano appartenente alla scuola di New York, aveva seguito, per vie assolutamente tortuose, la nostra medesima riflessione e si era trovato sulle soglie dell’identico dubbio, dell’identico timore. “Fino a che nessuna parte rimane \ che sia sicuramente te”, ecco la paura che Ashbery esprime nella sua poesia: che niente rimanga del soggetto agente.
Il poeta americano, come visto nelle pagine sopra, dipinge nel suo immane e caotico corpus poetico una realtà in cui un uomo nuovo, lontano dal vecchio “Uomo Qualunque”, ha divelto le porte del proprio sé aprendole a tutti gli altri soggetti, superando il confine della propria individualità e abbattendo le frontiere del sé.
Ashbery però non è un filosofo, il suo procedere non è logico e razionala ma puramente epifanico, egli ha “poetato” un tutto che gli si è rivelato, lì di fronte alla sua barocca poesia. Un’intuizione, una semplice intuizione della poesia.
Quanto altre volte abbiamo osservato in queste nostre Ermetiche Ermeneutiche quel misterioso potere proprio della poesia di cogliere, misteriosamente e quasi magicamente, connessioni segrete, realtà nascoste, crepe invisibili su mondi alternativi e autentici, ebbene, ancora una volta la poesia ci sorprende. La poesia di Ashbery riesce a dipingere il medesimo paesaggio futuribile a cui noi siamo giunti solo grazie a deduzioni logiche e severe ma soprattutto è in grado di andare persino oltre queste deduzioni. La sua poesia si fa carico del dubbio e del timore conseguenza diretta del paesaggio immaginato (la scomparsa del sé) e ne dà una risposta che è, così, semplicemente, manifestamente, limpidamente, vera. Vera perché poetica.
E allora lasciamo la parola ad Ashbery:
confondendosi con i molti,
percepisce se stesso tuttavia come un individuo
Ashbery poeticamente intuisce e rivela che la soggettività individuale del singolo essere, pur confuso con i molti, resterà salvaguardata, garantita nella sua unicità. Il soggetto continuerà a percepirsi ancora come un singolo “individuo”.
Ecco che allora, quella che per noi era stata solo un “belief” assolutamente ingiustificabile filosoficamente si ammanta ora di una forza inaspettata, un alone nuovo, potente che rende banalmente vera ciò che era solo una credenza.
Vera non perché dedotta logicamente o giustificata filosoficamente, vera in un senso nuovo, in un’accezione completamente poetica. Vera perché esistente nella poesia, perché intuita dalle parole di Ashbery, perché vissuta nel verso della sua produzione lirica.
Non abbiamo strumenti logici o scientifici per dire se il post-soggetto-agente interconnesso potrà mantenere la sua individualità ma possiamo affermare poeticamente che così sarà.
La parola poetica rende vero ciò che la parola logica non può neppure conoscere.