15 dicembre 2008

Foglie di cenere nel tramonto

Non ricordo le ragioni

Non ricordo le ragioni.

Tu mi dicevi sempre che sragionavo
Mentre pensavo alle pagine dei libri.

Eccole lì ora,
Foglie di cenere nel tramonto.

Volano via insieme al tempo
Che con te ho vissuto.

Arie di Natale

Arie di Natale
Nell’aria di una sera dicembrina,
Solite note che sanno di freddo
E forse anche un po’ di plastica.

Le ascolto seduto
E nel frattempo scrivo
I soliti versi che sanno solo
Di noia e un po’ di niente.

Naturale Condizione di un Altro Vivere

Non esiste altro che un borbottante silenzio,
Gente accalcata in religioso omaggio
Di una noia festiva
E identico si ripete il rito
Di ogni mattino:
Folla rumore e omologazione.

Tra loro siedo scrivendo
E forse invisibile
Osservo osservato
Nessun confine.

Nella mente i pochi altri pensieri
S’inseguono s’accalcano
E certo si chiedono
La solita consueta normalità
Che a me pare un lontano
Strano miraggio.

Io sono colui che eternamente muore
Come se la Morte fosse
Naturale Condizione di un altro vivere,
Perenne deperimento senza conclusione
Se non forse
Consunzione o una vaga forma
Di strano amore.

Chiudo gli occhi
E nel nero delle palpebre
Ricordo il mio nome e il tessuto
Di questa realtà.
Nessun taglio,
Fontana,
Nessun taglio,
Solo l’infinita
Monocroma
Tela.

Samarcanda

La Morte! Mio dio! La Morte!
E Samarcanda osserva il sole spegnersi
Nel rosso.

Le scarpe nella polvere
E la fatica sul volto
Il mercante resta fermo e osserva
La Morte
Venuta apposta per portarselo
Via.

La folla fugge e urla,
Urla e grida,
La paura della fine
E delle poche altre sue
Cose.

Un corvo svolazza
E qualche altro uccello gracchia
E sui tetti alti della città
Il cupo silenzio.

L’uomo osserva
E poi ascolta
Il passo lento
Della bella dama
Senza alcuna pietà.

Nera, scheletrica
E bella
La sua voce il taglio del violino
E tanto sangue.

Ti aspettavo.

Ho corso più che potevo.

Vieni come me.

Tu sei qui per me.

Io sono qui per te.

Tu sei la Morte.

Io sono la Morte.

Mi avevano detto che saresti venuta.

Non sbagliavano.

Ho avuto paura.

Di me, mercante?

No. Che ti fossi dimenticata.

Io non posso
Dimenticare.

E io non posso più
Ricordare.

Ogni volto mortale è in me.

Non rammento più il suo viso.

Io sono ognuno di voi.

Io non sono niente e nessuno.

Tu ora sei me.

Io ora sono te
E in te sono ognuno.

In me sei con lei.

Portami via.
Ora ricordo.

Dammi la mano.
Ora sei morto.

La piazza tornò
Silenziosa
E triste
Come era sempre stata

12 dicembre 2008

The Mirror and The Gun

Shot del Cortometraggio che Alberto Rizzi di Seautos
sta realizzando dal racconto
"Lo Specchio e la Pistola"
uscito sulle pagine del mitico numero 4 di NeXT.

04 dicembre 2008

Muta invocazione d’aiuto

Rami di Verdi Lame (11)
Il monaco sputò l’ultimo grumo di bile e con il dorso della mano tentò di pulirsi dai filamenti di bava e succhi gastrici. Lo avevano preparato. Dopo tanti cicli seduto all’interno del cubo-merci, al buio, al silenzio innaturale di pareti vischiose e molli il suo corpo non avrebbe retto alla luce del sole, all’aria iperossigenata e alla sensazione di poter camminare di nuovo. Il suo stesso corpo si sarebbe ribellato come se non avesse potuto più fare a meno della prigione perfetta in cui era stato confinato per lunghi cicli.
A carponi il monaco lasciò che le lacrime di dolore colassero a terra insieme alla massa acida che aveva appena vomitato. La sofferenza per le contrazioni gastroenteriche del suo intestino era violenta, uno spasmo continuo e incessante. Osservò la pozza sul prato, bile, saliva, lacrime e vomito. Era il suo personale battesimo al pianeta. Quel mondo ora era eletto ai suoi liquami, secrezioni sacre sulla superficie ignota di una terra periferica.
Lentamente si alzò, le gambe ancora malferme e gli occhi sovraesposti alla luce del gigante bianco nel cielo. Si guardò in giro. Non vide nessuno. Si stupì di essere solo nella radura. Se li aspettava. Tutti intorno. Armati con la migliore tecnologia persuasiva, pronti ad ogni azione pur di fermarlo. Dove erano gli emissari dell’Impero? I cani dell’Imperatore?
Fu sfiorato dalla speranza che qualcosa fosse successo in quei lunghi otto cicli segregato nel cubo-merci; che l’Impero fosse caduto e tutto l’universo nelle mani del Priore e dell’Ordine? No. Sapeva che non era possibile. Impero, Ordine e Gilda erano facce di uno stesso prisma. La rovina di una delle facce avrebbe portato alla distruzione delle altre. Alla distruzione dello stesso universo.
Perché non erano nella radura ad attenderlo?
Si voltò e fissò l’interno del cubo-merci, la sua mefitica casa per lunghi cicli standard. Era stato allenato ed educato al rispetto, all’obbedienza più cieca verso gli ordini impartiti. La volontà del Priore era la sua volontà. Sarebbe morto, si sarebbe dato immediatamente la morte se solo il Priore l’avesse chiesto. Anche per gioco. La sua educazione era salda ma aveva orrore del cubo-merci. Era il suo carnefice ed ora voleva solo fuggir via, abbandonarlo. Ma non poteva.
A piccoli passi, insicuri e claudicanti, il monaco rientrò nel cubo-merci e vi rimase nascosto per lunghi momenti.
Nell’aria un leggero fischio sibilava ovunque.
Il monaco uscì di nuovo dal cubo-merci portando con sé un piccolo zaino. Tra le mani stringeva un apparecchio. La forma ergonomica per adattarsi perfettamente al palmo della sua mano, bianco, intonso. In alto un piccolo bottone. Il monaco lo premette e il leggero fischio nell’aria si spense improvvisamente.
Disattivato il meccanismo di difesa sonora il monaco mise l’interruttore in una tasca dello zaino e lentamente fece alcuni passi verso il centro della radura. Dopo pochi metri si chinò e sfiorò il terreno muschioso con le dita e si ricordò che sul suo pianeta natale il muschio si era estinto secoli prima. Inutili gli sforzi per salvarlo.
Il monaco fu tentato di gettarsi a terra e rotolarsi sulla superficie verde, profumata e umida. Fu tentato di farlo ma si trattenne. Sapeva che l’effetto stordimento del fischio di difesa del cubo-merci poteva durare anche molto ma solitamente non andava oltre 1\10.000 cicli standard. Anche se non vedeva nessuno era pericoloso restare in quel luogo con il cubo-merci. Era un bersaglio troppo evidente. Ne era certo, era successo qualcosa d’imprevisto ma di sicuro gli stavano dando la caccia. Sentì quasi il rumore del cani infuriati, come ad una caccia alla selvaggina. Si ricordò della sua missione. Delle parole del Priore Tiresia, il Cieco. Non perse altro tempo a fantasticare.
Estrasse dalla borsa un libro. La pelle conciata come da secoli non si faceva più. Il monaco lo tenne stretto come il più grande segreto e si allontanò dal cubo-merci senza mai voltarsi. La foresta lo accolse come se fosse un figlio tornato dopo un lungo viaggio.
Intanto la vendicatrice se ne restava inerte ed inebetita a fissare il cielo in alto sognando voci che non udiva. Il sibilo era cessato nel momento stesso in cui il monaco aveva premuto il bottone ma la donna non se ne era neppure accorta. Le sinapsi ancora alterate dal suono, nessun pensiero cosciente. Solo una muta invocazione d’aiuto.

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01 dicembre 2008

Il Sibilo

Rami di Verdi Lame (10)
La donna restò acquattata fra gli arbusti. Intorno era calato un silenzio innaturale. Non sentiva più il gracchiare acido dei rapaci neri, né il ronzio fastidioso degli insetti. Era come se l’intera foresta di fosse fermata. Immobile ad osservare l’oggetto sceso a terra dolcemente, cullato da sbuffi d’aria che si intervallavano, ora da un lato, ora dall’altro. L’oggetto nero a forma di cubo aveva attraversato il fitto fogliame senza difficoltà. Molti rami erano stati divelti e alcune piante schiacciate sotto il peso del suo passaggio. Un foro di luce segnalava il luogo in cui il cubo aveva penetrato la foresta. Era come una ferita che faticava a rimarginarsi.
Il cubo planò a terra ondeggiando, lentamente. Si posò sul suolo muschioso come adagiato da una mano affettuosa. Un ampio fascio di luce proveniente proprio dalla squarcio inflitto al fogliame in alto irradiava l’oggetto metallico, riflessi dai colori cangianti scivolavano sulla sua superficie perfettamente geometrica.
L’eretica seppe immediatamente che quello era un oggetto blasfemo. Non ne ebbe alcun dubbio. Ne percepiva fisicamente la cattiveria, il male, il dolore, la follia. Per un momento pensò che il cubo nero fosse sceso lì per lei, per punire i suoi peccati. La sua suprema colpa. Condannarla all’eterno patire per aver violato il sacro tabù. Ma non era superstiziosa. Sapeva che il cubo non era stato costruito da una divinità ma dagli uomini. Forse dagli stessi uomini dell’Impero che avevano eretto le torri bianche. Uomini orrendamente fusi con il metallo.
Nascosta nel muschio si sentiva invisibile, una macchia verde sullo sfondo verde della sottobosco. I suoi abiti, la corta tunica, i pantaloni di cuoio non lavorato macchiati dai mesi di peregrinazione tra i boschi, persino il suo volto stava cominciando a colorarsi del verdemarrone dei tronchi, delle foglie, del muschio. Stava divenendo un’emanazione diretta, un volto nascosto della foresta. L’ancella degli alberi.
Uno tonfo sordo la distrasse dai pensieri. Fissò l’attenzione sul cubo. Qualcosa stava accadendo. Un sibilo acuto ferì il silenzio della foresta. Un lungo, assillante, sottile fischio proveniva dal cubo.
Il suono si fece più alto, più intenso.
Insopportabile.
La donna si coprì le orecchie con le mani, premette con forza sino a farsi male. Quel rumore le stava entrando nella testa, la stordiva, le impediva di pensare. Di ragionare. Era come immobile. Non riusciva più neppure a muoversi, gli occhi spalancati e la mente, ogni granello della sua coscienza, fissata sul suono lancinante che le penetrava il cervello, quasi una lama, lunga, sottile, ghiacciata. Impudica.
Tentò di urlare ma non riuscì neppure a formulare il pensiero dell’urlo.
L’eretica non capiva, non riusciva a pensare. Tutto era il sibilo acuto. Il mondo si era trasformato in quel fischio e null’altro esisteva, niente altro aveva significato.
Dimenticò la sua lotta, il suo popolo, dimenticò persino se stessa. Restò solo il dolore della lama sonora che le stava squarciando il cervello.
Un rigagnolo di bava le scese lungo il lato destro del mento lasciando una striscia biancastra sullo sporco che si era accumulato nei mesi di vagabondaggio nella foresta. Un insetto vi si posò sopra e bevve avido il liquido denso. Poi volò via.
L’assassina tentò di desiderare che il suono cessasse, si sforzò di formulare il pensiero che la uccidessero. Il proprio assassinio. Ma ebete continuava solo a premere inutilmente le mani contro le orecchie senza sentire l’indolenzimento delle braccia o la cartilagine dei padiglioni deformarsi.
Immobile, gli occhi spalancati. Ciechi. Non vide il cubo aprirsi. La parete distendersi a terra con un movimento leggero, delicato. Non sentì il tanfo che ne uscì. L’odore nauseabondo di anni di clausura umana, fetore di feci, urine, bile e morte.
Non riuscì a mettere a fuoco, nel dolore buio che le stava devastando la fronte, l’uomo coperto da una tunica lercia e consumata. Non lo vide fare un passo oltre la soglia nera del cubo e guardare il cielo riparandosi gli occhi con le mani. Non lo vide inginocchiarsi improvvisamente e sul pannello del cubo poggiato per terra come una passatoia vomitare succhi gastrici melmosi.
Non vide nulla di tutto questo. Continuava solo a sentire dentro la mente, tra pareti del cranio, lungo le circonvoluzioni del cervello, dentro le vene e intorno ad ogni singolo neurone il sibilo.
Il Sibilo.
Sibilo.

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